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Autore Discussione: Libia Parisi: “Non ci sono le condizioni per mandare i nostri uomini”  (Letto 2249 volte)
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« inserito:: Marzo 06, 2016, 06:59:23 pm »

La grande spartizione della Libia: un bottino da almeno 130 miliardi

Di Alberto Negri, con un’analisi di Vittorio Emanuele Parsi
6 Marzo 2016

Quando si incontreranno martedì al palazzo Ducale di Venezia, Matteo Renzi e François Hollande guardandosi negli occhi dovrebbero farsi una domanda: per quali ragioni facciamo la guerra in Libia?

La risposta più ovvia - il Califfato - è quella di comodo. La guerra di Libia è partita nel 2011 con un intervento francese, britannico e americano che con la fine di Gheddafi è diventato conflitto tra le tribù, le milizie e dentro l’Islam, che però è sempre rimasto una guerra di interessi geopolitici ed economici. L’esito non è stato l’avvento della democrazia ma è sintetizzato in un dato: la Libia era al primo posto in Africa nell’indice Onu dello sviluppo umano, adesso è uno stato fallito.

Il rientro in Italia degli ostaggi italiani
La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio.

Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare.

Per loro, anche se l’Italia ha perso in Libia 5 miliardi di commesse, stiamo già accantonando risorse per un contingente virtuale in barili di oro nero. Non è così naturalmente, ma “deve” essere così: per questo l’ambasciatore Usa azzarda a chiederci spudoratamente 5mila uomini. La dichiarazione di John Phillips, addolcita dalla promessa di un comando militare all’Italia, sottolinea la nostra irrilevanza.

La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi. Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della Banca centrale e del Fondo sovrano libico che sta a Londra dove ha studiato per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il figlio di Gheddafi, un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari di tutti gli arabi che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio nella City. Oltre alla Bp e alla Shell in Cirenaica - dove peraltro ci sono consorzi francesi, americani tedeschi e cinesi - gli inglesi hanno da difendere l’asset finanziario dei petrodollari.
Anche i russi, estromessi nel 2011 perché contrari ai bombardamenti, vogliono dire la loro: lo faranno attraverso l’Egitto del generale Al Sisi al quale vendono armi a tutto spiano insieme alla Francia. Al Sisi considera la Cirenaica una storica provincia egiziana, alla stregua di re Faruk che la reclamava nel 1943 a Churchill: «Non mi risulta», fu allora la secca risposta del premier britannico. Ma ce n’è per tutti gli appetiti: questo è il fascino tenebroso della guerra libica.

Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica.

Ai libici, divisi e frammentati, messi insieme in un finto governo di “non unità nazionale”, il piano non piacerà perché hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta energetica senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto tutela. E insieme ai litigi libici ci sono le trame delle potenze arabe e musulmane. Sono “i pompieri incendiari” che sponsorizzano le loro fazioni favorite: l’Egitto manovra il generale Khalifa Haftar, il Qatar seduce con dollari sonanti gli islamisti radicali a Tripoli, gli Emirati si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu Bernardino Leòn per appoggiare Tobruk; senza contare la Turchia, che dalla Siria ha rispedito i jihadisti libici a fare la guerra santa nella Sirte.

La lotta al Califfato è solo un aspetto del conflitto, anzi l’Isis si è inserito proprio quando si infiammava la guerra per il petrolio. Ma gli interessi occidentali, mascherati da obiettivi comuni, sono divergenti dall’inizio quando il presidente francese Nicolas Sarkozy attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata. Oggi sappiamo i retroscena. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total. È così che prepariamo la guerra: in compagnia di finti amici-concorrenti-rivali, esattamente come faceva la repubblica dei Dogi.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-03-06/la-grande-spartizione-114530.shtml?uuid=ACe75oiC
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 07, 2016, 05:04:38 pm »

Parisi: “Non ci sono le condizioni per mandare i nostri uomini”
Libia   

L’ex ministro della Difesa invita il governo a non cedere alla “manovra a tenaglia” per convincerlo a intervenire in Libia: “Guai se ci mettessimo in strada senza sapere dove stiamo andando”

Le ultime drammatiche notizie provenienti dalla Libia riguardano direttamente l’Italia. A finire vittime del complicato scenario del Paese nordafricano, con l’avanzata dell’Isis e l’incapacità di dare un assetto politico stabile, sono stati due nostri connazionali, Fausto Piano e Salvatore Failla, mentre altri due che erano finiti nella mani dei terroristi sono riusciti a liberarsi. Partendo da questi nuovi elementi, abbiamo chiesto ad Arturo Parisi, ex ministro della Difesa nel secondo governo Prodi, la sua opinione sull’eventuale coinvolgimento diretto italiano nelle operazioni anti-Isis sull’altra sponda del Mediterraneo.

Da ex ministro della Difesa, quindi con una cognizione di causa anche dal punto di vista, diciamo così, tecnico, lei pensa che ci siano le condizioni per ipotizzare un intervento militare in Libia?
Innanzitutto mi faccia dire che un ex ministro è solo uno che è stato ministro ma che non lo è più. Ogni situazione è diversa dall’altra, ogni situazione cambia in ogni momento. Dalla lezione dell’esperienza mi porto appresso più domande che risposte. Su tutti i teatri nei quali abbiamo operato. Figuriamoci sulla Libia, che dopo Gheddafi si scompone ogni giorno di più. Quello che si sa è tuttavia sufficiente a consigliare la massima cautela, che è peraltro la linea che il governo ha finora seguito registrando un plauso esteso almeno al nostro interno. Peccato che all’esterno, muovendo dalla nostra ripetuta richiesta di guidare la missione militare, al momento solo eventuale, si vada sviluppando una manovra a tenaglia che ci va stringendo ogni giorno di più per spingerci a scelte che non abbiamo preso.

A chi si riferisce?
Proprio oggi sul Corriere, per voce dell’ambasciatore a Roma, a fronte della ribadita disponibilità americana a sostenere la nostra attesa, abbiamo visto quantificato in cinquemila “paia di scarponi” il prezzo da pagare perché questa ambizione possa essere soddisfatta.

Quindi, secondo lei non è ancora opportuno parlare di un intervento militare?
Anche se dovessimo mantenere il discorso terra terra a livello degli scarponi, la mia risposta alla sua domanda è no. Non ci sono le condizioni. Ed anzi prima lo chiariamo e meglio è. Non vorrei che iniziando anche solo da un pugno di uomini dispiegati in modo più o meno segreto al seguito della nostra bandiera, ci trovassimo presto esposti ad impegni che non siamo in grado di mantenere.

Perché non lo siamo?
Ho detto impegni, ma dovrei dire nuovi impegni. Il motivo per il quale noi non siamo in condizione è infatti innanzitutto il fatto che di impegni ne abbiamo già molti. Nella stessa regione nella quale, pur in forme diverse si manifesta quella minaccia che chiamiamo fondamentalismo islamico, noi siamo infatti tra quelli che hanno più scarponi sul terreno. Dal Kosovo all’Afghanistan, dall’Iraq al Sinai, passando per il Libano le nostre truppe sono in prima fila per qualità e quantità. Ogni ulteriore impegno dovrebbe corrispondere ad una ridislocazione. Ma se gli scarponi sono determinanti prima ancora viene la chiarezza degli obiettivi della eventuale missione che dovremmo guidare. Guai se ci mettessimo in strada senza sapere dove stiamo andando:  senza aver chiaro il perché, con chi, e contro chi.

Magari anche senza che vi sia una richiesta di un governo nazionale libico che, allo stato, non è rappresentativo?
Non voglio nascondermi nessuna delle obiezioni che gli scettici avanzano a questo proposito per metterci fretta. Ma la precondizione della richiesta e quindi della esistenza di un governo nazionale, più che la garanzia necessaria sul piano formale perché si possa partire, sul piano sostanziale è la prova che prima o poi si possa arrivare. Le armi straniere possono ad alcune condizioni sostenere il cammino autonomo di un popolo, ma non imporre dall’esterno una meta.

La tragedia dei due italiani uccisi a Sabrata rimanda al problema dell’attività dei nostri servizi segreti e al rapporto fra questi e le forze militari. C’è il famoso tema della catena di comando. Secondo lei, l’Italia è ben organizzata da questo punto di vista?
Tra i diversi Paesi europei l’Italia è certo quella che conosce meglio il terreno. E la disponibilità di una intelligence di prima mano che in questi anni ha seguito da presso gli eventi è certo il nostro plus. Ma sostenere che a guidare il processo basti l’informazione è un’altra cosa. Informazione, decisione e azione sono momenti distinguibili ma non divisibili. È bene che ad ognuno sia riconosciuto il ruolo che gli compete.

Da - http://www.unita.tv/interviste/parisi-non-ci-sono-le-condizioni-per-mandare-i-nostri-uomini/
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