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Autore Discussione: Paolo VALENTINO.  (Letto 4595 volte)
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« inserito:: Maggio 27, 2013, 04:53:16 pm »

L'intervista al giudice conservatore su diritti, democrazia e armi

Il supergiudice americano Scalia «Chiudere Guantánamo? Un'ipocrisia»

«Quando protestate per i detenuti a Guantánamo, rispondo: "Vorreste prenderne qualcuno da voi?". La risposta è sempre no»


ROMA - «L'attivismo giudiziario è un abuso di potere e distrugge la pretesa dei magistrati di essere il legittimo arbitro finale del significato della legge». Lo dirà stamane Antonin Scalia a Torino nel «Discorso Bruno Leoni», la conferenza che l'omonimo istituto organizza in occasione del centenario della nascita del filosofo liberale. Il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, punta di lancia della cultura conservatrice, parlerà del rapporto tra democrazia, attivismo giudiziario e libero mercato.

Il suo sarà un atto di accusa, come sempre diretto ed esplicito, alle «agende politiche di moda» che portano molti magistrati a sottovalutare le protezioni costituzionali dei diritti economici. Scalia ha in mente gli Usa, ma il suo messaggio sulla necessità per i giudici di «interessarsi di più ai diritti proprietari e alle libertà economiche» previste dalla Costituzione americana, acquista valore di appello universale.

Con Antonin «Nino» Scalia, nato nel 1936 a Trenton, New Jersey, da immigrati siciliani, abbiamo parlato al telefono alla vigilia dell'appuntamento torinese.

Mr. Justice, il presidente Obama ha detto di recente che la guerra al terrorismo, come tutte le guerre, dovrà finire, ammettendo anche che gli Stati Uniti in questi anni sono stati in conflitto con i propri stessi principi. Lei crede che dopo l'11 settembre l'America, in nome della sicurezza, sia stata in difetto con la sua Costituzione?
«La nostra Costituzione protegge i non-americani quando sono in America, ma non limita le attività del governo all'estero, eccezion fatta quando si tratta di cittadini americani. Questa è la legge. Naturalmente il presidente decide quale politica debbano seguire i militari».

Ma non esistono dei diritti universali?
«Io non applico diritti universali. Io devo applicare la legge americana, espressa nella Costituzione e nelle leggi approvate dal Congresso. Non applico le leggi di Dio o di chiunque promulghi la cosiddetta legge internazionale».

Ma ci sono convenzioni internazionali, cui gli Stati Uniti aderiscono...
«Certo. E nella misura in cui le abbiamo sottoscritte, sono diventate leggi americane che vincolano l'esecutivo. Ma non ne conosco una, in tema di guerra al terrorismo, che limiti le azioni degli Stati Uniti contro i nemici che ci attaccano. Certo, c'è la Convenzione di Ginevra. Ma non si può invocarla, se non si è un esercito, soggetto al comando di qualcuno, che indossa un'uniforme. I terroristi non indossano uniformi, giusto? Ginevra si applica nel caso di una guerra e non si applica a chiunque decida di far esplodere una scuola o un grattacielo».

Lei non pensa che nella guerra al terrore l'America abbia violato principi che sono alla base della sua democrazia?
«Troppo generale. A me interessa sapere se l'America abbia violato la sua Costituzione».

Ma è possibile mettere qualcuno in prigione per sempre senza giudicarlo?
«Sta parlando di Guantánamo?».

Sì.
«Non è una descrizione accurata. Il tema non è se uno possa essere detenuto laggiù, ma se vi possa rimanere senza un processo civile. I detenuti a Guantánamo sono stati giudicati da commissioni militari, cosa normale in guerra. Nessuno delle centinaia di migliaia di tedeschi catturati nella Seconda guerra mondiale ebbe un processo civile negli Usa, furono giudicati da tribunali militari. Questa nozione che stiamo facendo qualcosa di inaudito è assurda. Quando parlo con i miei amici europei e mi dicono che non possiamo tenerli in prigione per sempre, rispondo: "Bene, ci stiamo pensando. Vorreste prenderne qualcuno in Italia, in Germania, in Francia, visto che siete così ligi ai principi del rispetto dei diritti umani?". La risposta è sempre no. Trovo questa polemica molto ipocrita».

Lei è considerato la maggiore forza intellettuale dietro la cosiddetta lettura «originalist» della Costituzione americana. Può un testo redatto quasi due secoli e mezzo fa essere applicato, senza interpretazione, a una società radicalmente cambiata ed evoluta da allora?
«Ovviamente dev'essere interpretato. Quando ci sono nuovi fenomeni che non esistevano al tempo in cui la Costituzione fu scritta, uno deve calcolare in che modo lo spirito di quel testo si applica a loro. Per esempio, il diritto di espressione: come si applica alla radio, alla tv, ai social media. Ciò che non accade, secondo gli originalist , è che i fenomeni che esistevano al tempo vengano improvvisamente trattati diversamente poiché lo pensano i giudici di oggi. L'esempio migliore è la pena di morte. C'è qualcuno che pensa che la pena di morte sia diventata incostituzionale. Assolutamente incomprensibile per me: il popolo americano non ha votato per renderla incostituzionale. Ogni Stato se crede può abolirla e 17 di questi lo hanno fatto. Ma non c'è alcuna base per dire che la nostra Costituzione proibisca la pena di morte, chi lo dice è un incendiario».

E questo si applica anche al diritto di portare armi?
«Esattamente».

Ma allora l'autodifesa aveva senso, oggi ci sono istituzioni che proteggono il cittadino.
«Bene, allora cambino il secondo emendamento. E sarebbe anche più facile, perché il suo scopo era di consentire ai cittadini di difendersi dalla tirannia del potere. Se la gente non lo ritiene più necessario, allora si cambi la Costituzione, ma non mi dite che qualcosa sia cambiato. Ci sono molte proposte di legge che riguardano quali armi possano essere portate. Per esempio, armi a spalla che possono lanciare missili in grado di abbattere un aereo. Ma il principio generale che i cittadini possano avere armi, incluse armi da guerra, è chiaro nel testo del secondo emendamento. Se si vuole essere onesti e non si vuole che siano i giudici a scrivere la legge, i cittadini americani hanno il diritto di portare armi, come difesa dai tiranni».

Ma è un fatto che sempre più di frequente queste armi sono usate per uccidere persone innocenti...
«Nonsense. Non c'è nessuna prova che le combat arms o le "armi d'assalto" siano la causa di questi episodi. Ogni cacciatore in America ha un fucile automatico».

Paolo Valentino

27 maggio 2013 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/13_maggio_27/il-supergiudice-americano-scalia-chiudere-guantanamo-un-ipocrisia-paolo-valentino_cddb507a-c686-11e2-91df-63d1aefa93a2.shtml
« Ultima modifica: Gennaio 09, 2016, 06:03:58 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 30, 2015, 05:08:02 pm »

Il vertice di New York
La «transizione gestita» avvicina Putin e Obama
Sull’Isis il leader russo ha proposto una «coalizione simile a quella contro Hitler». Sul siriano Assad si è mostrato rigidamente fedele al vecchio alleato. Eppure da due parole del presidente Usa potrebbe ripartire un dialogo vero

Di Paolo Valentino

Dalla tribuna del Palazzo di Vetro, senza pronunciare neanche una sola volta il nome degli Stati Uniti o del suo presidente Barack Obama, Vladimir Putin ha tenuto fede alla mistica del personaggio. Il leader del Cremlino ha espresso l’insoddisfazione della Russia per l’attuale stato del mondo.

Ha criticato «coloro che pensano di essere così forti e di sapere meglio di chiunque altro cosa fare, da non aver bisogno di prestare alcuna attenzione alle Nazioni Unite». E ha perfino suggerito, con una sorta di maliziosa autocritica, che Washington stia ripetendo gli stessi errori commessi dall’Unione Sovietica, cercando di imporre il proprio modello di sviluppo ad altri Paesi, senza tener conto delle loro specificità e tradizioni. Putin ha in sostanza attribuito la principale responsabilità per la nascita dell’Isis agli Usa, descritti come una nefasta combinazione tra burattinai e apprendisti stregoni.

Fin qui nulla di nuovo, inclusa l’ennesima riproposizione della narrativa putiniana sulla crisi in Ucraina, vista come «un colpo di Stato imposto dall’esterno, che ha condotto alla guerra civile», con buona pace dell’annessione manu militari della Crimea e dell’intervento mascherato russo nei territori del Donbass.

Eppure, tenuto conto degli standard ai quali Putin ci aveva abituati dal celebre discorso di Monaco nel 2007 in poi, quello di ieri alle Nazioni Unite è stato un intervento moderato. Dove, confermando le attese, il messaggio principale lanciato dal presidente russo è stato sulla Siria e sulla lotta al terrorismo islamico.

Contro l’Isis, Putin ha invocato una «coalizione internazionale simile a quella contro Hitler».

Sulla Siria, il suo tono si è fatto duro, in apparenza per nulla incline al compromesso.

Ma su questo ha probabilmente pesato sia l’essere intervenuto dopo Barack Obama, sia la preoccupazione di non voler apparire disposto a concessioni, poco prima di incontrare ieri nel tardo pomeriggio il presidente americano: nessun accenno infatti a un’eventuale transizione a Damasco, anzi l’ammonimento che sarebbe un «grave errore» rifiutarsi di cooperare con Assad, le cui forze «sono le uniche insieme alle milizie curde a combattere valorosamente l’Isis».

Putin ha certo avuto gioco facile, quando ha rimproverato l’Occidente di aver armato i cosiddetti ribelli moderati in Siria, solo per vederli poi consegnarsi armi e bagagli ai terroristi del Califfato. Il punto è ora di vedere se dietro la retorica per quanto controllata di Vladimir Vladimirovich ci sia spazio per trovare un terreno comune con Washington. E questo ha caricato di attese il vertice con Obama.

Il presidente americano nel suo discorso ha detto chiaramente che una «transizione gestita» in Siria può darsi soltanto con l’uscita di scena di Assad, rifiutando la logica secondo cui bisogna appoggiare i tiranni, poiché l’alternativa è sicuramente peggiore. Putin ha detto l’opposto: Bashar non è il problema, ma la soluzione.

Nelle parole «transizione gestita» sta forse la soluzione dell’arcano: la frase di Obama è l’ultimo segnale che, ferma restando l’ostilità di fondo verso Assad, Washington potrebbe essere disposta ad accettare che rimanga al suo posto ancora per qualche tempo. Almeno fin quando l’azione concertata della costruenda coalizione internazionale avrà rovesciato la situazione sul campo a sfavore dell’Isis. È un’ipotesi che Putin può prendere in considerazione. Per il leader del Cremlino è tanto una questione psicologica quanto politica: c’è il senso di lealtà verso un alleato storico.

Ma c’è soprattutto la paura del vuoto di potere, l’orrore del caos, lo scenario libico che un’uscita affrettata di Assad rischierebbe di precipitare. Una instabilità totale, che Vladimir Putin teme di ritrovarsi all’improvviso dentro i confini della sua Santa Russia.

29 settembre 2015 (modifica il 29 settembre 2015 | 08:52)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_29/transizione-gestita-avvicina-putin-obama-496d2204-6671-11e5-ba5a-ab3e662cdc07.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:32:23 pm »

Editoriale
Italia-Germania, le insidie di una linea diplomatica forte
La linea di attacco e recriminazione verso Bruxelles e la Germania di Angela Merkel portata avanti dal presidente del Consiglio Matteo Renzi

Di Paolo Valentino

Alla madre di tutti i Consigli europei, Matteo Renzi ha scelto di fare l’irregolare. Nel vertice che chiude un anno vissuto pericolosamente, con l’Europa squassata da crisi violente che arrivano a minarne le ragioni esistenziali, il presidente del Consiglio sposa una linea di attacco e recriminazione verso Bruxelles e la Germania di Angela Merkel.

Ne ha parecchie, e alcune anche sacrosante, di ragioni per puntare i piedi, il premier italiano. Ha ragione ad accusare l’Unione Europea di essere sempre assente quando si tratta di trovare risposte comuni a sfide drammatiche come quella dell’immigrazione, salvo a ritrovarsi occhiuta e pedante nel valutare la conformità dei conti o nel denunciare la mancata registrazione dei disperati arrivati sul nostro territorio, ai quali l’Italia, da sola, ha salvato la vita. Ed è giusto, Renzi lo ha fatto anche ieri al pre-vertice dei socialisti europei, smascherare la contraddizione tra le sanzioni a Mosca per punirne le azioni in Ucraina e il raddoppio del Nord Stream, con cui Germania, Francia e Olanda vogliono assicurarsi ancora più gas russo aggirando proprio l’Ucraina.

Ma la scelta di alzare la voce contro l’Europa guidata da un solo Paese e orientata nei fatti prevalentemente dalle politiche dell’austerità, è densa di rischi e insidie che il nostro capo del governo non deve sottovalutare.

La situazione nella quale si trova il nostro Paese all’interno dell’Unione Europea è oggettivamente difficile.

Siamo sotto tiro sulla flessibilità di bilancio, sugli hot spot per i rifugiati che ancora non abbiamo aperto, sul salvataggio di alcune banche, sul caso Ilva dove sarebbe imminente una nuova procedura d’infrazione. E il sospetto, neppure tanto velato, di Matteo Renzi è che a ispirare una linea così rigorosa verso l’Italia sia proprio la cancelliera Merkel.

Da qui la scelta di sparigliare, dare un scossone polemico, chiamare le cose col loro nome. Da qui la scelta di mandare a Bruxelles un nuovo ambasciatore, meno conciliante ed eurocentrico di Stefano Sannino. Da qui la decisione di dare un segnale ai nostri partner più tradizionali e naturali, Germania e Francia, offrendo una sponda addirittura al Regno Unito di David Cameron, in nome della semplificazione burocratica dell’Unione.

Già, ma poi? È questo il dilemma che non sembra contemplato nell’atteggiamento del presidente del Consiglio. Può l’Italia isolarsi in Europa, men che meno prescindere da questa? Una posizione di contrasto è legittima, tanto più se dettata da buoni motivi. Ma a condizione di sapere che per gestirla con successo occorre avere tutte le carte in regola, dai conti agli hot spot. Altrimenti il prezzo da pagare potrebbe essere l’esclusione dai tavoli dove si costruisce il consenso, con pazienza e alleanze intelligenti.

Detto altrimenti, irrigidirsi può far segnare qualche punto a nostro favore nell’immediato, vedi aver evitato un rinnovo automatico delle sanzioni a Mosca, ma rischia di danneggiarci e marginalizzarci nel lungo periodo, in assenza di una strategia di ampio respiro di cui al momento non c’è traccia.

Tanto più nelle nostre condizioni, che ci vedono spesso fare richieste a Bruxelles: non solo sulla flessibilità e gli aiuti all’Ilva, ma anche sul regolamento per il made in che ancora ci viene negato. Più in generale, abbiamo una risposta, per esempio, a domande del tipo: se non è insieme alla Germania che vogliamo avere un posto di rilievo in Europa, con chi vogliamo e possiamo ottenerlo?

Qualcuno evoca l’esempio di Margaret Thatcher, che all’inizio degli anni Ottanta, al grido di «Voglio indietro i miei soldi» vinse una storica battaglia con Bruxelles ottenendo il famoso rimborso di parte del contributo britannico al bilancio comune. Certo, ma il Regno Unito presentò un caso puntuale e documentato sull’incongruenza dell’assetto finanziario di allora. E soprattutto, negli stessi anni, ministri e commissari inglesi lavoravano con Jacques Delors al libro bianco sul mercato unico, uno dei più riusciti progetti comunitari.

Fa bene il presidente del Consiglio ad alzare la voce in un’Europa troppo facile preda di pulsioni egoistiche e incline a doppi standard. Ma senza un progetto e un’idea forte, il suo atto d’accusa rischia di esprimere una debolezza.

18 dicembre 2015 (modifica il 18 dicembre 2015 | 07:16)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_18/italia-germania-insidie-una-linea-diplomatica-forte-1eb94b82-a54b-11e5-a238-fd021b6faac8.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 09, 2016, 05:56:24 pm »

POLITICA INTERNAZIONALE

Mondo postamericano, uno scenario nuovo in cui cresce l’instabilità
La diminuzione progressiva del ruolo globale degli Usa potrebbe anche non essere un fatto negativo.
Ma per ora domina un caos devastante e carico di presagi sinistri


Di Paolo Valentino

«Un dei rischi del mondo postamericano - non si stanca mai di ripetere Fareed Zakaria - è che le potenze regionali diventano più importanti, ma non per questo si comportano in modo più strategico o più saggio».

L’assunto trova plastica e drammatica conferma nello scontro tra Iran e Arabia Saudita, assurto nell’arco di pochi giorni a conflitto geopolitico con una forte componente di settarismo religioso in una delle aree più instabili del pianeta.

Il Grande Medio Oriente, quello emerso dal crollo dell’Impero Ottomano e sopravvissuto con qualche scossone per quasi cento anni, è in piena liquefazione. Dopo decenni di stagnazione autoritaria, scandite da fasi di repressione e guerre fra gli Stati della regione, il vecchio ordine è entrato in una fase di cambiamenti tettonici e distruttivi, di cui al momento è impossibile immaginare l’esito. Siria, Libia, Iraq e Yemen sono ormai soltanto campi di battaglia, pozzi di morte e fonti di milioni di profughi.

Il terrore jihadista controlla intere province e manovra da lontano le sue cellule assassine in Occidente. Nessun Paese mediorientale appare immune da una qualche forma virale di instabilità, siano la volatilità dei confini, la crisi dell’autorità statale o lo scontro etnico: non l’Egitto, non la Turchia, il Libano, la Giordania o i ricchi Emirati del Golfo. La doppia lacerazione religiosa, quella sciita-sunnita e quella interna al mondo sunnita tra islamisti e secolaristi, aggiunge due esplosive torsioni settarie, evocando i fantasmi di una guerra di religione, versione levantina della Guerra dei Trent’anni, che vide cattolici e protestanti dilaniarsi per la supremazia in Europa nel Diciassettesimo secolo.

Ora, che all’origine di questo impazzimento ci sia o meno l’intervento americano in Iraq nel 2003, come alcuni sostengono, è in fondo di relativa importanza. È di una certa efficacia in proposito, il sillogismo di un ex sottosegretario di Stato dell’Amministrazione Obama, Philip Gordon, quando ricorda: «In Iraq siamo intervenuti e abbiamo occupato e il risultato fu un costoso disastro; in Libia siamo intervenuti ma non abbiamo occupato e il risultato è stato un costoso disastro; in Siria non siamo intervenuti e non abbiamo occupato e il risultato è un costoso disastro». Certo, non è detto che la crisi libica e quella siriana si sarebbero prodotte, in assenza del «peccato originale» iracheno. Ma il punto di Gordon è che gli Stati Uniti non possono essere ritenuti i principali, men che meno i soli responsabili dell’attuale caos mediorientale e soprattutto non posseggono più tutte le leve strategiche per risolvere da soli le emergenze della regione. È sicuramente improprio parlare di assenza americana dal Medio Oriente. Dall’accordo nucleare con l’Iran, ai tavoli negoziali avviati per Siria e Libia, dai raid aerei contro Isis-Daesh agli attacchi mirati con i droni antiterrorismo, gli Stati Uniti sono ancora protagonisti a tutto campo. Ciò che è cambiato è l’approccio: l’Amministrazione ha scelto di fare il cosiddetto «offshore balancing», l’equilibrio da lontano, escludendo operazioni di terra e ricostruzione di nazioni e cercando di coinvolgere maggiormente gli attori regionali.

Ma come spiega Zakaria, potenze regionali più attive non significa necessariamente più responsabili, anzi. Inoltre ha comportato un prezzo l’aver escluso, fosse pure solo come deterrenza, la piena opzione militare. Tanto più se, in corso d’opera, la Casa Bianca ha commesso errori gravi di applicazione, come quando nell’estate 2013 il presidente Obama tracciò l’infausta linea rossa contro Assad, minacciando di intervenire se avesse usato le armi chimiche, salvo poi ignorarla e farsi salvare in corner dall’interessata mediazione russa.

È in primo luogo una questione di percezione: avvertendo distante o distratta la Superpotenza amica, il turco Erdogan autorizza la stolta bravata di far abbattere un caccia russo. E oggi, vedendo un’America meno determinata o addirittura più vicina verso Teheran in virtù dell’intesa nucleare, l’Arabia Saudita si consente un gesto incendiario come la pubblica esecuzione di un imam sciita e addirittura la rottura delle relazioni diplomatiche di fronte alle proteste iraniane. A venir progressivamente meno è cioè il ruolo globale degli Stati Uniti. In teoria potrebbe anche non essere negativo, se ci fosse una vera e robusta governance multilaterale, specie in una regione così volatile come il Medio Oriente. Ma non siamo, o non siamo ancora, a questo. Nel mondo postamericano, per adesso, domina un caos devastante e carico di sinistri presagi.

5 gennaio 2016 (modifica il 5 gennaio 2016 | 08:08)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/16_gennaio_05/mondo-postamericano-scenario-nuovo-cui-cresce-l-instabilita-1218392c-b376-11e5-9fa2-487e9759599e.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:19:29 am »

L’INCHIESTA DIPLOMATICA

Com’è Roma vista da Bruxelles
L’importanza delle cene tedesche
I burocrati di Berlino si vedono ogni mese, condividono amicizie e influenze.
L’Italia alza la voce, ma non coltiva una strategia

Di Paolo Valentino, inviato a Bruxelles

Raccontano che con cadenza quasi mensile, funzionari tedeschi di alto grado della Commissione, del Consiglio e del Parlamento europeo, rappresentanti della grande industria, diplomatici della rappresentanza berlinese alla Ue si ritrovino a cena da qualche parte nella capitale belga.

Incontri conviviali, spesso tra vecchi amici dei tempi dell’università o della militanza di partito, molto spesso la Cdu. Ma anche occasioni per uno scambio di idee, di informazioni su questo o quel dossier, di chiarimenti. E se è esagerato parlare di coordinamento, è ovvio che diventino canali privilegiati di comunicazione, dove al centro di tutto sono le posizioni e gli interessi della Germania nel più vasto quadro dell’Unione Europea.

Anche i funzionari di altri Paesi si vedono fra loro, compresi gli italiani. Nel grande melting pot bruxellese, il filo sottile dell’identità nazionale non viene mai smarrito. Ma nessuno come i tedeschi occupa così tante posizioni di primo piano nei gangli vitali delle istituzioni comunitarie. E nessun sistema-Paese come la Germania sa far squadra, grazie a un’accorta regia del governo federale, in nome delle proprie priorità. Non solo. «Nel senso nobile del termine — mi spiega una fonte interna — questi colleghi si sentono anche parte di un progetto europeo, che altri stanno smarrendo». Il progetto di un’Europa tedesca, potremmo aggiungere.

È importante tenere a mente questa premessa, nel tentativo di decifrare in che modo la svolta assertiva imposta da Matteo Renzi all’Italia in Europa sia percepita a Bruxelles, obiettivo privilegiato delle sfuriate del premier. Come viene vissuto il ciclone fiorentino e quante chance ha di far breccia nel muro di regole e patti condivisi, che Renzi «vive come un fastidio e invece sono la vita stessa della costruzione comunitaria»? Basterà la nomina di Carlo Calenda — «uno più rissoso di me», Renzi dixit — a nostro rappresentante permanente, a salvaguardare meglio gli interessi dell’Italia?

È bene dire subito che nessuno dei nostri interlocutori nega la fondatezza del cahier des doléances italiano: «Renzi ha probabilmente ragione sul 70% delle cose che dice, dai finanziamenti alla Turchia per i rifugiati agli hotspot per la registrazione di chi arriva, alla più generale questione di

insistere su una politica economica che ha dimostrato di non funzionare», dice uno di loro, anonimo per carità di patria. E ricorda che il vincolo del pareggio di bilancio, lettura tedesca per eccellenza dell’ortodossia economica, è stato inserito nelle Costituzioni nazionali senza quasi discutere.

Anche l’argomento di un’eccessiva influenza della Germania sulla Commissione trova conferma. «Non c’è dubbio che ci sia un filo diretto tra Uwe Corsepius, lo sherpa di Angela Merkel per l’Europa e Martin Selmayr», il potente e discusso capo di gabinetto di Jean-Claude Juncker. Ancora più importante è la grammatica comune che lega i molti tedeschi che contano a tutti i livelli del processo. Le cene, appunto.

Ma questo spiega solo una parte della verità. L’altra faccia della medaglia racconta invece di «un’occasione sprecata». «È mancato un approccio più articolato, l’atteggiamento muscolare doveva accompagnarsi ad un lavoro parallelo più discreto, concreto e costruttivo, che non c’è stato. La guerra a tutti non paga, anche perché quanto più si alzano i toni, tanto più diventa irrisolvibile il problema, perché nessuno vuole e può perderci la faccia».

E qui emerge una questione di fondo: «A Renzi l’Europa interessa poco, ai Consigli europei è palesemente annoiato, non gli piacciono i rituali, i meccanismi, il modo di lavorare. Attacca questo e quello, ma poi si spazientisce con i dettagli, che sono tutto, e si estranea. Il premier pensa di poter esportare in Europa i due capisaldi della narrazione che lo vede vincente in Italia: la rottamazione e le riforme con cui sta cambiando il Paese. Ma il problema è che nell’Unione ci sono 28 Stati sottoposti a stress politici anche superiori a quelli dell’Italia. Cosa vuole che gliene importi agli spagnoli della riforma del Senato, quando loro rischiano la secessione della Catalogna? Dire che l’Italia è più forte perché ha fatto le riforme non impressiona nessuno. Pensi a Grecia, Portogallo, Irlanda. O per un’altra ragione alla Francia, alle prese con il terrorismo e il Front National».

Invece occorrerebbe un lavoro preparatorio sui dossier che oggi non c’è, una strategia e una tattica che fatichiamo a trovare, «alzando la paletta al momento giusto del processo decisionale, non a giochi fatti», individuando priorità irrinunciabili perché non si può mai vincere su tutta la linea. «Ma il problema — dicono le fonti — non è qui, è in Italia. Il premier non ha un pensiero strategico sull’Europa, che considera quasi altro da sé. Anche per questo manca nel governo una vera regia generale della politica europea. Renzi in televisione ha detto che l’Europa non ne azzecca una. Ma in Europa si decide a 28, Italia compresa».

La risposta renziana a tutto questo ha il nome e il volto di Carlo Calenda, chiamato a sostituire Stefano Sannino, il rappresentante permanente considerato troppo «compatibile» con le logiche brussellesi e per questo rimosso. Ed è una decisione che solleva interesse e intriga: «È un esperimento interessante — dice un antico osservatore di cose europee — ora ognuno sa che l’inviato di Roma all’Ue ha un rapporto forte e diretto col premier e che, quando parlerà lui, parlerà Renzi». Ma da solo Calenda non può far primavera. I problemi strutturali dell’Italia in Europa non si potranno dissolvere col disgelo di marzo. C’è da svelenire il clima di «irritazione» prodotto dalle bordate renziane. E soprattutto, deve cambiare il nostro modo di stare in Europa: «Per aver successo, Calenda deve sapersi portare dietro tutto il sistema italiano».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
25 gennaio 2016 (modifica il 25 gennaio 2016 | 10:17)

DA - http://www.corriere.it/esteri/16_gennaio_25/cene-tedesche-bruxelles-c99987ea-c2df-11e5-9b69-aff8e7a41687.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:20:39 am »

L’inchiesta diplomatica

Angela Merkel e Matteo Renzi: il duello dei leader soli
La Germania sorpresa dagli attacchi italiani. E il paradosso è che ad aver più bisogno di sostegno è la Cancelliera.
Ma Fischer avverte: «L’errore da evitare? Indebolire Merkel»

Di Paolo Valentino

Questa volta, invece del solito Dostoevskij della bellezza che salverà il mondo, ad Angela Merkel che venerdì prossimo lo accoglierà a Berlino, Matteo Renzi dovrebbe citare il Quasimodo di «Ed è subito sera». Per ragioni diverse e opposte la solitudine sembra infatti accomunare entrambi, anche senza raggi di sole a trafiggerli: sta sola la potente cancelliera sul cuor dell’Europa e soprattutto in casa sua, sotto tiro perfino nelle file della sua Cdu che gli rimprovera una velleitaria generosità verso i rifugiati. E sta solo il premier sul cuor dell’Unione, dove un silenzio tombale ha accolto la sua rumoreggiante levata di scudi contro la Germania pigliatutto e la Commissione europea, che nella narrativa renziana ne è solo il fido scudiero.

Come viene percepita a Berlino, l’impennata polemica del presidente del Consiglio? Con quale Stimmung, stato d’animo, l’establishment tedesco si prepara a ricevere l’ospite che viene dal Sud, in un vertice che le cronache di questi giorni hanno caricato di significato e attese? «Un’occasione importante per risolvere le divergenze», ha dichiarato il portavoce della cancelleria, Steffen Seibert, con intento palesemente distensivo. «Ciò che ci unisce è molto più importante di quello che ci divide - mi dice una fonte tedesca, amica da sempre dell’Italia - e spero che Renzi si ponga in un’ottica diversa da quella che è sembrato privilegiare di recente. Sul fondo ha ragione, però l’obiettivo della crescita e dell’occupazione non è un affare solo italiano, ma di tutta l’Europa. Cosa si può fare insieme? In che modo si può aiutare questa cancelliera? Sono piuttosto queste le domande da farsi».

Il che va al cuore di uno dei paradossi dell’attuale stato dell’Unione: se oggi in Europa è Matteo Renzi a dover chiedere delle cose, fossero la flessibilità di bilancio o il via libera alla «bad bank», dei due è probabilmente Angela Merkel ad aver più urgente bisogno di una mano d’aiuto. A confermarlo è una fonte insospettabile, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, mente e cuore d’europeista a ventiquattro carati: «Io credo che Renzi stia sottovalutando il fattore di rischio politico implicito nella sua linea di critica alla Germania e alla cancelliera. Non nego che il premier italiano abbia delle buone ragioni per alzare la voce. Ma oggi attaccare pubblicamente Angela Merkel è pericoloso, in una situazione che la vede indebolita sul piano interno. Tanto più se lo fa uno dei grandi Paesi europei, che tradizionalmente ha sempre avuto forti convergenze con la Germania. Se poi a motivare l’attacco di Renzi sono anche ragioni di politica interna, non sono sicuro che questo non finisca per avvantaggiare i partiti populisti in Italia». Consiglio di Fischer al presidente del Consiglio: «Pensare di poter approfittare delle difficoltà della cancelliera è una tentazione da evitare. Bisognerebbe avere un approccio più costruttivo. Altrimenti significherebbe dare una mano ai suoi avversari in Germania, cioè all’onda antieuropea. E invece io penso che oggi per l’Europa Angela Merkel sia indispensabile». Fischer fa una pausa, poi lo ripete: «Proprio così: indispensabile».

Non è che a Berlino venga messo in dubbio il nocciolo duro dell’impegno europeo dell’Italia. Né si ha voglia di drammatizzare la situazione, dopo le puntute bordate di Renzi contro l’Unione telecomandata. «In generale con l’Italia sull’Europa l’intesa è buona - assicurano le fonti berlinesi - e divergenze su singoli dossier non stupiscono più di tanto. È normale dialettica tra partner. Con altri Paesi ce ne sono di più fondamentali». I punti di attrito però rimangono e Berlino non sembra disposta a troppe concessioni: la quota italiana dei 3 miliardi alla Turchia per i rifugiati che è bloccata, gli hot spot per registrare i profughi ancora non operativi, l’assicurazione comune sui depositi bancari che Berlino subordina alla definizione di standard precisi sul rischio dei titoli di Stato. Analisti ed esperti parlano anche di «sorpresa» nelle stanze del potere tedesco, di fronte al carattere «estemporaneo» di alcune iniziative. E ricordano il caso della Russia, dove da un lato l’Italia ha preso tempo sul rinnovo delle sanzioni, pur sapendo che era inevitabile, dall’altro ha lanciato l’attacco contro il gasdotto Nord Stream, che l’ha schiacciata sul fronte dei Paesi antirussi, lontanissimo dalla sua linea tradizionale: «Le due cose sono in palese contraddizione, non si incastrano fra di loro». Spiegano ancora le fonti berlinesi: «Il governo tedesco non è indifferente a come la sua politica europea viene percepita in Europa. Nessuno vuole che si traduca in un onere per gli alleati, tanto più nel caso dell’Italia».

Da incontri e conversazioni emerge però un altro tipo di obiezione verso il nostro Paese, argomento che va oltre l’orizzonte comunitario e si allarga ad abbracciare l’azione internazionale dell’Italia. È una sorta di perplessità di fronte a quello che viene definito un «insufficiente impegno» su alcuni temi cruciali di politica estera. «A parte la Libia, dove il contributo italiano è stato ed è importante, l’Italia manca in questa fase su dossier nei quali la Germania non chiederebbe di meglio che averla al fianco». Le fonti citano la Tunisia, le crisi dell’Africa subsahariana e soprattutto i Balcani «che negli anni Novanta furono un pilastro della politica estera italiana». In Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Repubblica di Macedonia bollono emergenze potenzialmente gravi: «C’è la Germania, c’è la Russia, c’è perfino l’Austria, ma dell’Italia non vediamo molto in termini di iniziative, proposte, documenti». Anche sulla Nato, si nota una certa assenza: «Berlino - spiega un analista berlinese - auspicherebbe più impegno dall’Italia in vista del vertice di Varsavia, affinché non sia solo un vertice della deterrenza, ma anche dell’ingaggio verso la Russia».

Eppure, sul fondo, il pregiudizio positivo della Germania verso l’Italia rimane integro anche nell’era delle infuriate di Renzi e dei nodi irrisolti. C’è attesa per l’incontro dei 6 Paesi fondatori della Ue, convocato da Paolo Gentiloni a Roma in febbraio: «Ci piacerebbe non fosse solo l’occasione per celebrare i 60 anni del Trattato». Ma già prima, nella bruma berlinese, la reciproca solitudine di due leader potrebbe risolversi nella riscoperta di interessi e vocazioni comuni.

25 gennaio 2016 (modifica il 25 gennaio 2016 | 10:12)
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