23 dic
Di quel perduto sale democratico
ITALY-POLITICS/RENZI
Caro presidente Renzi,
come sta, nel suo secondo Natale a Palazzo Chigi?
Mi sembra bene, tutto sommato: le foto la mostrano sempre più a suo agio nel suo ruolo, vuoi con la mimetica in Libano vuoi con i vestiti standard nel Palazzo e dintorni.
Anche il lieve sovrappeso non le sta male, in fondo: la fa sembrare più simile all'italiano medio. Come quando Mike Bongiorno palesava ignoranza per farsi percepire "uno di noi" a casa, dalle famiglie.
Peraltro è noto che ogni suo scatto da front page, presidente Renzi, passa prima attraverso il sapiente vaglio di Nomfup, il quale poi decide quali far recapitare a quelle caselle postali del potere che sono in massima parte, oggi, le redazioni italiane.
A proposito, presidente: sono davvero bravi i suoi spin doctor, pr e curatori d'immagine: tutti, bravissimi. Si vede che appartengono a questo secolo, che sanno maneggiare i social così come le agenzie e i talk show, roba che al confronto fa sembrare ancora più goffi e antichi quelli dei suoi predecessori, soprattutto nel partito intendo.
Ma il vero pregio dei suoi comunicatori (e naturalmente suo in primis, signor presidente) è stata finora la versatilità, la grande versatilità nel direzionare la macchina di creazione del consenso in ogni angolo, abbinando disintermediazioni e nomine, internet e vecchi media, e-news e compiacenze di carriera, conferenze on line e vecchie manovre coi poteri forti. Del resto si sa che per vincere una partita di calcio bisogna occupare ogni zona del campo e "attaccare gli spazi": e questo lei e i suoi collaboratori fate, ogni giorno, con notevole efficacia.
Così, in un anno e mezzo voi avete imposto un'egemonia di linguaggio (gufi, professoroni, palude, non mi fermeranno, la svolta buona, l'Italia che ce la fa e via andare) che fa davvero impallidire quella tentata un'epoca fa da Berlusconi, con i suoi slogan tipo le tasche degli italiani e l'amore che vince sempre sull'invidia e sull'odio.
Poi, siete maestri nel dettare l'agenda, come si suole dire. In altre parole, far parlare i media (mainstream e non) di quello che volete voi. Una riforma promessa, un taglio di tasse annunciato, un bersaglio polemico da ridicolizzare: e tutti dietro a discuterci, noi altri, in tivù e sui social, nelle telefonate alle radio e sui giornali. A discutere di quello che voi avete deciso si discutesse.
Certo, a volte non avete un compito facile. Ad esempio, se scoppia lo scandalo del crac bancario, non basta strombazzare un contingente in Iraq per far cambiare oggetto di dibattito comune. Ma in quel caso ci si inventa un Cantone versione signor Wolf o un libro di Casaleggio da attaccare o una variante di Valico da inaugurare, che poi comunque gli hype durano tre giorni al massimo e voi lo sapete meglio di me.
L'importante è, sul lungo, diffondere e irrobustire un immaginario semplice e manicheo - i messaggi semplici sono quelli più facili da far passare, si sa: da un lato voi, che volete fare qualcosa di buono, dalla parte opposta tutti gli altri, che sanno solo criticare.
Avete così rovesciato, nella percezione, la normale dialettica democratica (il governo che decide, l'opposizione che controlla e critica) in una contrapposizione tra costruttori e distruttori, tra buoni e cattivi. In fondo era l'uovo di Colombo, ma bravi voi che siete riusciti a gabellare come virtuoso questo rovesciamento.
Certo, c'è da dire che avete trovato un terreno abbastanza morbido, con non molte eccezioni. Teniamo tutti famiglia, noi giornalisti, e l'editoria va una schifezza, quindi il burro è ancora più morbido, diciamo. E poi noi giornalisti non abbiamo, tradizionalmente, una schiena così dritta, in questo meraviglioso paese. Ricordo di aver letto, tanti anni fa, l'aneddoto di un lettore che aveva chiesto a un direttore di quotidiano come mai avesse cambiato così tante volte opinioni e referenti politici, nella sua carriera, e lui candido aveva risposto: «Ma è colpa mia se ogni due anni cambia il governo?».
Ecco, appunto.
Ma ciò non sminuisce i suoi meriti, presidente, né quelli dei suoi collaboratori. Anche a prendere un somaro per il morso per mandarlo dove si vuole, non è che tutti sono capaci allo stesso modo.
Ho visto che di tutto ciò Ferruccio de Bortoli s'è un filo adirato e ha scritto su Twitter una cosa tipo «tanto vale che i titoli dei giornali il faccia direttamente lui»: ma si tratta solo di un trombato, quindi di un perdente. Un anno fa era il direttore del "Corriere della Sera", adesso scrive su un quotidiano ignoto della Svizzera ticinese, che ridere, mentre il suo ex giornale si riempie di veline con la testatina "Renzi ai suoi".
A proposito, bella anche questa trovata di far diffondere il pensiero del capo come se fosse una confidenza del premier ai collaboratori. I giornali possono venderla come retroscena, esclusiva, indiscrezione; e i lettori hanno l'illusione di essere entrati a origliare nelle stanze del potere. Anche se ciò che leggono è esattamente la stesse merce che un tempo si chiamava comunicato stampa consegnato all'Ansa.
Comunque non è questione solo di giornalisti, naturalmente. E nemmeno di establishment economico che teme Grillo o Salvini: e quindi a lei, magari controvoglia, fa comunque la ola quotidiana.
Non è questione solo di comunicatori, dicevo, perché dai tempi di Gramsci sappiamo che l'egemonia culturale dipende anche dagli intellettuali, che hanno un ruolo fondamentale nel creare opinione pubblica.
Berlusconi questo non lo aveva capito e se li era messi quasi tutti contro, compresi quelli di scuola liberale, cattolica e perfino di destra.
Lei invece, presidente, gli intellettuali li ha resi innocui con sapienza, adeguando al presente il vecchio principio del divide et impera.
Alcuni se li è semplicemente portati in scuderia a suon di Leopolde e premi letterari - dai Baricco ai Piccolo, ma non solo; altri, meno seducibili, li ha invece emarginati come vecchi barbosi inconcludenti, residui in bianconero di un passato lontano: i Rodotà, gli Zagrebelsky, quelli lì insomma (e qualcuno, come Gallino, le ha fatto anche la cortesia di andarsene).
Ma è in mezzo a questi estremi che è avvenuto il suo capolavoro, presidente: è con tutte quelle teste che un tempo erano fieramente di sinistra e adesso a domanda (politica) non rispondono, fanno i vaghi, fischiettano: i Benigni, i Moretti, i Serra, tutte menti che abbiamo amato continuiamo ad amare, che stimiamo e continuiamo a stimare, ma il cui imbarazzo nel prendere posizione su questo governo è forse il segno più tangibile della sua vittoria nell'egemonia culturale, signor presidente.
È sempre beato il governo di un Paese i cui intellettuali tacciono.
Ecco, è stato quindi un buon 2015 per lei, presidente, e ha motivo di festeggiare.
Anche perché all'addomesticamento di media e intellettuali, nell'anno che si sta chiudendo lei ha aggiunto anche una silenziosa opera di adeguamento alla sua persona di tutto quell'immenso sottopotere di cariche e dirigenze che ogni governo passato aveva lottizzato sulla base di fedeltà di partito e che lei invece ha plasmato sulla base della fedeltà personale, diretta, individuale.
Il gran carro dell'ultima Leopolda, in questo senso, era meraviglioso. Meraviglioso, dico, vedere tutti quegli ex ragazzi diventati consiglieri di amministrazione, presidenti di enti pubblici, super consulenti e via carrierando. Niente di nuovo, s'intende, in quest'Italia feudale e familista: niente di nuovo se non per il legame che non è appunto più a un simbolo e a un partito, ma solo a un uomo e a un uomo solo. Lei, presidente.
Al quale auguro - onestamente e di cuore - un 2016 un po' più difficile.
Non per antipatia personale (anzi, passerei una cena più volentieri con lei che con molti dei suoi antagonisti); né per avversione politica, che quella si misura sulle cose concrete, i disegni di legge, le scelte di governo: e non tutte quelle che lei ha fatto mi hanno trovato in disaccordo, anzi ho apprezzato (per esempio) la sua posizione razionale sulla prossima guerra in Asia centrale.
Le auguro un più difficile 2016 perché a nessuno fa bene l'adeguamento conformista, l'acquietamento della dialettica, la latitanza del conflitto culturale.
Non fa bene a chi come me sta - seppur pacatamente - all'opposizione del Jobs Act, dell'Italicum, del darwinismo economico, delle dazioni in contanti che camuffano la distruzione della coesione sociale; né fa bene (il che è più importante) al paese nel suo complesso, che di quel perduto sale critico e democratico avrebbe sempre bisogno.
Ma non fa bene neanche a lei, signor presidente, perché qualsiasi marinaio sa che un silenzio troppo forte annuncia spesso un devastante ciclone.
E lei, come navigatore, non è secondo a nessuno.
Da -
http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/12/23/di-quel-perduto-sale-democratico/Alessandro Gilioli, Milano, 1962.
Giornali:
Domenica del Corriere (1986-1987)
Sette del Corriere della Sera (1987-1989)
Il Giornale (1989-1991)
L'Europeo (1991-1995)
Campus e Class (1995)
Gulliver (1995-1999)
HappyWeb (1999-2002)
L'Espresso (2002 - presente)