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Autore Discussione: LAURA BOLDRINI. Stati Uniti d'Europa. I still have a dream  (Letto 2058 volte)
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« inserito:: Settembre 06, 2015, 12:12:33 pm »

Stati Uniti d'Europa. I still have a dream

Pubblicato: 03/09/2015 17:16 CEST Aggiornato: 03/09/2015 17:20 CEST

"I have a dream", I still have a dream. E lo dico da qui, dalla terra in cui 52 anni fa Martin Luther King pronunciò quelle parole che scossero ed emozionarono il mondo. Questo sogno ha un nome, ed è Stati Uniti d'Europa. Le crisi che stanno affliggendo l'Europa ci costringono a vedere il progetto federale come la soluzione, anzi l'unica soluzione possibile.

La questione dell'immigrazione, con i suoi quotidiani bollettini di morte, parla dell'impotenza alla quale ci condanna l'incapacità di ragionare come un'unica entità. Gli sconvolgimenti in atto e l'esistenza di regimi autoritari non lontano dalle frontiere dell'Unione - dalla Siria all'Iraq alla Libia, dalla Somalia all'Eritrea - producono migrazioni forzate che nessuno Stato europeo può fronteggiare da solo. Se si continua a procedere in ordine sparso, a guadagnarne sono i fomentatori di rabbia, odio, xenofobia, i professionisti della paura, che in ciascuna nazione soffiano sul fuoco dei problemi per incassarne vantaggi elettorali.

L'Europa non può chiudere le porte a chi fugge da guerre e persecuzioni, perché altrimenti rinnegherebbe i valori fondamentali che ne hanno fatto un punto di riferimento nel mondo. Sul filo spinato dei muri si strappa anche la sua anima. La Commissione europea ha fatto un passo apprezzabile, inducendo per la prima volta gli Stati membri ad una gestione condivisa degli arrivi dei rifugiati, ma è evidente che questo sforzo è insufficiente. Bisogna procedere speditamente verso un unico sistema europeo dell'asilo, che non lasci soli né i Paesi di primo arrivo né quelli di destinazione finale dei migranti. Ed a questo obiettivo si può giungere solo se comincia finalmente una concordata condivisione di sovranità, se si costruisce un'integrazione politica che può darci gli strumenti per gestire il fenomeno dell'immigrazione senza esserne travolti.

Ma la stessa necessità la viviamo anche in economia. È sempre più evidente - e dagli Usa ancora di più - che alla competizione globale non si può rispondere restando ancorati alle piccole patrie nazionali. I Paesi dell'Unione devono piuttosto far pesare unitariamente le potenzialità di un mercato e di un'area tra le più ricche e sviluppate del pianeta. L'Europa, più Europa, è la risposta a molti dei nostri problemi. E invece oggi viene vissuta da troppi dei suoi cittadini come il problema, la causa del malessere profondo che attraversa le società del continente. Vengono messe sul suo conto le responsabilità della disoccupazione, dei sacrifici, di una soffocante mancanza di prospettive per i giovani.

Per la mia generazione - quella dei baby boomers nati negli anni Sessanta - l'Europa era una parola entusiasmante, era come una bellissima, trascinante sinfonia eseguita anni prima da grandi artisti di differenti Paesi: Adenauer, Schuman, De Gasperi, per citarne solo alcuni. Nel 1946 a Zurigo Winston Churchill aveva dichiarato: "Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d'Europa. Solo in questo modo centinaia di milioni di persone che lavorano sodo saranno in grado di riconquistare quelle semplici gioie e quelle speranze che rendono la vita degna di essere vissuta".

Dobbiamo chiederci perché oggi quella musica suoni così sgradevole alle orecchie di molti, soprattutto giovani. Il fatto è che di quello spartito abbiamo dato un'esecuzione sempre meno ispirata ed armonica. L'Europa ha finito per identificarsi col volto duro dell'austerity, del rigore miope, dei sacrifici senza scadenza, di misure di "salvataggio" adottate trascurando l'impatto sociale su milioni di persone. Questa Europa non può entusiasmare nessuno. E molti leader politici nazionali preferiscono concentrarsi sul consenso domestico più immediato - testato dal sondaggio quotidiano - anziché spendersi per un progetto che oggi si presenta come impopolare. Ma la soluzione non la troveremo più tra le pareti di casa, un tempo confortevoli. Paradossalmente, lo si vede in modo più chiaro fuori dall'Unione che dentro i suoi confini. Lo coglie nitidamente il presidente Obama, che durante la crisi greca ha fatto sentire la sua preoccupazione, così come non ha nascosto le perplessità per una possibile Brexit.

Per questioni complesse e sovranazionali, come ormai sono tutte quelle che ci si prospettano, serve uno strumento nuovo, una diversa Unione europea. Una versione 2.0, direbbero i nativi digitali. Gli Stati Uniti d'Europa, appunto. Un soggetto unico, solido e solidale, che divide i pesi da portare sulle spalle, perché se li dividiamo diventano più leggeri per tutti. Un'Unione che condivide anche risorse e talenti, perché condividendoli si moltiplicano, fanno "massa critica". Dovremmo anche essere ispirati dalla fondamentale lezione del federalismo statunitense: "United we stand, divided we fall", come cantavano più di due secoli fa nelle prime battaglie per l'indipendenza. È un motto che noi oggi in Europa dovremmo adottare. Fermi non si può stare, se non vogliamo regalare un continente ai demagoghi spacciatori di paura. E sarebbe un grande problema per tutti, dentro e fuori l'Europa.

Da - http://www.huffingtonpost.it/laura-boldrini/stati-uniti-deuropa-i-still-have-a-dream_b_8083348.html?utm_hp_ref=italy
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