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« inserito:: Febbraio 23, 2009, 06:28:17 pm » |
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La crisi negli Stati Uniti
La settimana calda delle banche Usa
E Obama deve convincere Wall Street
Il crollo delle quotazioni e i timori di nazionalizzazione.
Il nodo del risanamento dei conti pubblici
Dalle notte delle stelle e delle statuette d'oro degli Oscar, all'alba grigia di un mercato col piombo nelle ali: la settimana scorsa Wall Street ha perso oltre il 6% del suo valore, raggiungendo nuovi minimi. Ciò è successo nonostante l'approvazione definitiva della maximanovra di sostegni all'economia e il lancio di un piano da 75 miliardi di dollari per ridare fiato al mercato dei mutui-casa. Per Wall Street è stata la peggior settimana da quando, quattro mesi fa, il mercato era crollato per le conseguenze del crack Lehman. Andasse nello stesso modo anche la settimana che inizia oggi, il mercato avrebbe bruciato, prima ancora che vengano spese, tutte le risorse stanziate dal piano di stimoli fiscali da 787 miliardi. Obama non può certo permetterselo, ma non ha molte carte da giocare.
Il presidente non si aspettava una tranquilla "luna di miele", ma nemmeno di dover affrontare, dopo appena un mese e col governo che è ancora un cantiere a cielo aperto, una settimana da "ultima spiaggia". Ora cerca di guadagnare tempo e di tranquillizzare il Paese lanciando la sua "offensiva della responsabilità fiscale": dal vertice sul risanamento dei conti pubblici che si terrà oggi alla Casa Bianca fino a giovedì, quando varerà il bilancio per il 2010, Barack Obama tenta di rasserenare il Paese dimostrandogli di avere un progetto di lungo periodo per riportare entro limiti accettabili (il 3 per cento del Pil) un deficit pubblico che quest'anno verrà dilatato fino oltre la soglia del 10% del reddito nazionale: un "buco" di 1,5 trilioni di dollari necessario per evitare il fallimento delle banche e cercare di rimettere in moto l'economia. Non è detto che basti e, anzi, c'è il rischio di un'altra reazione negativa di Wall Street, visto che il piano del leader democratico prevede (ma solo nel medio lungo-periodo) un aumento delle tasse su chi guadagna di più e sui redditi da capitale.
L'epicentro della crisi rimane il sistema bancario: la Borsa, dopo qualche mese di tregua, ha ricominciato a franare una decina di giorni fa quando il ministro del Tesoro Tim Geithner, dopo una serie di annunci che avevano alimentato forti aspettative, non era riuscito a presentare un vero piano di salvataggio del sistema creditizio, ma solo alcuni principi-guida. E' da lì che si riparte oggi, col governo che ufficialmente ripete di essere contrario alla nazionalizzazione degli istituti di credito più disastrati ma che, in realtà, su questo punto è diviso. Il diario degli ultimi giorni del "dream team" economico del presidente — quelli che Obama chiama scherzosamente «the propeller heads », teste come eliche di un motore d'aereo — parla da solo: Geithner che, da solo e a «mani nude» (non dispone ancora di una squadra di collaboratori), lavora alacremente su vari «dossier», dalla crisi dell'auto a quello, complicatissimo, dei titoli «tossici» detenuti dalle banche; Larry Summers, superconsigliere della Casa Bianca, che negli incontri riservati si dice estremamente allarmato e non esclude la necessità di interventi d'emergenza, forse già nel corso di questa settimana; e il «vecchio saggio» Paul Volcker— l'ex capo della Fed che negli anni '80 liberò gli Usa e il mondo dal mostro dell'iperinflazione — che venerdì sera, parlando alla Columbia University, dopo aver notato come la produzione industriale stia calando nel resto del mondo ancor più velocemente che negli Usa, ha detto di non ricordare un momento, nemmeno durante la Grande Depressione, in cui la situazione economica è peggiorata con tanta rapidità e inmodo così uniforme in tutto il mondo. Dopo di lui è intervenuto George Soros, il vecchio speculatore che da anni aveva previsto il collasso della finanza Usa, con un discorso ancor più drastico: il sistema finanziario è ormai disintegrato, senza possibilità di una soluzione della crisi a breve termine. Anche Soros giudica la turbolenza attuale più grave della crisi degli anni Trenta. Addirittura, paragona il crollo del sistema finanziario a quello, vent'anni fa, dell'Unione Sovietica.
Scenari assai poco incoraggianti per gli operatori di Wall Street che, dopo aver seguito per tutta la scorsa settimana una variante della regola del pistolero senza scrupoli ("prima vendi e poi fai domande", la parola d'ordine che da giorni rimbalza su molte pagine finanziarie), da oggi dovrebbero improvvisamente rimboccarsi le maniche e «ricominciare a crederci». Su quali basi? Difficilmente basteranno le promesse di Obama di ritornare entro 3-4 anni a una politica di contenimento del deficit. La speranza è che il mercato si convinca che — con un'economia che ha rallentato, ma meno che in altre parti del mondo — la Borsa sia ormai vicina al fondo (il suo valore è pressochè dimezzato rispetto ai massimi di un anno e mezzo fa). Per far avanzare una simile speranza è però necessario avviare a soluzione il problema delle banche.
Soprattutto i tre grandi gruppi più disastrati— Citigroup, Bank of America e Wells Fargo-Wachovia — il cui valore è crollato quasi a zero nonostante le massicce immissioni di capitale del Tesoro. Geithner cerca ancora la formula per realizzare un salvataggio all'interno del sistema di mercato, sia pure con le distorsioni imposte dalla necessità di fronteggiare l'emergenza: quindi il tentativo di rimettere in piedi un mercato per i titoli «tossici», dando loro un valore convenzionale e offrendo garanzie assicurative dello Stato ai privati disposti ad acquistarli. Ma Geithner, che non riesce nemmeno a trovare viceministri e direttori per il suo ministero capaci di passare attraverso i «filtri etici» introdotti da Obama, fa fatica anche solo a compilare un inventario dei titoli derivati finiti nel portafoglio delle banche. D'altra parte anche la seconda opzione, quella della nazionalizzazione, è un problema di uomini oltre che politico. Le obiezioni ideologiche potrebbero anche essere superate, visto che la proposta dell'economista Nouriel Roubini ("meglio una nazionalizzazione momentanea, tanto queste "banche zombie" non hanno più nulla a che fare col mercato") è condivisa anche da alcuni campioni del fronte conservatore come l'ex capo della Fed, Alan Greenspan, e il senatore Lindsey Graham (secondo il quale anche McCain, di cui lui è il braccio destro, la pensa nello stesso modo). Ma il «modello svedese» di cui tanto si parla è lontano dalla cultura americana: Paese di grandi imprenditori ma che, allergico alle nazionalizzazioni, non ha mai sperimentato figure alla Enrico Bondi. Dove trovare figure «super partes» capaci di prendere, ripulire e rimettere sul mercato?
Massimo Gaggi
23 febbraio 2009 da corriere.it
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« Ultima modifica: Marzo 03, 2009, 05:18:30 pm da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 27, 2009, 10:29:28 am » |
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Svolta con rischio
di Massimo Gaggi
«Ha lanciato i suoi dadi », commenta, ammirato e spaventato, David Broder, classe 1929, glorioso columnist del Washington Post.
In piena recessione e col sistema finanziario sotto la tenda a ossigeno, Barack Obama rischia il tutto per tutto mettendo in pista contemporaneamente la sanità «universale » per tutti gli americani, la riforma scolastica e una rivoluzione dell'energia che costerà cara ai grandi produttori di gas-serra.
Ma, soprattutto, per finanziare l'enorme dilatazione della spesa pubblica, il presidente democratico rompe il tabù dell'aumento delle tasse che nemmeno il suo partito aveva osato infrangere negli ultimi due decenni: non solo niente rinnovo degli sgravi di Bush, ma aliquote più elevate sui redditi oltre i 200 mila dollari e progressiva riduzione delle detrazioni, a partire da quelle per chi destina una parte del reddito ad attività di beneficenza. Quest'ultimo intervento sarà graduale, ma la virata è netta, dopo un quarto di secolo nel quale le amministrazioni repubblicane, ma anche quella di Bill Clinton, hanno usato il fisco per spingere la filantropia privata a impegnarsi sempre di più nella società, integrando e, a volte, addirittura sostituendo lo Stato.
E proprio Clinton, già indispettito dalle norme di trasparenza imposte da Obama che lo hanno costretto a rivelare l'identità dei finanziatori della sua fondazione quando Hillary è entrata nel governo, potrebbe essere la principale vittima di questa «stretta» sulla filantropia. Il nuovo presidente non ha mai osteggiato la beneficenza e, anzi, di recente ha incoraggiato l'impegno sociale delle associazioni religiose. Ma gli abusi commessi anche in questo campo (a cominciare dalle opere d'arte prestate a musei sconosciuti solo per pagare meno tasse) devono averlo convinto che è ora di riequilibrare la situazione.
Con le banche alle corde e l'assoluta necessità di recuperare la fiducia dei consumatori e degli investitori, il piano di Obama può apparire temerario: chi metterà più risorse nel mercato se i benestanti (che hanno già subito grosse perdite per il crollo dei valori finanziari e immobiliari) dovranno anche pagare più tasse? Ma il presidente ha voluto dare un segnale politico chiaro: mano tesa a Main Street — l'America delle mille cittadine operose — e pugno chiuso per Wall Street (che ieri ha risposto con un altro ribasso). Certo, la debolezza della finanza è anche un'opportunità per Obama: con i «titani » delle grandi banche ancora in sella, probabilmente non avrebbe avuto la forza di varare riforme così radicali.
Che, però, sono solo proposte da sottoporre all'esame del Congresso. Dove, più ancora dell'aperta ostilità dei repubblicani, il presidente deve temere le divaricazioni in campo democratico (le misure per l'ambiente saranno, ad esempio, osteggiate dalla forte corrente pro carbone). Per far cadere le resistenze, Obama scommette su un'emergenza che è veramente da economia di guerra: un deficit pubblico mostruoso come quello annunciato ieri per l'anno in corso — 1.750 miliardi di dollari, il 12,3% del Pil — non si vedeva dal 1945.
27 febbraio 2009 da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 03, 2009, 05:19:04 pm » |
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Paure americane
«Così diventeremo uguali agli europei»
Orgogliosa della sua capacità di restare «open for business» anche in piena tempesta, ieri, davanti a 30 centimetri di neve, New York si è rassegnata: scuole chiuse, aeroporti paralizzati, gran parte delle attività economiche bloccate. «Almeno avesse chiuso anche Wall Street» hanno sospirato gli operatori. Invece la Borsa è rimasta aperta e, sull'onda dell'aggravamento della crisi bancaria e del drammatico peggioramento dei conti del gruppo assicurativo AIG, è sprofondata di nuovo, tornando ai valori di 12 anni fa. Il disorientamento è generale. Il caso di AIG, nazionalizzata a settembre, è quello che ha segnato in modo più profondo il sovvertimento delle regole del mercato: 150 miliardi di dollari pubblici gettati in una fornace anziché lasciar fallire un gruppo che ha distrutto tutto il suo valore.
Certo, bisognava evitare il «rischio sistemico» che sarebbe stato provocato da una bancarotta, ma ora si scopre che nemmeno quel costosissimo salvataggio deciso dal governo è bastato ad arrestare l'emorragia: negli ultimi 90 giorni del 2008 il gruppo assicurativo americano ha perso altri 62 miliardi. Il mercato è in «panne», ma le perplessità davanti ai tentativi di Obama di rivitalizzare l'economia con massicce iniezioni di interventismo pubblico, anziché attenuarsi, si stanno trasformando in aperta ostilità. «Il presidente vuole europeizzarci» denuncia Mitch McConnell, il capo dei repubblicani al Senato. Politica ambientale che sembra ricalcare la linea pro-Kyoto della Ue, fino a ieri osteggiata da Bush; sanità «universale » che, denuncia Mitt Romney (già pronto a riprendere la sua corsa verso la Casa Bianca), potrebbe anche essere un obiettivo accettabile se, solo, non significasse «governo universale»; una riforma scolastica che punta a rilanciare l'istruzione pubblica: sono questi i tre interventi progettati dalla nuova amministrazione democratica che spingono i conservatori e il mondo degli affari ad accusare Obama di voler cambiare il Dna dell'economia e della società americane, importando il modello sociale europeo.
«Quello di Obama» denuncia il «Wall Street Journal», «non è un tentativo congiunturale di sostenere l'economia» in una fase di crisi dei mercati, ma un progetto che mira ad «espandere in modo permanente la spesa pubblica» in rapporto al Pil. Il tutto condito con un forte aumento della tassazione a carico dei ricchi che, però, sono anche i ceti più produttivi, e con un irrigidimento del mercato del lavoro. I più arrabbiati sono proprio gli imprenditori. Col suo approccio ecumenico, Obama aveva cercato di coinvolgere anche loro nel processo di definizione della sua politica economica, ma ora il suo progetto di bilancio li ha lasciati senza fiato: «È stato bello essere invitati a cena dal presidente — è sbottato col «Financial Times» Martin Regalia, il capo degli economisti della US Chambers of Commerce, la lobby degli industriali — solo che non ci eravamo resi conto di essere noi il piatto principale ».
In casa democratica un certo grado di «europeizzazione» non viene visto affatto come una disgrazia: nessuno si espone su questo terreno per evitare l'accusa di essere poco patriottico, ma la sanità dell'Europa occidentale viene generalmente giudicata più equa, efficace e meno costosa di quella americana. Da tempo, poi, il finanziere democratico George Soros sostiene che il disastro dei mutui «subprime» poteva essere evitato se solo gli Usa avessero utilizzato le collaudatissime formule europee: ad esempio il contratto introdotto in Danimarca nel 1795, dopo l'incendio che distrusse Copenhagen. È il migliore di tutti, assicura Soros. E non c'è mai stato bisogno di aggiornarlo. Dal dibattito ideologico e politico, la discussione sull'europeizzazione dilaga sulla stampa dove si legge, ormai, di tutto: da chi invita gli americani a prepararsi a fare la fila davanti agli ambulatori e anche «davanti ai negozi alimentari come nell'Europa socialista» alla speranza di importare un po' di «dolce vita» mediterranea: «Un intero agosto di ferie e tre ore di pausa pranzo». Chi glielo dice, agli americani, che tedeschi e scandinavi non fanno la «siesta»?
Massimo Gaggi 03 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 13, 2009, 10:45:59 am » |
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OBAMA TRA PUBBLICO E PRIVATO
La svolta europea per la salute Usa
«Sanità per tutti, la salute è un diritto umano», gridava la donna che ieri è stata trascinata fuori dal Congresso di Washington per aver interrotto i lavori della commissione che discute della riforma. Ovvie in Europa, quelle parole non lo sono altrettanto negli Stati Uniti, dove la salute è una responsabilità, non un diritto. Per questo le cure mediche vengono considerate un business come un altro e la gente accetta senza grandi proteste che i trattamenti più costosi ed efficaci siano riservati a chi può pagarseli. Decidendo di aprire la partita della riforma sanitaria, Barack Obama accetta, dunque, di correre rischi politici anche superiori a quelli che sta fronteggiando nella gestione di una crisi creditizia che moltiplica i disoccupati e costa cara al contribuente.
Il naufragio toccato a Bill e Hillary Clinton 16 anni fa non si ripeterà: il nuovo leader ha imparato da quell’esperienza, ma, soprattutto, oggi la sanità Usa sta molto peggio.
Pur spendendo per cure mediche il doppio dei Paesi europei, l'America ha 46 milioni di cittadini senza alcuna copertura. L'Oms, l'autorità sanitaria mondiale, considera Francia e Italia i Paesi che curano meglio, mentre relega gli Usa al 37esimo posto, dietro il Costa Rica. E' tempo di agire, insomma. E Obama, che si sta ispirando all'Europa in molti campi (incentivi alla «rottamazione » delle auto, misure contro i «gas serra», politica scolastica per l'infanzia), in teoria dovrebbe puntare su un sistema basato sul cosiddetto «pagatore unico»: quello che garantisce prestazioni a tutti, anche se i costi sono elevati. Ma la sanità privata è troppo radicata nell'economia e nella psicologia del Paese per poterla cancellare con un tratto di penna: molti temono che col pubblico arrivino anche servizi «razionati», lunghe code, minori possibilità di scelta.
I democratici puntano, quindi, solo ad affiancare, a quelle dei privati, polizze sanitarie offerte dallo Stato, ma a condizioni di mercato: una formula studiata per chi oggi è privo di copertura, ma che in futuro potrebbe essere scelta anche da altri, se il sistema pubblico si rivelasse efficiente e competitivo. Decidendo «spontaneamente» di ridimensionare i loro costi, assicurazioni e ospedali privati cercano ora di evitare che questo scenario si concretizzi. Obama non si accontenterà di una riforma cosmetica, ma maneggia con cautela la sfida della sanità universale non solo per realpolitik (il complesso sanitario-industriale, come lo chiamano alla Casa Bianca, è ancora forte), ma anche perché, coi bilanci pubblici affondati da recessione e salvataggi e i costi sanitari destinati a crescere ovunque, dare tutto a tutti sarà sempre meno possibile, negli Usa come in Europa.
Per convincere gli americani che la riforma serve, il presidente cita spesso il caso della madre che, quando stava per morire di cancro alle ovaie, passava più tempo a combattere con le assicurazioni che a curarsi. Certamente è sincero, ma lo è stato ancora più qualche giorno fa quando, parlando del futuro dell'economia, ha ammesso che un'altra vicenda per lui molto dolorosa — la nonna che morì di cancro l'estate scorsa, ma che poco prima, quando la malattia era già nella sua fase terminale, volle fare un costosissimo intervento ortopedico— lo ha indotto a riflettere sui limiti degli oneri sanitari che possono essere posti a carico della collettività.
di MASSIMO GAGGI 13 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 23, 2010, 12:53:40 am » |
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La battaglia del tè
«Adesso tocca a noi chiedere il cambiamento », gridavano i cartelli agitati l’altra sera a Boston dagli attivisti repubblicani in festa per l’elezione di Scott Brown, un oscuro deputato del parlamento locale, al seggio senatoriale occupato per 46 anni da Ted Kennedy, il «principe » dei progressisti Usa (scomparso sei mesi fa). Grande è lo smarrimento tra i democratici, e non solo per aver perduto il seggio-chiave che garantiva loro una maggioranza qualificata, a prova di ostruzionismo repubblicano: ora che è stato sconfitto in quella che i conservatori avevano soprannominato con rabbioso sarcasmo la «repubblica popolare del Massachusetts », il partito di Obama sa di poter essere travolto ovunque. E tra nove mesi gli americani voteranno di nuovo per rinnovare l’intera Camera, un terzo del Senato e i governatori di molti Stati — come Ohio, Pennsylvania, Florida e Colorado— in bilico tra i due schieramenti e, quindi, decisivi per le Presidenziali del 2012.
La brutale accelerazione dei processi politici in America e l’impatto di una crisi economica che spaventa ed esaspera i cittadini, hanno eroso in appena un anno il consenso che il nuovo presidente si era guadagnato. Change e hope, le sue scintillanti parole d’ordine vengono declassate dai suoi stessi elettori (che hanno già dimenticato le responsabilità di Bush per la crisi) a slogan usati con abilità da un professionista della politica che ha cambiato ben poco.
Entrando, oggi, nel secondo anno del suo mandato, cosa può fare Obama per risalire la china? Se la sconfitta ha due padri, la Grande Recessione e la sanità (l’inconsistenza della candidata Coakley ha pesato, ma nemmeno Brown, notato solo per la sua promessa di affondare la riforma, era un «peso massimo»), il presidente deve in primo luogo prendere in mano il partito con molta più determinazione, imponendo, prima ancora della sua linea, la fine dei dibattiti estenuanti che paralizzano il Congresso e fanno infuriare la gente. Nulla che Obama non sapesse già prima. E, infatti, aveva chiesto al Parlamento di votare la riforma prima della pausa estiva. Se avesse tenuto duro, probabilmente la situazione non gli sarebbe sfuggita di mano.
Adesso è ancor più imperativo chiudere la partita della sanità, archiviarla e non parlarne più. Poi, accantonata la costosa legge anti «gas serra» contro la quale i conservatori sono già pronti a lanciare un’altra crociata, Obama dovrà riformare con più vigore la finanza e concentrarsi sulla creazione di nuovi posti di lavoro: altra partita rischiosa perché, con famiglie e imprese ancora deboli e la prospettiva di una ripresa jobless, il presidente può puntare solo su un attivismo pubblico che gonfia il deficit e le vele della nuova destra dei Tea Party, il movimento populista che si ispira alla rivolta dei coloni americani anti tassa del tè contro il governo britannico (Boston, dicembre 1773).
L’ostacolo principale, per Obama, rimane il Congresso. Con la maggioranza democratica sempre divisa e un’opposizione repubblicana ormai galvanizzata, il presidente ha escluso ieri forzature: proporrà una versione fortemente ridimensionata della riforma che sia accettata dall’opinione pubblica e sulla quale sia possibile un accordo bipartisan. L’ammissione di una sconfitta e l’auspicio di un nuovo inizio. Nella speranza che la perdita del seggio chiave del Massachusetts dia ai democratici una scossa salutare.
Massimo Gaggi
21 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 21, 2011, 09:07:17 am » |
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GLI USA E LA PRIMAVERA ARABA
La democrazia come bussola
Il cuore gettato oltre l'ostacolo, abbandonando definitivamente i vecchi regimi mediorientali e incalzando l'alleato israeliano, non per il desiderio di rinverdire le parole d'ordine - hope e change, speranza e cambiamento - che tre anni fa lo proiettarono verso la Casa Bianca e fecero sognare il mondo, ma sulla base di una fredda analisi: per Barack Obama continuare a difendere lo status quo per paura dell'instabilità generata dal cambiamento non è più possibile né nei Paesi scossi dalla «primavera araba» né ai tormentati confini tra Israele e territori palestinesi. Meglio la temeraria sfida di negoziare un reciproco riconoscimento lungo le frontiere del 1967 (opportunamente corrette) dell'attuale, astiosa paralisi: il riconoscimento di una reciproca impotenza che sta facendo scivolare tutta l'area verso il baratro.
Nel discorso con il quale ieri ha ridefinito la sua politica mediorientale 23 mesi dopo il celebre messaggio all'Islam pronunciato al Cairo e a sei mesi dall'inizio delle rivolte contro i dittatori del mondo arabo, il presidente americano ha ammesso i rischi insiti nelle sfide che ha deciso di accettare: nel suo piano non ci sono più approdi sicuri né una vera road map. Solo la consapevolezza di dover fronteggiare situazioni molto diverse tra loro avendo a disposizione un'unica, possibile bussola: la difesa dei principi universali - libertà e diritti umani - ai quali si ispira l'America. «Abbiamo un'opportunità storica», ha scandito Obama. «Dopo aver accettato in Medio Oriente il mondo com'è, abbiamo la possibilità di batterci per il mondo come dovrebbe essere».
E allora, pieno appoggio ai fermenti democratici che, partiti da Tunisia ed Egitto, scuotono ormai tutto il mondo arabo. Sostegno Usa (con tanto di piano di aiuti americani presto integrati da quelli del Fondo monetario internazionale e dei Paesi del G8 che si riuniranno tra una settimana in Francia) solo ai governi che progrediscono sulla via delle riforme. Dura condanna, invece, per chi usa la violenza per bloccare il cambiamento: non solo la Libia di Gheddafi e la Siria di Assad, appena colpita dalle sanzioni di Washington, ma anche lo Yemen e perfino il Bahrein, Paese alleato che ospita la Quinta Flotta Usa, quella che protegge la «via del petrolio» lungo il Golfo Persico e lo stretto di Hormuz. Silenzio sull'Arabia Saudita, ma è chiaro che il messaggio vale anche per il gigante petrolifero.
Il presidente ha fatto solo un accenno all'eliminazione di Osama Bin Laden: un trofeo da esibire in Occidente, ma non nel mondo arabo dove la popolarità di Obama è già in calo. Consapevole del rischio di essere percepito dalle masse arabe come un nuovo Bush, il presidente più che sulle politiche per la sicurezza punta sui movimenti democratici che, dice, hanno sconfitto Al Qaeda sul piano ideale prima che fosse battuta su quello militare dagli incursori della Marina Usa.
Discorso lungimirante o velleitario? Cominceremo a scoprirlo già oggi, con la visita del premier israeliano alla Casa Bianca. Certo, un cambio di regime comporta sempre il rischio di un vuoto di potere, la cosa che più spaventa chi fa politica. Ma Obama si è ormai convinto che l'America non può più colmare quello lasciato dalla caduta dell'impero ottomano e poi dalle amministrazioni inglesi e francesi fino al 1945, con l'egemonia fin qui esercitata sul mondo arabo accettando compromessi a raffica in nome della realpolitik.
MASSIMO GAGGI
20 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - corriere.it/editoriali/11_maggio_20/
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 05, 2012, 06:35:26 pm » |
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ELEZIONI USA I conti amari del vincitore Tasse e debito, verità sottaciute «Lasciaci soli, dobbiamo discutere tra noi». Barack Obama reprime la rabbia ed esce. Messo alla porta in casa sua, alla Casa Bianca, dai leader del Congresso nel momento culminante del negoziato sul debito pubblico. Repubblicani ma anche democratici, uomini del suo partito. È la scena più drammatica di The Price of Politics , l'ultimo libro di Bob Woodward. Dipinge con crudezza la parabola di un uomo che, incoronato quattro anni fa come il leader capace non solo di realizzare un cambiamento ma di trasformare l'America, è riuscito ad evitare il peggio - in economia, sulla sicurezza, nei rapporti internazionali - senza, però, riuscire a imporre le sue scelte per il rilancio dell'economia e arrestare il declino della superpotenza. Il presidente ha capito fin dal primo momento che rischiava di essere schiacciato dalle sue stesse promesse «kennediane». «Non faccio miracoli, non cammino sulle acque» rispose, appena insediato, nel 2009, a chi pensava che potesse risolvere la crisi con un esorcismo. E impostò fin dall'inizio una campagna elettorale che per imponenza, uso massiccio della tecnologia, «schedatura» digitale degli elettori, spese miliardarie, capillarità, impiego di personale stipendiato per anni, ricorda più i metodi dei vecchi «notabili» democristiani che non quelli del leader carismatico che aveva aperto i cuori in mezzo mondo. Fino a qualche tempo fa questa sembrava la sfida: un grande campaigner che sa come aggregare, in un modo o nell'altro, il consenso, ma senza programmi e poca leadership , contro un Mitt Romney con una sua ricetta economica chiara, anche se per certi versi estrema e di dubbia praticabilità. Uno che saprebbe dove «mettere le mani» ma, davanti agli elettori, ha il fascino di un amministratore di condominio. Le ultime settimane della campagna ci hanno consegnato uno scenario radicalmente diverso. Romney da un certo punto in poi ha ritrovato smalto, è apparso più sicuro di sé. Credibile e rassicurante anche per molti centristi. Ma ha ottenuto questo risultato annacquando il suo programma, facendo promesse anche a chi (pensionati, studenti della scuola pubblica, pazienti della sanità per i poveri e gli anziani) dovrebbe essere il naturale destinatario dei suoi tagli di spesa. Di più: non ha mai spiegato come sia possibile far tornare i conti riducendo il prelievo fiscale al 20 per cento del Pil e senza mutilazioni del welfare . E quando i tecnici «nonpartisan» del Congressional Research Service hanno pubblicato una ricerca che esclude ogni correlazione tra calo delle tasse sui ricchi e rilancio dell'economia, i repubblicani hanno chiesto e ottenuto il suo ritiro. Quanto a Obama, dopo lo smarrimento nei giorni della convention e il crollo nel primo dibattito, ha ripreso un po' di slancio, ma con un messaggio che è sempre più monocorde: «Fidatevi di me, farò del mio meglio». Programmi ancora zero, ma stavolta perché il presidente sa che, se domani verrà rieletto, dovrà concludere quel grand bargain coi repubblicani fallito l'anno scorso: più tasse, ma soprattutto pesanti sacrifici sociali, in particolare per gli anziani. È quello che temono (anche sulla base di qualche battuta di Obama) i liberal e i sindacati che lo votano col fiato sospeso. Chiunque vinca domani, dal giorno dopo sentiremo parlare soprattutto della crisi fiscale che l'America deve evitare. E della ricetta bipartisan antidebito e antirecessione dei due saggi Simpson e Bowles che uscirà dai cassetti nei quali Casa Bianca e Congresso l'hanno sepolta due anni fa. Massimo Gaggi 5 novembre 2012 | 10:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_05/conti-amari-vincitore-massimo-gaggi_d636390c-2711-11e2-a3d0-4a01526cb6a5.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:54:53 am » |
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La vendetta di chi si sente escluso Di Massimo Gaggi Rabbia dei ceti medi bianchi e del proletariato nero che si sentono esclusi dai benefici di una ripresa economica che, pure, è in corso. Diffuso pessimismo sulle prospettive future. Delusione per le promesse mancate di Obama, la sua carenza di leadership in America e sulla scena internazionale. Fastidio per la sua cerebrale lontananza dalla gente e dal suo stesso partito. C’è tutto questo e anche altro nella pesantissima sconfitta democratica alle elezioni di Midterm: una campagna condotta senza bussola da un fronte politico che ha chiesto a un presidente poco popolare di uscire il meno possibile dalla Casa Bianca, ma che non aveva nulla per sostituire la sua celebre macchina elettorale. Mentre i repubblicani, ammaestrati dalla pesante sconfitta di Romney nel 2012, hanno messo in piedi un’organizza-zione completamente nuova, usando in modo spregiudicato i generosi finanziamenti dei miliardari conservatori, scegliendo i loro candidati con cura ed evitando di finire a rimorchio degli estremisti dei Tea Party. Obama con le mani legate e America paralizzata nei prossimi due anni? Scenario alterato in vista delle presidenziali del 2016? Per il presidente tutto diventa ora più difficile, anche far passare la nomina più banale. Ma il Congresso già vive da due anni in uno stato di semiparalisi per il filibustering repubblicano. Ora sarà la sinistra a usare quello strumento. Come notava ieri Ian Bremmer, se gli Stati Uniti continuano a crescere al ritmo del 3,5% mentre l’Europa è in recessione e la Cina sconcerta tutti col suo repentino rallentamento, per l’America può essere tollerabile anche un altro periodo di galleggiamento. Certo, le sperequazioni nella distribuzione del reddito continueranno a crescere e con esse gli squilibri nella società, ma Obama non avrebbe potuto varare una riforma fiscale nemmeno se fosse uscito indenne o vittorioso dal confronto elettorale. I rischi ora sono soprattutto a livello internazionale: già sfidato da Putin e da altri che hanno approfittato della sua leadership incerta, Obama esce ora ancor più vulnerabile dalla tornata elettorale. Ma è anche vero che i poteri presidenziali più forti sono proprio quelli che la Casa Bianca esercita fuori dai confini americani: con o senza Congresso, Barack è ancora un commander-in-chief. Quanto al 2016, il voto di ieri fa emergere nuovi personaggi repubblicani, ma rafforza anche le chance di Jeb Bush in due modi: col ridimensionamento della destra radicale che lo considera troppo moderato e detesta i due presidenti della sua famiglia e con la sconfitta, in campo democratico, non solo dei candidati obamiani, ma anche di quelli sostenuti attivamente da Bill e Hillary Clinton. Da ieri ha contorni più concreti l’incubo segreto degli strateghi democratici: che lo slogan repubblicano per una sfida Jeb-Hillary nel 2016 possa essere «il Bush giusto contro il Clinton sbagliato». © RIPRODUZIONE RISERVATA 6 novembre 2014 | 08:06 Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_06/vendetta-chi-si-sente-escluso-775e4f9e-657d-11e4-b6fa-49c6569d98de.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 18, 2015, 06:36:08 am » |
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Dopo gli attacchi di parigi - Limiti alla privacy Il confine tra diritti e sicurezza Di Massimo Gaggi Niente leggi speciali, niente ripristino di frontiere abolite solo qualche anno fa in Europa. Giusto resistere alla tentazione di blindarsi, di sospendere gli accordi di Schengen. È una questione di principio: non possiamo darla vinta ai terroristi. C’è anche un aspetto pratico in questo confronto ideale: che cosa succederebbe se i fanatici arruolati nelle «cellule dormienti» dovessero scoprire che bastano due attentati, pure male organizzati, per smantellare un trattato internazionale? E dunque nessun cedimento. Ma attenzione: non illudiamoci di poter combattere questa mutazione della minaccia jihadista, questo terrorismo feroce e nichilista, ricorrendo a strategie simili a quelle seguite qualche decennio fa in Europa per neutralizzare le Brigate Rosse, la Raf tedesca o l’Ira irlandese. La minaccia di oggi è molto più pericolosa e complessa: se vogliamo evitare di chiuderci, di scivolare di nuovo nella logica di quella guerra al terrore che Obama ha cercato di superare negli Stati Uniti, bisogna tenere alta la guardia della prevenzione. E accettare un’azione di intelligence inevitabilmente ubiqua e penetrante. Quello di un presidente americano che predica bene e razzola male - un presidente che denuncia giustamente la corrosione dei diritti e dei meccanismi democratici provocata dal vivere in un clima di guerra permanente, ma poi non blocca lo spionaggio a tappeto della National Security Agency collegato a quella corrosione - è argomento utile a confezionare qualche titolo efficace, ma fuorviante. È sacrosanto difendere fin dove è possibile il nostro diritto alla riservatezza: la privacy continua a far parte delle nostre libertà essenziali, anche nell’era del terrorismo, ma i limiti e i modi di proteggerla sono cambiati - e radicalmente - negli ultimi 15 anni. Non esiste alternativa a tecniche di intelligence sempre più capillari: è inevitabile in tempi di moltiplicazione delle organizzazioni terroristiche, anche più feroci e ramificate di Al Qaeda, in un mondo solcato da diaspore di tutti i tipi e dalle flotte del traffico di clandestini, un mondo di migrazioni aeree continue e di lavoro globalizzato. La sfida del nuovo terrorismo che fa proseliti anche da noi, così come la difficoltà di intercettare i cani sciolti che vengono dalla criminalità comune e usano la guerra santa per nobilitare rabbia e istinti violenti, richiedono una sorveglianza più attenta e più profonda. Gli investigatori non possono avere mano libera, certo: va sorvegliata la loro onestà intellettuale, oltre che la loro capacità operativa. Tuttavia il telefonino della cancelliera tedesca Angela Merkel spiato da Washington o l’agente che usa l’orecchio della Nsa per controllare la moglie sono patologie da estirpare, non la prova che il sistema creato dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 sia da buttare. 13 gennaio 2015 | 07:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_13/confine-diritti-sicurezza-cd3707bc-9ae8-11e4-bf95-3f0a8339dd35.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 21, 2015, 06:14:35 pm » |
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Obama, "L'America è libera di scegliere il proprio destino" Per Obama, questo nuovo capitolo della storia americana dovrà puntare a una maggiore eguaglianza sociale, bloccando l'allargamento della forbice della ricchezza e dando soprattutto nuove opportunità ai ceti medi perché diventino il motore dello sviluppo. Nel Discorso di martedì ha posto una domanda (ovviamente retorica): "Vogliamo forse una economia che permetta soltanto a pochi di arricchirsi in modo spettacolare? O vogliamo impegnarci a realizzare un modello economico che porti ad aumenti generalizzati di reddito e dà opportunità a chiunque faccia uno sforzo?" Di qui gli sconti fiscali proposti dalla Casa Bianca per le famiglie che lavorano, a cominciare da una deduzione di 3mila dollari all'anno per ogni figlio, e altre misure per rendere gratuita l'Università pubblica per alcune categorie di studenti o per il pagamento dei giorni di assenza per malattia. Queste iniziative, sempre secondo il presidente, dovrebbero essere finanziate con una "stangata" - come l'ha subito definita la destra, promettendo di combatterla - da 320 miliardi di dollari in 10 anni sui super-ricchi. La Casa Bianca, nella prossima legge di bilancio che presenterà la settimana prossima, chiederà aumenti dal 23,8 al 28 per cento i capital gain per le famiglie che guadagnano più di mezzo milione di dollari all'anno e l'eliminazione di alcuni "trucchi" usati dai più abbienti per evitare le tasse di successione attraverso i trust fund. Martedì sera Obama ha insistito anche sulla necessità di migliorare le difesa dal terrorismo informatico; sull'esigenza di arrivare (il riferimento era agli incidenti razziali di Ferguson e New York) a una riforma delle leggi penale per proteggere sia i poliziotti che le vittime innocenti; sulla priorità di frenare il cambiamento climatico, specie dopo il record della temperatura registrato nel 2014; sulla sua volontà di chiudere il carcere di Guantanámo; sul bisogno di alzare il salario minimo. Il Discorso sullo stato dell'unione è l'appuntamento annuale più importante della politica washingtoniana. Serve al presidente per dare la sua valutazione sulla situazione del paese e del mondo, per illustrare il lavoro fatto, per lanciare alcune proposte programmatiche. Nell'aula del Congresso, oltre ai senatori e ai deputati, sempre pronti ad interrompere il discorso con gli applausi, c'erano martedì sera tutti i membri del governo (tranne uno, il ministro dei Trasporti Anthony Foxx, che è restato "di guardia" per far fronte a ogni emergenza), tutti i giudici della corte costituzionale, e poi i capi delle forze armate, i diplomatici e alcuni invitati speciali nella tribunale della First lady. Accanto a Michelle Obama, oltre a un prigioniero liberato dal regime castrista dopo la svolta diplomatica tra Washington e l'Avana, sedevano vari "testimonial" delle difficoltà, delle ansie e dei successi degli Stati Uniti. Obama si è presentato al Congresso, ormai dominato numericamente dai repubblicani, più sicuro di sé e più combattivo di sempre. Ha minacciato più volte di mettere il veto sei i provvedimenti votati dalla destra dovessero bloccare le riforme della sua presidenza. Un atteggiamento, questo, quasi paradossale: a dispetto dalla sconfitta nelle elezioni di novembre di midterm, il presidente non appare disposto a cedere terreno ai suoi avversari politici. E l'attivismo delle ultime settimane sembra avergli dato ragione: secondo i sondaggi, la sua popolarità è tornata al 50 cento, cioè ai livelli del 2013. Agli americani piace la nuova strada imboccata dalla Casa Bianca su Cuba e quella sulla immigrazione, nonostante che la destra continui a minacciare una dura opposizione, specie sull'aumento delle tasse. In questo nuovo scenario, dicono i politologi, Obama si è conquistato di nuovo uno spazio politico e soprattutto la possibilità di imporre i temi che saranno al centro delle presidenziali del 2016. E se fino a poche settimane fa sembrava che il destino dei democratici fosse segnato, e che non avessero alcuna speranza di restare alla Casa Bianca, i giochi elettorali sembrano riaprirsi, assieme a questo "nuovo capitolo", come lo chiama Obama, della storia americana. © Riproduzione riservata 21 gennaio 2015 Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/01/21/news/obama_gli_usa_voltano_pagina_sesto_discorso_sullo_stato_dell_unione-105400754/?ref=HRER3-1
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 03, 2015, 05:16:45 pm » |
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Diplomazia Iran, il nucleare e altri sospetti Israele e Stati Uniti non sono mai stati così distanti Di Massimo Gaggi Giugno 1981. Reagan è furibondo con Israele per il bombardamento del reattore nucleare iracheno di Osirak, vicino a Bagdad. Gli Usa condannano l’azione e non difendono Gerusalemme davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu. La reazione del premier israeliano Begin è durissima. Convoca l’ambasciatore americano e lo ammonisce: «Non permettetevi di interferire nella nostra autonomia trattandoci come vassalli, non siamo una repubblica delle banane». Chi oggi pensa che le relazioni tra i due Paesi non verranno scosse più di tanto dallo «sgarbo diplomatico» di Netanyahu, arrivato a Washington senza accordi preventivi con la Casa Bianca per esprimere (ieri all’Aipac, il gruppo di pressione pro Israele in America, oggi al Congresso) la sua ferma opposizione all’accordo sul nucleare che si sta delineando con l’Iran, ripensa a questo e altri precedenti di tensione. Dalla crisi di Suez del 1956 alla guerra del Kippur, molte sono state le scintille tra i due alleati. Ma alla fine gli interessi comuni hanno sempre prevalso sui dissensi. Accadrà anche stavolta? È possibile, ma questa è una crisi diversa dalle altre. Non solo perché ai contrasti di politica estera si aggiungono la profonda disistima reciproca tra Obama e Netanyahu e il sospetto della Casa Bianca che, spaccando il Congresso per vincere le elezioni in Israele, stavolta sia il leader ebraico a cercare di trattare l’America come una banana republic . Tutto molto grave, certo, ma anche 35 anni fa Begin bombardò l’Iraq alla vigilia delle elezioni. Reagan aveva con lui un pessimo rapporto e reagì con mosse (come il taglio delle forniture militari) che oggi sarebbero considerate inaudite. Obama ha denunciato, sì, il viaggio di Netanyahu come dannoso, ma si è limitato a fargli il vuoto attorno: il premier non vedrà il presidente, né il suo vice Biden, né il segretario di Stato Kerry. Ma le voci di riduzioni degli aiuti militari a Gerusalemme sono state smentite. La vera gravità di questo conflitto non sta nella pesantezza dello sgarbo di Netanyahu, nei pessimi rapporti tra i leader e nemmeno nell’approccio più muscolare di Israele. La giustificazione data ieri dal premier per il suo intervento «a gamba tesa» è la stessa di Begin: «Voi combattete per la vostra sicurezza, Israele per la sua sopravvivenza». Stavolta c’è di più: visione strategiche profondamente diverse. Obama crede che l’Iran possa diventare un fattore di (relativa) stabilità in un Medio Oriente sconvolto dalla frantumazione del mondo arabo sunnita. Netanyahu considera una visione simile un pericolo mortale. Se arrivasse l’accordo con Teheran, e Israele non cambiasse rotta, il conflitto potrebbe diventare insanabile. 3 marzo 2015 | 08:55 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_03/iran-nucleare-altri-sospetti-b123beba-c16e-11e4-9eeb-2972a4034f5c.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 16, 2015, 04:31:32 pm » |
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Visti da lontano La strategia incompresa del presidente Obama La nuova leadership Usa si baserà sempre meno sulla presenza militare e sempre più sulla capacità di promuovere attività e legami economici Di Massimo Gaggi I «pontieri» al lavoro in Congresso stanno superando il recente stallo sulla concessione al presidente della «corsia preferenziale» necessaria per chiudere i trattati di libero scambio: il Tpp con i partner asiatici degli Stati Uniti e, più in là, il Ttip con i Paesi dell’Unione europea. La strada, però, è ancora lunga (il difficile verrà alla Camera) e lo strappo a sinistra tra Obama e i liberal del suo partito è molto profondo. Il leader democratico ha usato contro gli oppositori interni un linguaggio durissimo, come raramente (qualcuno dice mai) ha fatto coi repubblicani. Quando Elizabeth Warren ha attaccato, giudicando il free trade un regalo alle imprese e un modo per ridurre i controlli su Wall Street, un Obama furente ha replicato che la senatrice dice cose assolutamente false: si comporta come un «politico qualunque» che trasforma le sue fantasiose ipotesi in fatti. Il cuore della nuova politica Parole assai aspre perché, spiegano alla Casa Bianca, Obama è offeso dall’opposizione preconcetta di molti della sua parte politica ai trattati così come anni fa era offeso dall’opposizione preconcetta dei repubblicani alla sua riforma sanitaria. Ma non si tratta solo di orgoglio ferito. Nella strategia del presidente i trattati con l’area del Pacifico e con la Ue sono molto più che accordi per «oliare» il business e creare un po’ di posti di lavoro: sono il cuore della nuova politica estera americana, l’architrave di una leadership (o influenza) Usa diversa, destinata a basarsi sempre meno sulla presenza militare nel mondo e sempre più sulla capacità di promuovere attività e legami economici. Dovrebbe rifletterci su anche l’Europa che sembra preoccuparsi solo della diffusione degli Ogm. C’è un cambio di passo di Obama che non è stato capito: i sindacati e il sindaco di New York, de Blasio, sempre più ansioso di presentarsi come capofila della sinistra radicale, continuano a demonizzare i trattati e i Paesi, come Giappone e Malesia, che dovrebbero firmarli. Ma per il presidente l’alleanza commerciale servirà anche a contenere e delimitare l’influenza della Cina in Estremo Oriente: Giappone e Malesia sono pedine essenziali di questo disegno. Ma rinvii e battaglie al Congresso stanno irritando i partner asiatici di Washington mentre Pechino approfitta di questo vuoto per reclutare vari alleati degli Usa - Corea del Sud, Germania , Gran Bretagna e anche l’Italia - nella sua banca per le Infrastrutture: lo strumento, osteggiato dall’America, col quale la leadership cinese vuole dare centralità internazionale al grande Paese asiatico. 15 maggio 2015 | 09:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/esteri/15_maggio_15/strategia-incompresa-presidente-obama-63e9014a-fad1-11e4-92e0-2199ef8c8ae2.shtml
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