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Autore Discussione: Furio COLOMBO -  (Letto 83703 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Febbraio 10, 2014, 05:10:41 pm »

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Alexis Tsipras: Europa e Italia, la speranza parla greco

di Furio Colombo
9 febbraio 2014

Roma, ai giorni nostri. Siamo in un teatro (il Valle occupato) affollato all’inverosimile. C’è folla anche in strada, al punto da bloccare il traffico. In uno dei palchetti in cui ho trovato uno spazio, forzando un po’ fra il gruppo che era già entrato, una signora mi dice, indicando la folla, sopra e sotto di noi: “Ma le pare che alla nostra età dobbiamo ricominciare a cercare casa?”. Si vede al primo colpo d’occhio che, con l’eccezione di un dieci per cento di figli e di giovani occupanti del teatro, che fanno da “maschere” e da servizio d’ordine, l’intero spazio è occupato da persone decisamente sopra i cinquanta. Non sto per dirvi che adesso i giovani fanno politica da soli, in silenzio davanti allo schermo del computer. Ma devo ricordare i messaggini che ogni due o tre minuti arrivavano, via telefonino, dalle fonti a cui sei collegato.

Ore 15: “Il Quirinale per il rilancio di Letta”. Ore 16,15: “Renzi preme per la staffetta”. Ore 17: “Il segretario: Enrico ci dia risposte”. Ore 17,39: “Nel caso di Renzi capo del Governo, scatterà una crisi formale, ma non al buio”. E anche: “Enrico: Matteo ci porta al voto, Alfano sei avvertito”. Ore 18: “Toti non si sbilancia. Renzi al governo? Facciano loro. Berlusconi mantiene i patti”. Alla stessa ora, nel teatro stracolmo, arriva il deputato greco Alexis Tsipras, 42 anni, leader di un partito chiamato Syriza, che i commentatori definiscono “di sinistra radicale” e che, nel suo Paese è in testa a tutti i sondaggi. Resta in piedi, ai bordi del palco, e accanto a lui ci sono alcuni di coloro che lo hanno chiamato (Spinelli, Flores d’Arcais, Luciano Gallino). Lo hanno fatto perchè, come dice la vignetta sulla prima pagina del Manifesto, “La politica è uno di quei mestieri che gli italiani non vogliono più fare”.

Tsipras saluta col pugno chiuso. E bisogna dire subito che in tutta quella folla non c’è ovazione o tripudio, c’è molta attesa, una grande attenzione. E silenzio, come se Tsipras – pur ben tradotto – non parlasse greco. Perché ciò che ha da dire è qualcosa che non si sente da tempo in questo Paese affamato di buon senso. Sta parlando non di sé ma di politica. Sta parlando di Europa non come se fosse imminente il giudizio universale o la rivoluzione di Ottobre.

Sta parlando per coinvolgere, non per annunciare cose già decise altrove, da altri, e dare ordini. La gente qui dentro respira nonostante la folla che preme, perché, ascoltando quest’uomo normale, si sente liberata da due incubi: le esibizioni del duo Enrico-Matteo, che più si chiamano per nome e più si fanno scherzi che non ci riguardano. E la voce dalle alture della rete, sempre parecchio al di sopra dei toni umani, e come in preda a una ispirazione spaziale.

Le proposte che il giovane deputato greco vuole condividere con la sua folla di militanti anziani di tante sinistre italiane che non sanno più dove andare o per chi votare, sono di due tipi: una strategia di salvezza da una crisi che non è affatto finita e che può fare ancora molte vittime. E un assetto diverso dell’Europa. Dunque una cosa è chiara, e appare subito opposta alle due mortali visioni italiane: l’Europa non si rinnega anche se ha imposto un percorso di errori. Ma gli errori non si venerano come se fossero le tavole di una legge superiore. Le democrazie si cambiano o si correggono con le elezioni.

Il primo punto della intensa presentazione di Tsipras è il debito. Sotto il peso del debito, se l’Europa continua a esigerlo da implacabile esattore, come ai tempi di Dickens, ci sono Paesi destinati a morire. Come avevano detto e ripetuto, finora invano, i due Nobel per l’economia Stiglitz e Krugman, nessuna grande crisi, da quella del 1929 negli USA alla rinascita della Germania nell’ultimo dopoguerra, è mai avvenuta senza la remissione del debito.

Quando si dice “piano Marshall per l’Europa” è di qui che bisogna partire: affrontare con una visione chiara e realistica il problema del debito che attanaglia tutti i Paesi del Sud e che gli stessi generatori del debito (governi, banche, classi agiate) tendono ad attribuire alla esosità dei poveri. Qui si colloca il tema immenso del costo del lavoro che Tsipras propone così: “Come salvare l’Europa dall’Europa”, visto che la minaccia non è la povertà (a meno di farla crescere invece di affrontarla) e non è il costo del lavoro, poiché isolando e abbandonando chi lavora si blocca ogni ripresa e si resta a languire nella deflazione. Il problema è una politica del lavoro che non esiste. E un controllo attento, intelligente, delle grandi risorse economiche, affinché non svaniscano, senza tasse, in pura finanza apolide.

Nell’immaginazione realistica e concreta del deputato greco, il parlamento europeo dovrà avere un ruolo vero, vincolante, finora mai avuto. La attuale camera di consultazione che lascia libere le mani di tutti, e si espone alle decisioni di centri di potere extra-politici, legati a ben altri interessi, ci inchioda alla crisi. Tsipras introduce due concetti che non dovrebbero mancare nella campagna elettorale del maggio prossimo: il problema del debito, che non può essere abbandonato sulle spalle dei poveri, del lavoro e di una nuova vasta classe di esclusi. E i Paesi del Sud, che sono indispensabili all’Europa ma usati troppo facilmente come capri espiatori e colpevoli perenni, esposti a un giudizio e a una condanna senza fine.

A questo punto il lettore ha intravisto l’immensa distanza fra l’Italia di Matteo, di Enrico, del Mago virtuale e dei suoi associati dai fatti veri. E ha capito perché è necessaria in Italia una lista Tsipras di persone vere per le prossime elezioni europee.

Il Fatto Quotidiano, 9 Febbraio 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/09/alexis-tsipras-europa-e-italia-la-speranza-parla-greco/874958/
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« Risposta #151 inserito:: Febbraio 28, 2014, 07:24:20 pm »

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Il governo come un talent: Renzi non vuole l’esperienza
di Furio Colombo | 23 febbraio 2014

Il fatto è che a questa compagine di governo non manca Emma Bonino, come in tanti hanno detto. Manca Simona Ventura, per organizzare il nuovo XFactor. Manca la De Filippi per ricordare ai giovani concorrenti le regole del talento italiano. Non ci hanno presentato un governo. Ci hanno presentato un concorso di giovani talenti che ti prende di sorpresa per l’alto rischio e la regola chiave: il concorrente non deve essere informato sulla materia in cui è chiamato a competere. Gli spettatori seguiranno lo spettacolo col cuore in gola. Perché c’è quest’altra regola: se non vince il giovane che compare per la prima volta su questa scena, ne risponde lo spettatore. Formula nuova, no? Certo l’eliminazione della Bonino, mandata a casa mentre faceva il ministro degli Esteri in uno dei momenti più delicati della storia della Repubblica, per questo governo era indispensabile. Che cosa ci faceva una competente nel nuovo tipo di gara? D’accordo, dal punto di vista dei nostri interessi internazionali questa improvvisata “staffetta” tra chi sa e chi non sa, sia pure per il gusto del brivido, è una decisione alla cieca.

Prendete la questione dei fucilieri di Marina consegnati alla polizia indiana da un armatore privato a cui erano stati concessi benevolmente dallo Stato italiano come scorta. Se c’è una trattativa, il brusco cambio la ferma. Se è in corso un confronto di credibilità e autorevolezza, lo liquida. Dettagli. A Renzi premeva far pesare un criterio assoluto, semplice e antico: io sono io, e voi (ovvero chiunque non sia un mio fedelissimo), non contate e non dovete contare niente (ho semplificato il concetto). Ma la decisione sembra anche dettata da un criterio ossessivo di età e di “lookkismo” (che si scatena in Renzi se si tratta di donne, alla faccia delle pari opportunità) di cui non si può che dare le due definizioni correnti: delusione (per coloro che avessero creduto nel Renzi “il nuovo”) ed errore. Non perché la Bonino sia la più brava del mondo. Ma perché, a quel livello, la sostituzione non c’era. Si è dovuto ricorrere a personale locale fornito dagli uffici Pd. Il risultato è un cast che potrà soddisfare il pubblico interno (non il popolo Pd, solo la Direzione del Pd). Interessa poco ricostruire il gioco rovesciato del presidente della Repubblica, che ha mezzo perso, perché ha dovuto accettare tutta la lista meno uno, e ha mezzo vinto perché, in cambio, ha imposto un suo uomo e ha fatto durare quasi tre ore “l’incontro formale” affinché le porte, che restavano chiuse, dimostrassero chi comanda. Renzi darà una sua versione dell’Italia, dell’Europa, della vita, nel suo discorso di investitura. Ormai si sa che sarà “giovane”, tenderà alla battuta (che riguarda lui solo ed è un tantino fuori posto), trasuderà compiacimento e non avrà alcuna visione del mondo. Niente crisi con l’India, niente attenzione al dramma ucraino, niente percezione delle rivolte nel mondo, niente Medio Oriente, niente Africa, niente Nord Africa, niente immigrati, tutte materie di cui i suoi amici giovani non hanno molte idee. Poteva, questo spensierato club di girl e boy scouts sedere allo stesso tavolo con Emma Bonino, rischiando di sentirsi ascoltati a ogni intervento, di svelare l’incredibile distanza fra i nuovi talenti in concorso e la realtà? Non potevano. Far fuori un testimone ingombrante era più facile che trattenerla e tentare di tenerla a bada.

Difficile che la nuova titolare della Farnesina che appena appena si stava facendo una esperienza nei percorsi non proprio semplici del Pd, che è intelligente, ma quasi del tutto estranea agli affari del mondo, possa prendere in mano senza danno segretari generali, ambasciatori e organismi internazionali e concepire una strategia e dettare una linea. Le ci vorrà del tempo, tutto a carico di chi deve restare sulla porta delle prigioni indiane. Tutto a carico delle crisi mondiali in cui l’Italia avrebbe un ruolo e un peso politico che non avrà. Cerco un’altra ricostruzione dell’insolito evento. Diciamo che la scelta è stata di formare il governo come uno di quei centri di formazione e riqualificazione del personale tra un impiego e l’altro. Tutta gente che un giorno potrà far bene e intanto impara. Ma nella concezione del fondatore della nuova “scuola della politica”, un simile corso di formazione deve avere un solo maestro, Renzi stesso, che può davvero farti capire perché, per prima cosa, se vuoi riuscire nella vita, devi pensare e guardare a te.

Il fastidioso intromettersi nei fatti che non ti riguardano, diritti umani, diritti civili, fermenti e pericoli negli altri Paesi, persecuzioni e discriminazioni, che non erano purtroppo nell’agenda del Pd già prima di Renzi, non avrebbe giovato al corso di formazione dei nuovi ministri giovani. Difficile dimenticare che il partito di cui Renzi è diventato trionfalmente segretario è lo stesso che, poco prima della rovinosa caduta del dittatore Gheddafi, persecutore di ogni diritto civile, lo ha dichiarato, contrattato vivamente sostenuto dal Pd, il migliore amico dell’Italia. Lo stesso partito che ha accettato, in questi giorni, che i giovani con le bocche cucite, illegalmente detenuti nel Cie di Roma, fossero espulsi, ovvero rimandati da dove erano fuggiti senza accertare se avessero diritto d’asilo o se rischiassero la pena di morte. Con i discorsi alle Camere, inizia non un governo ma un percorso molto ambito di formazione politica, e un vivace concorso Tv. Ti insegna che il centro sei tu e che la simpatia della giovinezza fa miracoli. Per te. Gli altri, se non sono fedelissimi, sono una perdita di tempo. Il mondo si stringe, in questa strana fase della globalizzazione. O almeno si stringe il mondo politico italiano. Da una parte Grillo, che possiede la parola assoluta, dall’altra Renzi, che possiede l’immagine assoluta. Poi ci sono armadi pieni di Berlusconi dismessi e di ambizioni da viale del tramonto. Peccato non aver notato che, proprio lì, sul banco del governo, non era il caso di abbandonarsi a esibizioni di flamenco e tip tap. Non resta che attendere l’opinione della giuria popolare.

Il Fatto Quotidiano, 23 Febbraio 2013

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/23/il-governo-come-un-talent-renzi-non-vuole-lesperienza/891390/
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« Risposta #152 inserito:: Marzo 18, 2014, 12:09:59 pm »

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Renzi, il nuovo catalogo e il catalogo del nuovo

di Furio Colombo | 16 marzo 2014


Matteo Renzi, giovane leader di un partito indeterminato sostenuto da una maggioranza indeterminata (che, però, alla prova dei fatti, tiene) assomiglia a un manifesto sovietico del primo periodo, quando nel Pcus la grafica era importante. Il tratto di sfida e di guida dell’immagine suggerisce folla dietro di lui, ma è solo lui che si vede. E si ascolta. E si finisce per dire “bravo”, in un coro di ammirazione che cresce. Questo Renzi “è pulito”, come direbbero i guardaspalle, in un thriller, mentre il personaggio che forse segna pericolo e forse porta il fatto nuovo, entra nella stanza segreta. E infatti tutti abbassano le armi e si dispongono ad ascoltare. Che vuol dire accettare, come dimostrano i titoli dei giornali e telegiornali che si scavalcano in titoli e lanci enfatici e accatastano preannunci.

Il primo punto da notare è proprio questo, il preannuncio, che, nel paese degli annunci, appare un espediente mai sperimentato prima. Certo ha colpito e travolto un po’ di corpo giornalistico e due terzi di opinione pubblica (come ci dicono molti sondaggi attendibilissimi del tipo “senza valore scientifico”). Il preannuncio vuol dire che, come nelle Scritture, invece di un evento, vi racconto il mondo che viene. Nelle scritture si faceva secoli prima, adesso si tratta di contare i giorni. Però funziona, se pensate a Marchionne. Certo, nel privato ci sono vie di fuga (per esempio l’America) precluse al politico (salvo la vicenda del primo ministro libico appena fuggito in Germania). Ma, a somiglianza del primo ministro libico, Renzi dice e ripete con forza che se “l’Italia non cambia verso” lui se ne va, esce dalla politica. Dunque non vuole discutere dettagli. O tutto riesce, o via per sempre. Questa forte drammatizzazione (il tutto invece di una cosa, il preannuncio invece dell’annuncio) sta funzionando alla grande, anche perché, in luogo dello stato d’animo precedente, che era un impasto di noia, attesa e paura, ha fatto irruzione la novità, che non è una cosa o un fatto o un oggetto, nella società renziana, ma, appunto, uno stato d’animo. La novità non la tocchi ma è lì, davanti a te.

Ottima pensata, perché fin da bambini tutti noi abbiano sempre associato la cosa nuova alla cosa migliore, con l’ingrediente della sorpresa e l’inevitabile aspettativa di un premio.

Per capire, dedichiamo un minuto al ricordo. Dopo l’infinita e costosissima carnevalata Berlusconi-Lega, c’era stato il severo governo in loden che, come nella storia del Piccolo Lord, invece di punire Berlusconi, puniva e sgridava tutti noi cittadini che avevamo vissuto per vent’anni sotto Berlusconi. Subito dopo il processo e la punizione del Tribunale Monti, siamo stati ricoverati, per decisione e sollecitudine del Primario, nella Clinica Letta, specialista in grandi intese, dove gentili camici bianchi somministravano medicine sgradevoli, però in dosi e combinazioni, si è capito dopo, inutili.

A questo punto l’irrompere di Renzi e della sua squadra giovane (salvo l’addetto alla sala macchine dell’Economia) è sembrato un pigiama party, l’ingresso in un mondo festoso (che deve venire) in cui tutto è possibile perché Renzi, proprio lui, Renzi, ci ha messo la faccia. Certo, a mano a mano che si diradano i fumi dei fuochi artificiali di festa, dal pigiama party si staccano gruppi scontenti, a cominciare dai pensionati. Hanno appena imparato che lo slogan “Le pensioni non si toccano” è come una preghiera che non occorre essere credenti per ripetere . Ma hanno anche imparato che le famose “pensioni d’oro” non sono quelle da 90 mila al mese, che cosa avevate capito? Quelle sono poche e ben difese. Stiamo parlando di pensioni da duemila o poco più, cioè tantissime, esattamente la classe media, esattamente quelle di chi ha lavorato molto, ha guadagnato decentemente, secondo le retribuzioni del tempo, ha pagato molte tasse alla fonte (quasi sempre lavoro dipendente), ha versato molti contributi (quelli che tengono in piedi la baracca previdenziale) e contribuito a tenere a galla le famiglie che si sono salvate fino a poco fa (compresi molti giovani senza lavoro però dottorandi), e che fra poco cadranno fra i corpi morti della classe media. Ma i nuovi giovani non commettono l’errore di guardare ai dettagli e agli errori. Ce ne saranno stati anche nel piano Eisenhower per lo sbarco in Normandia. Troppi morti, dice qualcuno. Sarà, ma Eisenhower ha vinto.

Vediamo piuttosto il metodo operativo di questo successo che, non negatelo, si accumula. Renzi è come i Future, come i derivati. Ogni cosa si gioca sul fatto che la cosa precedente sarà certamente andata bene. Però, come per i derivati, devi tenere lo sguardo sull’ultima cosa promessa. È su di essa che si scommette e, se si vince, si vince grosso. A scommettere sulla prima sono capaci tutti, hai un tuo piccolo margine e “non cambi verso”. Per “cambiare verso” all’Italia, devi tenere lo sguardo fisso avanti e lontano, verso un mondo tutto nuovo che, ti garantisco, sta per venire. No, non quello di adesso, quello dopo. Se questo è il contesto, è chiaro che la vendita conta più del prodotto.

Il Segreto di Matteo Renzi è tutto qui. Invece di rivisitare il passato o di lasciarsi inchiodare dagli irrisolvibili problemi del presente, si gioca il futuro. Ha lasciato indietro le retroguardie pericolose della spending review inventata da altri, ma tenuta in vita per raccogliere tutto ciò che si può ramazzare dalle spese inutili. Sono spese inutili tutte quelle che il Commissario dichiarerà tali. Ci sono vittime, ma nel passato. Le risorse recuperate saranno offerte in dono, dal Commissario delle spese, al giovane vincitore del futuro, che tiene lontane le vecchie vittime (chi ha bisogno dei pensionati?) e brandisce le ex spese inutili come una conquista di cui gli altri, prima di lui, erano stati incapaci.

da - ilfattoquotidiano
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« Risposta #153 inserito:: Marzo 26, 2014, 10:49:04 am »

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Elezioni Francia, il disastro calmo

Di Furio Colombo
 25 marzo 2014

Una buona immagine della vittoria di Le Pen in Francia potrebbe essere quel costone siciliano che, in una diretta televisiva, si muoveva verso il basso, spostando case che sembravano intatte, spaccando strade che apparivano nuove, rendendo impossibile avvicinarsi e salvare, benché tutto fosse lì a un passo, e il disastro era calmo e si vedeva bene. Ma troppo tardi. Voglio dire che quasi nessuno al mondo può desiderare il programma odioso e fascista di Le Pen e votarlo se non come rivolta e vendetta. Purtroppo la storia conosce questo tipo di rappresaglia. È un modo pazzesco di dire basta.

A questo punto, ci si accorge di brancolare in una paurosa mancanza di realismo da cui le spacconate di un giovane leader, in vena di stare in scena, non ci salveranno. Manca la comprensione, prima che il giudizio sui fatti. È come discutere su un motore che intanto sta fermo e le ore passano e scende la notte. Qui la notte sono elezioni alla cieca in cui molta gente non andrà a votare (il 40 per cento in Francia) e molta voterà non per salvarsi, ma per fare male, dopo le umiliazioni subìte.

Ci sono tre domande rimaste senza risposta, mentre le imprese se ne vanno (la Fiat, che almeno è fuori di Confindustria), minacciano di andarsene (Squinzi, che è presidente di Confindustria) o vengono abbandonate benché funzionanti e cariche di ordinativi (una lunga lista). Però manca il tentativo di risposta. Prima domanda: che cosa è l’Europa, un esattore, un persecutore o un salvatore? I governi tacciono, i vari enti preposti esigono. I cittadini pagano di nuovo e nessuno torna per spiegare. Vi ricordate quante volte l’ostinato Pannella e i suoi Radicali volevano riportare il discorso sul manifesto di Ventotene e su Altiero Spinelli e il perché del sogno Europa? Seconda domanda: e dopo? Che cosa accade di bello se mi sveno come mi chiedono ogni giorno? Si torna a vivere? Come, di che cosa? La Grecia sarà mai più come prima? Terza domanda: ma non dovremmo dibattere, invece dello zero virgola e del come uno furbo approfitta della differenza fra il 2, 6 e il 3 per cento, della differenza debito-Pil sull’Europa che vogliamo, guida, destinazione, programmi, doveri, protezione, futuro? Perché il governo italiano, che si è buttato avanti con tanta baldanza, non accende i fari? È molto buio fuori.

Il Fatto Quotidiano, 25 marzo 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/25/elezioni-francia-il-disastro-calmo/925453/
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« Risposta #154 inserito:: Aprile 13, 2014, 05:43:48 pm »

Furio Colombo
Giornalista e scrittore

Non solo Pd: il partito bussa sempre due volte
di Furio Colombo | 13 aprile 2014

Strani tempi. Strani legami si sono formati fra parti politiche opposte, dopo avere scoperto di avere lo stesso programma. Adesso a volte lo scontro è se l’idea di chiudere il Senato sia tua o sia mia.

Più o meno tutto ciò che era la politica, un tempo, adesso governa insieme, con legami sempre più stretti, e intanto minaccia – l’uno all’altro, quasi per le stesse ragioni – il divorzio. Gli oppositori sono venuti di recente e da fuori. E senti che sono portatori di rigore e alla ricerca di un campo di gioco nel quale far pesare la propria diversità, non si sa se venendo più vicino o spostandosi più lontano, anche perché, incalzando la crisi, diventa difficile rispondere alla domanda: lontano dove? Lontano da cosa? Resta il felice slogan “tutti a casa”, che vuol dire proprio tutti. Ma resta anche il problema del vuoto. È mai esistita, salvo imposizioni violente, una politica vuota di avversari sul cui torto costruire le proprie ragioni? Eppure, ora che si avvicinano le elezioni europee qualche altra cosa si vede. È bel un problema e non si sa come se la caveranno. Ogni partito sono due. Due ce ne sono dentro, due se ne vedono da fuori, e lo sguardo forzatamente sdoppiato degli elettori crea una nuova, inedita fatica, che rischia di esprimersi in una vasta astensione. 

Ci sono due Pd, è innegabile. Non Renzi e contro Renzi. Il problema è molto più complicato perché dentro ogni aggregazione politica due mondi o visioni o futuri combattono dentro la stessa persona collettiva che è il partito in modo quasi psichiatrico. Due Pd vogliono vincere, l’uno con un legame ormai fisiologico e non districabile con gli ex avversari, prima tutti uniti nella lotta, poi solo con alcuni, che però vengono accettati come la irrinunciabile pietra di governo. L’altro è il partito che ha l’orgoglio esclusivo delle riforme. È convinto, e lo dice, di avere aperto finalmente le porte del nuovo mondo. E infatti le riforme si moltiplicano, si accelerano, si celebrano (si autocelebrano) e diventano un valore in sé, di cui si trascura persino di illustrare l’urgente necessità (pensate alla brusca abolizione del Senato), perché diventa un bene in se stesso e un marchio di fabbrica. In ciascuno dei due Pd c’è polvere di opposizione, ma è lo sdoppiamento che dovrebbe attrarre attenzione, visto che il progetto è di far durare a lungo (per anni) questa strana storia.   

Ci sono due partiti di Alfano, come si chiama, Ncd? Non lasciatevi distrarre da modesti espedienti elettorali, per esempio l’alleanza con Casini per la campagna elettorale europea. Il punto è che ci sono due Alfano, un sottomesso ministro dell’Interno, a cui sfuggono ogni tanto gesti e comportamenti del prepotente passato (il caso Shalabayeva, madre e bambina, arrestate di notte dalla polizia italiana e consegnate subito a un governo persecutore, gravissimo evento che, avrete notato, nessuno gli ha fatto pagare) ma che il più delle volte appare come un fedele top burocrate, bene attento a stare nei limiti dello strano legame con “la sinistra”. Ma l’altro Alfano, che compare all’improvviso senza cravatta nei giorni festivi, ha proclami di rottura da lanciare: uno è che le “riforme” non sono che l’attuazione del programma di Berlusconi (qualcuno va un po’ più indietro, ai tempi di Licio Gelli); un altro è che questo è il governo che la destra ha sempre voluto.   

E infine, in un modo o nell’altro, fa sapere che nessun legame dell’illustre passato è stato tagliato per sempre, il che appare ovvio, dati i precedenti di tutti loro. Se dico che ci sono due Forza Italia, l’immediata obiezione è che si tratta di un grosso oggetto frantumato. Eppure è vero se consideriamo ciò che resta della forza politica nell’insieme e del suo elettorato.    Osservate la scena: una Forza Italia è per la partecipazione immediata assoluta e per sempre al governo denominato, all’inizio, “delle larghe intese”, in quanto naturale governo di destra con programma di destra e autore delle riforme annunciate e mai fatte. Un’altra Forza Italia è per la lotta senza quartiere, casa per casa, seggio per seggio, finché tutto ciò che, con un po’ di fantasia, si può chiamare “sinistra” non sarà raso al suolo, politica, professori e giudici. Nella descrizione che ne ho fatto si noterà che ognuna delle situazioni che ho proposto, più che spaccatura e contrapposizione (come accade quando un partito si divide sulla base di visioni che appaiono inconciliabili) si tratta di una curiosa situazione di ambivalenza, di tipo più psicanalitico che politico.   

Guardate Brunetta mentre annuncia fuoco e fiamme nel caso che accada qualcosa che sta già accadendo. Guardate la Boschi mentre letteralmente intima ai professori di togliersi di mezzo, con il più bel sorriso del mondo, beata per la sua età più che per il potere che prematuramente brandisce. Guardate la Gens Alfana, popolazione che presidia i confini “moderati” della destra (mentre a quelli estremi provvedono i “Fratelli d’Italia”). Ognuno vuole e non vuole questa (la situazione così com’è, dove più o meno tutti governano) e quell’altra soluzione (rottura, rivolta e ritorno alle origini). E vi rendete conto all’istante che ogni riforma uscirà storta (ma ci sarà, in modo da nutrire critica e gloria), la pace sarà turbolenta (ma fondata sulla larga intesa), e le elezioni in Italia restano lontane (se si sentirà la necessità di farle). Per quelle europee, allacciarsi le cinture.

il Fatto Quotidiano, 13 Aprile 2014

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/13/non-solo-pd-il-partito-bussa-sempre-due-volte/949843/
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« Risposta #155 inserito:: Agosto 21, 2014, 07:07:12 pm »

Lauren Bacall, con lei a casa Kennedy

Di Furio Colombo | 15 agosto 2014

Una volta è capitato Pertini. Lo avevano portato a mangiare (lui non mangiava, ma si divertiva molto a guardare, domandare, andare in cucina) da Peter Luger, sotto il ponte di Brooklyn, e credo che, con l’intero “motorcade” – la lunga carovana di macchine nere – abbiamo mandato all’aria molti progetti della malavita locale per quella notte. Poi abbiamo suonato al portoncino illuminato della 74′ strada a Manhattan. Lauren Bacall ha aperto la porta. Si scendevano tre scalini e c’erano grandi stanze una dopo l’altra. Dal fondo Michael Feinstein, suonava al piano Cole Porter, e faceva segni di saluto senza interrompere My Funny Valentine. Sembrava un club proibizionista ma era la casa di Jean Kennedy Smith, la sorella “politica” del presidente Kennedy (che infatti sarebbe stata nominata anni dopo, da Clinton ambasciatore in Irlanda).

Jean Kennedy ha composto subito un piccolo comitato di accoglienza, con il marito Steve, con Arthur Schlesinger, con Lauren Bacall, e l’allora celebre attore Adolph Greene, in semicerchio. A parte la prolungata stretta di mano e l’impaccio della pipa, Pertini non voleva davvero conoscere Lauren Bacall, che a quel tempo era quasi intatta, come appena uscita da uno dei suoi film, stessi occhi con una capacità di dominio imbarazzante, ma senza languori di dolcezza, stessi capelli lucenti con la stessa pettinatura dei tempi indimenticati, la voce di donne che hanno fumato molto e amano ridere ad alta voce.

Dopo la stretta di mano (quella della Bacall era salda, decisa, fatto raro nelle donne americane della sua generazione) Pertini però si è spostato un po’ indietro per non fare gruppo, costringendo Arthur Schlesinger a seguirlo. “Non voglio attraversare lo schermo”, è stata la sua spiegazione (anche se allora non si era ancora visto il film di Woody Allen La Rosa del Texas). “Voglio ricordarmela così, cioè come l’ho sempre vista al cinema”.

Eppure, a casa di Jean Kennedy, il luogo in cui di frequente ci incontravamo, con altri amici del presidente, di Bob e di Ted Kennedy (che a volte veniva da Washington) era difficile che il gruppo non si stringesse subito intorno alla politica, un po’ perché Jean aveva sempre notizie fresche del partito democratico, un po’ perché Arthur Schlesinger era una specie di “presidente” del gruppo, e sedersi sui braccioli delle poltrone o per terra, (allora ero tra i più giovani), per ascoltare il “che cosa c’è dietro o prima di un evento” o il vero contesto di una notizia, era una esperienza da non perdere e lo sapevi in tempo reale.

Ma anche perché quasi solo la politica – da accanita militante democratica – interessava Lauren Bacall. E la sua voce alta e forte, da donna di teatro, guidava subito la conversazione. Lo show business le interessava più come le interessavano i libri e gli scrittori che come rivelazione del “dietro le quinte”. Certo, non mancavano, qua e la, notizie e pettegolezzi, e “si dice” e “si sa di sicuro” su nuovi film e nuove aperture a Broadway (e, per esempio, lunghe discussioni su Edward Albee, che le avevo fatto conoscere al tempo di Morte di Bessie Smith), su Tom Stoppard, su Bob Wilson, su Antonioni (altro incontro felice ) e non mancavano occasionali presenze di attori ancora attivi e da “nome in ditta” come Peter Ustinov e Michel Douglas. Siamo andati da Larry Rivers, che era, in quel momento – almeno a New York – il più famoso e quotato dei grandi Pop Art americani, per vedere i ritratti che Rivers stava facendo di Primo Levi.
Aveva cominciato a disegnare (a carboncino, su grandi cartoni) e poi a dipingere, dopo che io gli avevo regalato la prima versione americana di Sommersi e Salvati. “Non sapevo nulla di Primo Levi”, aveva raccontato Larry Rivers alla Bacall, nella prima visita al suo studio (13 strada East) dove bisognava sapere come manovrare un montacarichi esterno all’edificio per arrivare in alto, al terrazzo, totalmente isolato dal mondo, (“come un rifugio di Superman”, dicevamo).

Eccoli di fronte, due grandi americani ebrei che sapevano a malapena di essere ebrei, e nello stesso tempo lo erano in modo profondo, per esempio, in quegli anni, nel loro modo di essere sempre contro il troppo potere e sempre dalla parte dei più deboli, minoranze, diversi o isolati. Su quella terrazza Rivers ha raccontato Levi (che io avevo raccontato a Rivers) a Lauren Bacall (che intanto aveva cominciato a leggere il libro, e io avevo l’impressione di meritare più attenzione ai suoi occhi, per il fatto di averlo conosciuto, e perchè era appena uscito in America The Italian Holocaust storia della persecuzione degli ebrei italiani, con la mia prefazione). Al gruppo della terrazza si era unito (seconda e terza visita) Gianni Agnelli, a cui avevo raccontato di questo insolito evento, che era amico di lunga data della

Bacall e aveva grande interesse per il lavoro di Rivers. E così è accaduto che tre dei dodici ritratti, o immagini ispirate dai testi di Primo Levi (destinati a un’unica mostra) di un artista che stava scoprendo il suo ebraismo, siano stati acquistati da Agnelli e inviati a Torino. Per anni sono stati nel salone de La Stampa e poi al Lingotto, dove solo pochi mesi fa si è posta, in famiglia e nella comunità ebraica di Roma, (che li ha esposti nel Museo della Sinagoga nel maggio scorso) la domanda: “Come mai a Torino? Da dove vengono?”. La spiegazione è in quegli incontri sulla terrazza della 13 Strada East di Manhattan, in quel piccolo gruppo insolito.

Ma negli incontri frequenti, in casa Kennedy-Smith e in casa Schlesinger, era la politica il cuore della discussione, allo stesso tempo intensa e unanime. Lauren Bacall, con questo gruppo di amici quasi fisso, voleva sempre partire o tornare alla celebre e indimenticabile frase di un discorso di Robert Kennedy nel viaggio in America Latina del 1967: “Niente, di ciò che concorre a formare il Pil, ha a che fare con la vostra felicità”. La figlia di un ebreo polacco e di una ebrea rumena, fuggiti appena in tempo alla persecuzione, e adottata come la diva più grande, quando non aveva ancora vent’anni (ai tempi del suo primo film con Humphrey Bogart), da un immenso pubblico americano, ha creduto per decenni e fino alla fine a questa versione grande del sogno americano.

Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2014

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/15/lauren-bacall-con-lei-a-casa-kennedy/1091760/
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« Risposta #156 inserito:: Settembre 22, 2014, 04:01:55 pm »

Il nostro triste e muto Parlamento senza qualità
Di Furio Colombo | 22 settembre 2014

Il Parlamento è bloccato e non può funzionare. Il Parlamento fermo vuol dire che è fermo il motore del Paese, persino se i giri del motore governo fanno pensare a una velocità impazzita. Quello che sfugge è il disegno che si manifesta con ostinazione in una forma molto strana. Primo, si impongono al Parlamento decisioni ineludibili. Secondo, il Parlamento recalcitra. Terzo, il governo insiste nella imposizione e il Parlamento insiste nel rifiuto. Tredici volte (ricordare che le votazioni per la presidenza della Repubblica sono state solo due “per non fermare il Paese”). Quarto, il presidente della Repubblica rimprovera il Parlamento e dichiara futili e faziose le sue ragioni. Ovvero non offre un pensiero o una preoccupazione ma un giudizio sulla disciplina di un Parlamento in cui la disciplina riguarda il regolamento ma non l’obbedienza ai partiti o al governo, rispetto ai quai è autonomo. Quinto, si impone al Parlamento di continuare con lo stesso ordine del giorno (che non è del Parlamento ma dell’esecutivo) e si dichiara in anticipo che non sottomettersi è una sorta di tradimento.

Sembra sfuggire, anche ai costituzionalisti silenziosi che intervengono con fervore se è in discussione la soglia di sbarramento della legge elettorale, che nessuno può imporre un ordine del giorno al Parlamento se non il Parlamento stesso. Questa non è una esaltazione del Parlamento. È la descrizione della legalità in normali condizioni di vita istituzionale e politica. Importa poco analizzare le cause interne, fatte di opinioni, giudizi e decisioni di gruppi parlamentari contro altri gruppi parlamentari, che hanno portato a questo disastro (fermata assoluta e per ora irrisolvibile delle Camere) perché non si tratta di un braccio di ferro tra Parlamento e governo. Si tratta di un Parlamento da molti anni assoggettato al governo – ovvero ai partiti di maggioranza – che non decide ma riceve gli ordini del giorno di ciò che deve fare. Attenzione. L’impossibilità di decidere non è né legge né Costituzione né regolamento.

E’ triste prassi dettata, in altri contesti, dalla partitocrazia, e denunciata già in tempi lontani (nel cuore della Prima Repubblica) dalla pattuglia dei deputati Radicali allora presenti alla Camera, che arrivavano al punto di autoconvocarsi al mattino presto per discutere ciò che altrimenti, nell’orario regolare di seduta, era vietato discutere. Questa volta i parlamentari in dissenso (prevalentemente il Movimento Cinque Stelle) contro l’imposizione dell’esecutivo, hanno meno fantasia dei Radicali (ora si protesta di solito solo con cartelli e dichiarazioni) oppure meno prestigio (i deputati della Lega Nord).

Però l’evidenza ci dice che, accanto a nuclei identificati di opposizione (che sono comunque parte essenziale della vita di un Parlamento), c’è un vagare di parlamentari zombie che sembrano non sapere da dove vengono e dove vanno e chi rappresentano e perché. Insomma il lungo massacro del Parlamento, mai rispettato nelle sue prerogative di indipendenza da un potere e dall’altro, sta dando i suoi frutti. Infatti né Camera né Senato hanno mai discusso chi e perché doveva andare alla Corte costituzionale o al Csm.

I nomi ti appaiono sul cellulare non per essere discussi ma per eseguire. Se vogliamo parlare di dolorosi ed esemplari precedenti italiani, possiamo ricordare il trattato di fraterna e perenne amicizia con Gheddafi, votato in pochi giorni da un Parlamento già deformato da “larghe intese” (tutto il Pd meno due, tutto il Popolo delle libertà, tutta la destra, tutta la Lega) prima delle vere larghe intese, volute dalla stessa ditta, mentre tutti i votanti sapevano dell’orrore che fra poco avrebbe fatto crollare il regime con cui si votava il

perenne legame. Anche in quella occasione solo il gruppetto di Radicali (con un paio di deputati Pd, poi prontamente esclusi da ogni attività di quel partito) si sono appassionatamente e inutilmente opposti. E anche in quel raro episodio si toccava con mano il fastidio creato da parlamentari che mettono in discussione decisioni già prese altrove da adulti che sanno. “I trattati non si discutono, si ratificano” ti dicevano fermi e autorevoli coloro che facevano da cerniera fra partito (dove gli adulti prendono le decisioni) e il parco giochi delle Camere.

Se vogliamo parlare di altri Paesi, in cui i partiti, come organizzazione e come centro di decisione politica, non mettono piede in aula, ricordiamo gli Stati Uniti. In piena presidenza Reagan (una presidenza forte e popolare) la nomina presidenziale del giudice Thomas a giudice a vita della Corte suprema (nomina che richiede l’approvazione della Commissione giustizia del Senato) ha dovuto attendere mesi di pubbliche testimonianze, di denunce, di violenta opposizione contro la decisione di Reagan, prima di spuntarla, con un solo voto di maggioranza. Per parafrasare Humphrey Bogart nel suo celebre film, “È la politica, bellezza”.

Non da noi. Da noi ordini incoerenti, confusi e ostinati bloccano e umiliano un Parlamento senza qualità. Infatti non ha l’iniziativa e il coraggio (sarebbe bello se avvenisse sotto la guida dei due presidenti) di autoconvocarsi, di stilare e votare una sua lista di candidati per la Corte costituzionale e il Csm, e poi di decidere da quale parte della disordinata matassa di Renzi, ricominciare il lavoro per non fermare il Paese.

 Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2014

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/22/il-nostro-triste-e-muto-parlamento-senza-qualita/1129093/
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« Risposta #157 inserito:: Febbraio 01, 2015, 11:38:55 am »

Politica
L’Italia di Renzi: un Paese senza casa e senza volto

Di Furio Colombo | 26 gennaio 2015

In televisione Firenze, vertice bilaterale Renzi-Merkel (Ballarò, 20 gennaio), vedi un curioso faccia a faccia fra il ministro Lupi, che c’è sempre, parla sempre e sa tutto, e una giovane ragazza madre, con due bambini e uno in arrivo, che sta fronteggiando uno sfratto esecutivo. Quando toccava al ministro di parlare (lui ha sequenze lunghe, senza punteggiatura, come nel romanzo di Balestrini Vogliamo tutto) veniva elencata, con velocità e precisione, una catena di miracoli, case, casette, grattacieli, quartieri, nuove città. Quando toccava a lei, che aveva già tolto il materasso dalla branda e lo teneva con fatica un po’ sollevato, la ragazza ripeteva, con una sua disperazione pacata: “Sì, ma io intanto dove vado a vivere?”.

La casa è un problema tragico in Italia. Pendono sulla vita e il destino di tante famiglie 150 mila sfratti subito. C’è un governo moderno, in Italia, che crede nelle soluzioni dei problemi, non nell’assistenzialismo pietoso. E dunque quei 150 mila sfratti saranno eseguiti tutti e subito, anche per incentivare la costruzione di nuove case e remunerare secondo giustizia i proprietari. E c’è un governo riformista in Italia, che le cose le fa subito. Per farle, le annuncia. Ed ecco che entra in scena il ministro Lupi e racconta.

Non si può accusarlo di mania dell’annuncio, il ministro deve pur dire che cosa intende fare, tanto più che parla veloce come gli annunci dei pericolosi effetti collaterali delle medicine. Il problema è il non fare. Ma attenzione, non si tratta di malafede. Si tratta della naturale differenza fra il tempo di parlare e il tempo di agire. L’unico punto di malafede è passare all’incasso dopo il dire invece che dopo il fare. Tu dici che in questo modo, dopo due o tre scherzi del genere, paghi in perdita di fiducia e di voti. E poiché nessuno sembra avere questo timore, e anzi annuncia a vuoto successi mai visti, a questo punto diventa chiaro che il problema della casa è allo stesso tempo la rappresentazione più chiara e drammatica di ciò che è urgente, umano, indispensabile alla vita delle persone, e non si fa (benché valanghe di soldi si rovescino su Alta Velocità, armi inutili e autostrade spacca-ambiente).

Ma è anche efficace metafora di ciò che sta succedendo ai cittadini in politica: sono senza casa. Il giovane e deciso Matteo Renzi ha realizzato, con procedura d’urgenza, lo sfratto esecutivo di quanti, dislocati o orientati nel Pd, credevano di abitare a sinistra. Via, fuori, non interessano, sono i veri anziani anche se hanno 18 anni. Il passato (dal New Deal a Obama) non ha più senso. Il futuro sono Reagan e la Thatcher. E in questo mondo rovesciato, tipo Alice nel Paese delle Meraviglie, il cappellaio matto sfila con la Merkel a Firenze, intento a paragonarsi a Michelangelo, senza raccogliere la minima ironia da chi, giustamente, protegge il proprio lavoro di giornalista sempre in pericolo.

Anche perché, in circostanze internazionali, Renzi parla una lingua globalizzata causa di un buon umore utile all’esito degli incontri, e mette in chiaro due cose. Primo: qui non c’è trippa per gatti di sinistra. I Fassina e Cuperlo saranno anche molto gentili nel chiedere, i Bersani si adeguano “per disciplina” prima ancora di sapere a che cosa, ma nessuno si aspetta che abbiano qualcosa da dire o possano farlo. Secondo: Renzi e Verdini, entrambi disturbati da una massa frantumata e indisciplinata di persone che pretenderebbero di mettere becco, sono sicuri che un partito finisce lì, al loro livello.
Gli altri, che siano dentro il Parlamento, dentro il partito, o legati ancora alla vecchia abitudine di dire “noi”, si tolgano dalla testa di avere opinioni o consigli da dare o di menarla con la loro pretesa di partecipare alle decisioni. Come tanti proprietari, Renzi e Verdini preferiscono la casa vuota (ce ne sono decine di migliaia in Italia e, come vedete, la metafora della casa rimbalza continuamente sulla realtà) perché in tal modo non si deve minacciare o mandar via nessuno, e non c’è pericolo che qualcuno si metta in testa di contare qualcosa per il solo fatto di avere una tessera (scoraggiata) o di essere titolari di un voto.

La nuova definizione di partito è la zona di comando, non i cittadini, simpatizzanti o no. Il tramite, usato con una decisa sfrontatezza degna di Berlusconi, è un’informazione in cui la politica parla solo di se stessa e quasi solo del suo leader, che a volte torna e ritorna con la stessa frase nello stesso telegiornale, o viene tradotto in italiano da voce sovrapposta, mentre sta parlando in una lingua nuova e coraggiosa della quale anche i traduttori professionali più esperti hanno poche notizie.

Dunque il sogno del partito leggero e della casa vuota si sono realizzati. Non dimenticate che molti luminari della politica a sinistra hanno teorizzato molto presto che tocca ai professionisti decidere e agli altri seguire, qualunque fosse il loro grado di competenza. Gradatamente coloro che avrebbero potuto interferire con la decisione dei soli esperti, i professionisti della politica, sono andati via. Renzi è un ardimentoso. Però ha trovato un partito non ancora liquido ma molto molle, non ancora “ larghe intese” (e poi “partito unico della Nazione”) ma già molto incline a una strana vita condivisa con chi rigetta la Costituzione. È stato facile liquidare o spingere al muro chi era già così vicino a cedere, in base a non si sa quale pacificazione, che non esiste in politica, perché si chiama rinuncia di ideali e princìpi e, nel nostro caso, dell’Intera Costituzione. È come se Obama avesse accettato di non proteggere il diritto delle donne all’aborto, nella sua nuova legge sulla salute, pur di votare insieme ai repubblicani. Adesso la casa è vuota e gli italiani sono senza casa. Quando vivono e quando votano.

Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2015
Di Furio Colombo | 26 gennaio 2015

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