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Autore Discussione: Un insulto al giorno toglie il giudice di torno...  (Letto 2832 volte)
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« inserito:: Luglio 22, 2007, 12:11:50 am »

Un insulto al giorno toglie il giudice di torno
Toni Jop


Se «fanculo» è buono, è lecito, si aprano le cateratte di questo slang fin qui tenuto legato ben stretto nelle cantine dei «vizi privati» e ben distante dall´area infingarda delle pubbliche virtù. La sentenza che ha definitivamente stabilito l´assenza di veleno nel parlar «volgare» della «parolaccia» può essere intesa come uno di quei rari passi ufficiali con cui le istituzioni dimostrano di «saper stare al mondo», nonostante tutto. Elasticità sufficiente, capacità di sdrammatizzare i cliché entro i quali i comportamenti individuali trovano volentieri casa. «Fanculo» «Nun è peccato». Mais alors! Vediamo cos´è successo al nostro linguaggio, mentre in tv volavano gli stracci e le scomuniche. L´iper-uso delle formule d´insulto costruite su particolari anatomici, escrezioni e secrezioni del nostro corpo le ha progressivamente svuotate di senso topografico, per cui dire «fanculo» non vuol dire percorrere col pensiero e con le intenzioni quel sentiero di immagini «porno» che l´invito sublima stringatamente. Non solo: «fanculo» si può dire affettuosamente e, nel caso, oltre a perdere ogni riferimento a «fatti e persone realmente esistiti», suona quasi come una dichiarazione di affetti; poiché, ammettiamolo, non si dice «fanculo» a chicchessia, bisogna, il più delle volte, che il destinatario se lo meriti, per confidenza e sportività. Certo, dovrete convincere il vostro capufficio che gli avete detto «fanculo» per simpatia e familiarità, ma siamo sicuri che capirà la vostra intenzione di farlo entrare in famiglia. Segue modesto e approssimativo glossario di «formule» postpornografiche rese affettuose dall´abuso rituale e quindi degne di entrare nella più legittima, e riconosciuta, strumentazione dei meccanismi di relazione simbolica.

«Affanculo» - varianti: «Vai a fare in culo» (freddo, scandito, molto personalizzato), «Vaffanculo», (energetico, astratto, molto simile a «Eureka», multiuso), «´Fanculo», (l´equivalente di un´alzata di spalle governata dal sistema nervoso centrale) «Vattelo a pijà ‘n´ter culo» (romanesco felliniano: comico, equivale al reverendo: «vai a quel paese», al pari delle altre varianti)

«Porcaputtana» - esclamativo, comunque, anche senza la «p» iniziale, figlio degenere di una contraddizione, di una sorpresa

«Testa di cazzo» - equivale a «stupido», «sciocco», molto autoriferito («sono stato proprio una testa di cazzo»), discretamente tagliente se interpretato con una certa forza, frequente nelle relazioni affettive: «Ti amo ma sei una testa di cazzo»; segnala volentieri l´autore di un errore, lo stigmatizza mentre lo recupera nel dominio degli affetti: «caro, solo una testa di cazzo come te poteva farlo»

«Stronzo» - forma classica della materia di cui il corpo umano si disfa con ritualità implacabile, ha acquisito il valore di contenitore universale come pochi altri vocaboli. In genere, rubrica e lamenta uno squilibrio di potere malgestito per incoscienza. Si può pronunciare anche piangendo, anzi è la sua versione più efficace, maxime se lo si replica in rapidissima successione: «stronzo, stronzo, stronzo». «Secondo me è stato uno stronzo»: esprime un giudizio occasionale, legato cioè a una occasione e non funziona come etichetta perenne, poiché, se si ricade in questa eventualità, si deve per forza passare ad altro e cioè alla parola... «merda» - benché tragga il suo significato primario dalla stessa materia di cui è fatto lo «stronzo», eccoci di fronte ad una skyline in cui la sostanza si presenta amorfica, priva di quel telaio architettonico che conferisce allo «stronzo» una qualche nobiltà strutturale. Insieme, condensa il simbolo di un giudizio definitivo, epigrafico, quasi una tomba di ogni valore positivo. Chi dice «Sei una merda ma ti amo lo stesso», condanna anche se stesso - unisex - per comunione consapevole con i destini terreni di persona della quale si è verificata la coerenza nel «male». Nei casi in cui venga autoriferito («hai ragione, sono proprio una merda»), siamo di fronte ad una delle scene teatralmente più impegnative, praticamente estreme, tese il più delle volte a chiudere il dibattito con l´ingenerosità che proprio la parola «merda» evoca con energia moralmente onomatopeica in particolare se si forza la contenzione dei tempi di pronuncia della «r». Diciamo la verità: siamo di fronte alla sola «parolaccia» border line, a rischio di infrazione poiché, a dispetto della sua assenza di forma, risulta contundente anche se pronunciata a fil di voce. Ricordare, prego, la meravigliosa versione adottata da Gassman quando, nella Grande Guerra, dopo la fucilazione del suo amico Sordi ad opera dei nemici, si rivolge al loro capo che pretende informazioni militari, e lo apostrofa, sfoderando un coraggio da leone, «mi no te digo un bel gnent, faccia de merda». Nessuno di noi vorrebbe essere quella faccia de merda.

«Palle» - svanito ogni riferimento ai genitali, eccoci di fronte a uno scivolamento di sensi quasi infantile. Palle sta per cose tonde, non necessariamente solo due, dotate di leggerezza sospetta: si presta bene a interpretare bugia, notizia infondata, un uso delle parole troppo lieve per avere diritto al rispetto, alla considerazione. Nelle versioni «che palle», «non mi rompere le palle» (si può anche dire «non mi fracassare le palle» e questa formula pittoresca pare piaccia di più alle donne) ha conquistato il mercato globale come pochi altri prodotti: lo dicono i padri ai figli, i figli ai padri, gli amanti alle amanti, i politici ai politici, con frequenza ossessiva, ma male non fa. «coglione» - nonostante di fronte a questo termine sia quasi impossibile non inquadrare il famoso testicolo - il destro o il sinistro? - tutti sanno che quando si dice «coglione» non si attiva una manifestazione di stima. Tuttavia è termine strano: benché, nella pratica, intenda sottolineare negativamente una insufficienza di attenzione, di furbizia, di rapidità di comprensione delle cose, contiene una sorta di boomerang incorporato, in cui la fase del ritorno è ancora una volta pilotata da una dinamica di affetti. In altre parole, «sei proprio un coglione» manifesta, al di sotto del giudizio di valore, il ferito rammarico di chi si fa carico di definire l´altro.

Noi ci fermiamo, tocca a voi.

Pubblicato il: 21.07.07
Modificato il: 21.07.07 alle ore 13.35   
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