Il libro del figlio Claudio e di Michele Gambino
Papà, il direttore, la mafia
Pippo Fava visto dai suoi “ragazzi”di Silvia Ferraris
«Abitavamo in alto. Decimo piano. Sentivo mio padre raccontare al telefono il giornale che stava per fare e intanto guardavo la città, che da lassù pareva un giocattolo, una cosa da bambini, vetturette, filobus, i catanesi grandi come formicole che se ne andavano da tutte le parti, e pensavo che cosa bella fare un quotidiano, bella e sfacciata, ogni giorno gli devi raccontare tutto quello che succede là sotto, se si fottono un’auto, se rapinano una banca, se il sindaco si rimminchionisce, se piove, se tira vento, come un libro che ogni mattina s’inventa un capitolo nuovo. Solo che quel libro non finisce mai e pure se ti annoi, pure se della città alla fine non te ne frega più un cazzo, pure se vuoi scrivere di altre cose ti tocca invece guardare le vite degli altri e raccontare ogni giorno quello che succede. Come un sacerdote».
Era mio padre (ma anche il direttore)
Claudio Fava, che ha scritto queste parole nel libro, appena uscito da Baldini & Castoldi, Prima che la notte, è il figlio di Giuseppe, detto Pippo, giornalista e scrittore ucciso dalla mafia a Catania il 5 gennaio del 1984. Lui e altri (pochi) ragazzi, Riccardo, Antonio, Michele, allora poco più che ventenni, hanno vissuto la straordinaria avventura di lavorare in due giornali antimafia militanti, prima il Giornale del Sud, durato solo due anni, tra il 1980 e il 1982, e poi I Siciliani, dei quali Fava è stato direttore e fondatore. Mentre su Pippo Fava è stato scritto tanto, poco si sa dello stato d’animo di quei ragazzi, rimasti “orfani”, subito dopo il delitto che ha sconvolto per sempre le loro esistenze. Il libro prova a colmare questo vuoto.
Un praticantato molto speciale
In un commovente romanzo Claudio Fava e Michele Gambino ricostruiscono gli anni del tragico praticantato, tra stragi, scandali, arresti eccellenti, minacce, processi e morti ammazzati. Anni nei quali i giornali di Pippo Fava hanno bersagliato senza sosta i padroni della Sicilia, gli impuniti, gli innominati, i cavalieri del lavoro, gli editori, i ministri e i faccendieri legati alla mafia. I protagonisti del libro sono giovani. Avrebbero amori, pizze da mangiare fuori insieme, altri pensieri. Rinunciano a tutto per una passione trasmessa dal direttore, convinto della propria missione, combattere “la peste”. La mafia che ammorba l’Isola. Tutti hanno una enorme ammirazione per Pippo Fava, uomo di carisma, intellettuale puro, uno che non perde mai l’occasione di strigliare i suoi lettori con lettere come questa: «Amico mio, chissà quante volte hai dato il voto a un uomo politico corrotto, ignorante e stupido, solo perché una volta al potere ti poteva garantire una raccomandazione, la promozione a un concorso, l’assunzione di un tuo parente, una licenza…Così facendo, tu e milioni di altri cittadini italiani avete riempito i parlamenti e le assemblee regionali e comunali degli uomini peggiori, spiritualmente più laidi, più disponibili alla truffa civile, più dannosi alla società…»
Il killer lo spiava in pizzeria
Il libro alterna ricordi dolorosi e piacevoli. «Mi dispiace che il Direttore sia andato verso la morte circondato da un gruppo di ragazzi incapaci di percepire il pericolo», scrive Michele. «Abbiamo saputo solo dopo, dai racconti dei pentiti, che i tentativi di ucciderlo erano andati avanti per due mesi…».
Una sera, il suo killer era entrato al “Gran Canyon”, la pizzeria dove Pippo Fava aveva sempre un tavolo riservato e un prezzo da “cliente speciale”. Ma poi aveva rinunciato a sparargli, perché quella sera c’era troppa gente. Così, l’appuntamento con la morte era stato rimandato. Di poco.
Tra le pagine scorrono però, anche ricordi felici. Le partite di calcio, i viaggi a Roma su una 500 gialla scassata, «che non si può parcheggiare in discesa, perché altrimenti non riparte», le scorpacciate di pesce ad Acitrezza, le pizze, i panini mangiati in piedi, attenti al sugo che gocciola tra le scarpe. E tutta l’atmosfera della Catania di allora, la sensazione di lavorare «dentro un fortilizio isolato, con la città che ci guarda da lontano, un po’ indifferente e un po’ minacciosa».
L’ergastolo ai boss
Claudio, Riccardo, Antonio, Miki. Quattro ragazzi di vent’anni a Catania, negli anni Ottanta, in piena guerra di mafia, con un maestro e un sogno, quello di fare il giornalismo vero, coraggioso, di frontiera. Un sogno finito molto presto, con la morte di Fava per mano di due killer, il 5 gennaio del 1984 e lo smarrimento della squadra dei giovani praticanti, tra i quali anche Claudio, che oggi è vice presidente della Commissione parlamentare antimafia. Per l’omicidio di Pippo Fava sono stati condannati all’ergastolo i boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola e Aldo Ercolano. E tutto quello che bisognava sapere, su quel delitto, il figlio di Pippo Fava lo ha scoperto sfogliando le carte dei processi. «Mi metto sotto gli occhi i verbali del pentito che racconta come s’erano preparati quella sera», racconta Claudio Fava nel libro. «La pignoleria di chi nella vita non sa fare altro che sparare alle spalle per cui gli piace accarezzarsi con gli occhi la pistola, scegliersi le pallottole una per una, fare un poco di tiro a segno nello scantinato del bar dove l’aspettano i compari perché fa scena e gli serve a sentire l’arma in mano, a immaginarla come una cosa sua, un pezzo della sua carne che prende vita quando c’è da togliere la vita a qualcun altro. Mi leggo quelle carte», scrive Claudio, «bevendomi ogni virgola, ogni dettaglio, immaginandoli mentre salgono sulle macchine, agganciano la vetturetta di mio padre, lo seguono, aspettano che parcheggi con due ruote sul marciapiede e poi…»
7 aprile 2014 | 09:53
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