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Autore Discussione: FRANCO BRUNI  (Letto 36141 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Settembre 13, 2012, 03:36:18 pm »

13/9/2012

Ora l'Europa non ha più alibi

FRANCO BRUNI

La Corte costituzionale tedesca ha dato il semaforo verde all’Esm, il Meccanismo Europeo di Stabilità, il cosiddetto fondo salva-stati permanente che sostituirà quelli temporanei con i quali finora sono stati erogati aiuti a Grecia, Irlanda e Portogallo. Le motivazioni della Corte possono essere lette con maggiore o minore ottimismo.

Viene qualche fastidio nel vedere l’insistente sottolineatura con cui è richiamata la legislazione esistente, in base alla quale il Parlamento di Berlino mantiene forti poteri di continua interferenza nelle decisioni dell’Esm, che pure è un’istituzione intergovernativa nel cui direttivo la Germania è rappresentata coi voti del «maggior azionista». E’ un richiamo che ricorda che non mancheranno residui poteri di veto nell’esercizio di una solidarietà con cui l’Europa, in fondo, salva tutta se stessa. Ma è anche un richiamo che, in Germania, rafforza la Corte nei confronti dei nemici dell’Esm e riflette i limiti del meccanismo come è stato concepito: cioè scarsamente autonomo dal concerto politico dei Paesi membri nell’affrontare le minacce alla stabilità sistemica dell’euro area; meno rapido e pronto di quanto sarebbe desiderabile per adottare tempestivamente le innovazioni e le iniziative più opportune, nel mare agitato e violento della finanza internazionale. L’Esm finirà per mostrare, quasi inevitabilmente e non solo per colpa dei tedeschi, un po’ di lentezza e pesantezza politica di troppo.

In compenso il testo della Corte riporta sinteticamente le opinioni, circa il ricorso di anticostituzionalità, raccolte sentendo il governo e il Parlamento di Berlino. Sono opinioni favorevoli al semaforo verde e alcune sono limpido e incoraggiante buon senso. Per esempio quella che sottolinea la sopportabilità del rischio massimo che corre il bilancio tedesco: perdere 190 miliardi. E quella che ricorda come questo genere di solidarietà intergovernativa non ha alternative, volendo mantenere la stabilità finanziaria in Europa e come il mancato sostegno dei debitori in difficoltà causerebbe alla stessa Germania costi molto maggiori di quelli che rischia contribuendo all’Esm.

Nel complesso credo che sia giustificato il prevalere dell’ottimismo con cui la pronuncia è stata accolta, sia dai mercati che da un ampio spettro politico, dentro e fuori la Germania. In sostanza la Corte nega l’esistenza, nella Costituzione tedesca, di seri ostacoli alla solidarietà finanziaria necessaria per proseguire l’integrazione europea. E il modo in cui lo nega è tale da sottolineare incisivamente la responsabilità politica del Parlamento. Come dire ai politici di non cercar scuse: se vogliono fare l’Europa più profonda e solidale non saranno bloccati dal testo della Legge Fondamentale che, in sostanza, vuole solo assicurarsi che il Parlamento tedesco abbia sempre il controllo della situazione. Ma è una situazione, quella della moneta e della finanza europee, della quale la Corte stessa sottolinea le inevitabili evoluzioni, compresa quella implicita nel progetto annunciato da Draghi per concertare gli interventi della Bce sul mercato dei titoli di Stato con l’aiuto «condizionato» offerto dall’Esm.

Dopo la Bce, anche la Corte tedesca ha dunque tolto un alibi all’intera politica europea, che a volte pare cercar di frenare, proprio mentre li sta disegnando, i progressi istituzionali dell’Ue, cioè il grande salto di qualità dell’integrazione. Senza il salto, qualunque modo di uscire dalla crisi monetaria, finanziaria ed economica è fragile e precario. Ora l’Esm va istituito davvero e messo rapidamente in grado di funzionare in pieno. Non sarebbe male pensare a non tardar troppo ad aumentarne la capitalizzazione. L’Esm è anche molto importante perché può intervenire nella ricapitalizzazione delle banche, ma solo dopo che un altro punto urgentissimo dell’agenda europea sarà realizzato: la centralizzazione della vigilanza bancaria presso la Bce, anche a supporto di una gestione comunitaria delle crisi bancarie. Su questo fronte i tedeschi devono vincere un’altra battaglia: quella con la lobby delle loro banche piccole e medie, con speciali relazioni politiche, che vorrebbero rimanere sotto il controllo nazionale.

E poi: avanti ancora. I presidenti della Commissione, del Consiglio, dell’Eurogruppo e della Bce hanno in agenda, ufficialmente, passi ulteriori verso l’unione fiscale e verso innovazioni istituzionali nell’unione politica europea che accrescano la legittimazione democratica delle decisioni comunitarie. Il nostro presidente del Consiglio ha chiesto di pensare a un vertice Ue per unire meglio le forze contro i populisti euroscettici: c’è abbastanza materiale in programma per evitare che un’iniziativa così preziosa risulti astratta e retorica. Dobbiamo convincere i cittadini che l’avanzamento dell’Ue non ha alternative e ha grandi vantaggi collettivi: serve buona comunicazione di messaggi e decisioni concrete. Fra le quali non sarebbe male includere, vincendo resistenze ancora soprattutto tedesche, la concessione di qualche tempo di più ai Paesi europei maggiormente in difficoltà per aggiustare il loro deficit pubblico in una fase di acuta recessione; pretendendo in cambio manovre di aggiustamento dei deficit pubblici qualitativamente migliori e più tempestivamente implementate nei dettagli.

D’altra parte il sollievo per il pronunciamento della Corte sarebbe speso male se i Paesi tutti, compresa la Germania, ne traessero ragioni per diminuire gli sforzi di riforme strutturali che devono cambiare il funzionamento microeconomico dei Paesi membri, rilanciare il mercato unico, migliorare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche e la competitività delle produzioni private. Auguriamoci che l’aver tolto la spada di Damocle della Corte tedesca serva alla politica tutta, nazionale e internazionale, come stimolo a lavorare di più e meglio per dare ai cittadini europei le regole e le istituzioni per poter essere governati come si meritano.

franco.bruni@unibocconi.it

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10521
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« Risposta #61 inserito:: Settembre 23, 2012, 04:55:40 pm »

23/9/2012

Federalismo è l'ora di ripensarlo

FRANCO BRUNI

Gli scandali che emergono nelle Regioni ci fanno riflettere su più fronti. Fra i quali, come osserva Mario Calabresi nel suo editoriale di ieri, c’è la questione del federalismo.

Che urge anche per i suoi riflessi sulla finanza pubblica.


La disciplina della finanza locale negli Stati federali è difficile da ottenere. Ce lo dice l’esperienza internazionale. L’Argentina ha problemi di squilibri finanziari privati e dell’amministrazione centrale, ma i potentati locali fanno scempio della finanza delle sue province. Il Brasile non manca di problemi analoghi. La Catalogna e le altre regioni autonome aggravano il debito pubblico spagnolo. In misure e forme diverse il problema travaglia anche altri Paesi, compresi gli Usa, la Germania e persino la Cina. Se c’è un decentramento politico-elettorale, far rispettare davvero dal centro vincoli di bilancio locali è un problema. In un modo o nell’altro l’indisciplina locale riesce a ricattare il potere centrale. D’altra parte: non è proprio questo il rompicapo che stiamo cercando di risolvere per tenere in ordine da Bruxelles le finanze dei Paesi dell’Ue?

In Italia il decentramento del potere nazionale ha visto alcune forze politiche particolarmente impegnate ma anche un vasto consenso di fondo. C’è chi vuole più federalismo e chi meno, chi lo vuole più «solidale» e chi meno, chi lo vuole davvero e chi fa finta, chi dice che è facile da organizzare e chi no. Ma il principio è largamente condiviso; soprattutto per due ragioni.

La prima è un diritto democratico alla sussidiarietà, al controllo del proprio campanile. La seconda è l’idea che la vicinanza territoriale consente più controllo degli elettori sugli eletti e stimola una concorrenza virtuosa fra le amministrazioni locali, vogliose di far meglio per non perder voti. Sono davvero due ragioni convincenti?

Il diritto a una forte dose di controllo sul proprio territorio è la base degli Stati federali. La Lombardia ai lombardi, la Catalogna ai catalani, la Baviera ai bavaresi: c’è qualcosa di giusto, coerente con i valori della tradizione e con l’evoluzione del ruolo degli Stati nazionali. Ma non è oggi più importante far sforzi nella direzione opposta e sentirci tutti più cittadini del mondo o, almeno, dell’Europa? Non è più urgente riconoscere le crescenti interdipendenze, economiche e culturali, che legano i destini di territori lontani, rimbalzano problemi e opportunità da un capo all’altro del mondo e chiedono forme di governo più attente a interessi sovrannazionali? Inoltre, guardando all’Italia, mentre forme di campanilismo comunale possono aver senso, il campanilismo regionale non appare forse, con poche eccezioni, artificioso?

L’idea principale e più condivisa del federalismo è però la vicinanza fra elettori ed eletti. Ma è una vicinanza pericolosa perché favorisce la prepotenza degli interessi particolari, a scapito di quelli generali. Le lobby locali, i cui interessi non collimano con quelli della collettività dei cittadini del proprio territorio, hanno meno presa se devono condizionare decisioni nazionali, mentre catturano facilmente i politici eletti localmente. Il caso più clamoroso è proprio la gestione del territorio: per difendere la natura, il paesaggio, la salute, la vita stessa (evitando di costruire lungo i fiumi, inquinare e quant’altro), occorrerebbe che la tutela del territorio fosse il più lontano possibile dai gruppi locali di pressione, molto centralizzata, anche se con grande trasparenza delle decisioni verso tutto il Paese e l’Europa. La privatizzazione selvaggia e la cementificazione delle spiagge è certo più colpa dei proprietari locali degli stabilimenti balneari che non dei corrotti di Roma.

E perché gli ospedali sono regionali? Per essere più vicini ai pazienti/votanti? La dimensione nazionale sembra più adatta a ottenere una distribuzione razionale dei servizi sanitari, che sfrutti la concentrazione delle competenze specialistiche, valorizzi le eccellenze e canalizzi i pazienti in modo economicamente efficiente e per loro soddisfacente.

Ma ecco la questione della concorrenza virtuosa: gli amministratori locali avrebbero incentivo a competere per far meglio, così da meritarsi i voti e, addirittura, da attirare più attività sul proprio territorio. Se ti faccio pagare più tasse e, a parità di tasse, ti do servizi peggiori, tu elettore non mi voti più o ti sposti in un’altra regione. E’ un meccanismo credibile, sul serio in grado di incentivare sollecitamente il buon governo locale? E’ un meccanismo che richiede vincoli al bilancio pubblico degli enti locali, che altrimenti possono sprecare senza alzare le tasse: si riescono davvero a imporre questi vincoli? E come mai il meccanismo non funziona e i servizi pubblici di molte regioni italiane non accennano nemmeno a migliorare nonostante l’evidente insoddisfazione dei loro abitanti che si esprime, quando e come può, anche con spostamenti di voti e voti di protesta? Non è più facile concentrare i giudizi dei cittadini sulla capacità del governo nazionale di organizzare la fornitura decentrata dei servizi? E poi: la concorrenza fra i politici locali può forse funzionare nei confronti di servizi veramente locali, gestiti da politici «vicini»: per i Comuni; ma per le Regioni?

Domandiamoci infine se si può chiedere ai cittadini di esercitare un voto davvero consapevole e disciplinante a più di tre livelli: comunale, nazionale e europeo. Non diamo nulla per scontato. Vengono tempi nei quali dovremo riorganizzare le nostre istituzioni: nessuno scrupolo ci trattenga dal rimettere in discussione, senza pregiudizi ideologici e faziosità, l’articolazione territoriale del potere politico. Nemmeno lo scrupolo di esserci già inoltrati in un cammino federalista mal definito e imprudente.

franco.bruni@unibocconi.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10557
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« Risposta #62 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:32:45 pm »

Editoriali
14/11/2012

Dal maltempo una lezione per la finanza pubblica

Franco Bruni

I tremendi danni causati in questi giorni dal maltempo fanno riflettere sul bisogno di cura del territorio, un servizio pubblico sulla cui importanza il governo dovrebbe alzare la voce. Sono danni con costi ingenti, diretti e indiretti, anche per le imprese private. Nell’ultima settimana ho avuto altre occasioni per riflettere sul bisogno di servizi pubblici e sulla loro importanza per la produttività privata.

 

Mi è capitato di essere coinvolto in un gigantesco ingorgo causato in autostrada da un numero spropositato di camion enormi: ho pensato ai costi, pubblici (congestione, inquinamento) e privati, della mancanza di un sistema di trasporto delle merci che utilizzi di più ferrovie e porti. Mi è capitato di visitare un grande museo statale e alcune straordinarie bellezze di una città d’arte: c’era degrado nel museo e le bellezze erano poco accessibili, con perdite per la piacevolezza del vivere collettivo ma anche per i conti dell’industria turistica e del suo indotto. Mi è capitato, visitando un amico medico, di constatare un taglio drastico di fondi per ricerca essenziale, impossibile da privatizzare ma preziosa per le ricadute sull’industria farmaceutica privata. Ho incontrato il sindaco di un piccolo comune: era disperato per l’impossibilità, data la stretta sulle disponibilità degli enti locali, di fornire ai suoi cittadini servizi essenziali anche per le loro imprese.

 

Potrei continuare raccontando esperienze della settimana precedente. Tutto ciò pare contrastare con l’esigenza di «tagliare la spesa pubblica» che, anche come economista, sento ripetere continuamente (e anch’io, qualche volta, ripeto) in questi tempi di finanze guaste e perigliose, di spread troppo alti, di emersione di scandalosi sprechi. Gli edifici scolastici richiedono manutenzioni urgenti, ai tribunali serve l’informatica, le città multietniche e trafficate hanno bisogno di vigilanza urbana più abbondante, preparata, qualificata e ben pagata; per non parlare del disinquinamento e di quel che serve alla repressione del crimine che si rinnova in forme inedite e sofisticate. Sono beni e servizi strettamente «pubblici», ma la loro produzione è essenziale non solo per il generale incivilimento e il benessere pubblico, ma per la produzione dei beni e servizi privati, per contenere i costi espliciti e impliciti delle imprese. L’evolvere complicato del mondo, con le nuove interazioni umane e tecnologiche che produce, le sue nuove opportunità e i suoi nuovi pericoli, richiede dosi crescenti di beni pubblici, pena, fra l’altro, la decadenza delle produzioni private.

 

Se le cose stanno così, «tagliare la spesa pubblica» non solo non deve voler dire tagli lineari e ciechi, ma non deve significare, necessariamente e prioritariamente, tagli del suo ammontare complessivo. Il quale, in un mondo ideale, dove non si spreca né si ruba nemmeno un euro delle casse pubbliche, non è detto sia molto inferiore a quello attuale. Si tratta di cambiare, di riformare, di spostare, più che di tagliare il totale. Servono riorganizzazioni dell’amministrazione pubblica talmente incisive, ben disegnate e ben spiegate ai cittadini, da diventare la sostanza principale dell’azione politica, un progetto collettivo che comunichi qualche entusiasmo, così che ognuno, soprattutto se lavora nella pubblica amministrazione, sia pronto a fare la sua parte, sacrificando la sua convenienza immediata e la sue inerzie psicologiche e corporative. 

 

E’ maggiore di zero la probabilità che ciò risulti anche in minori spese complessive, data l’enormità degli sprechi e delle inefficienze attuali. Allora sarà possibile ridurre anche le imposte totali e non solo riformarle ed estenderle agli evasori. Ma il punto è che i benefici di un sistema pubblico migliore aiutano grandemente la competitività del settore privato; l’aiuto, anche a parità di spesa e imposte totali, può essere maggiore di quello che risulterebbe da un alleggerimento delle imposte permesso da tagli meno «riformatori» della spesa totale. Inoltre, dare buoni servizi pubblici significa fare una parte importante della redistribuzione di reddito, verso i meno favoriti e fortunati, della quale c’è un conclamato e crescente bisogno. Perché i beni pubblici si finanziano con tassazioni progressive e sono goduti con speciale intensità dai meno provveduti di beni privati. 

 

Il governo sta impostando riforme importanti della pubblica amministrazione e della produzione di beni pubblici. Dovrebbe trovare meno difficoltà su questo cammino, meno resistenze corporative, più lungimiranza di chi viene scomodato dai cambiamenti. Potrebbe dare una speranza e una visione più chiara delle finalità non solo contabili della sua azione sulla finanza pubblica. La difesa del territorio si presta bene per far pubblicità ai beni pubblici. E’ straordinariamente importante in Italia. 

 

La tragedia delle inondazioni serva almeno a ricordarcelo e a stimolarci a dare alla nostra azione collettiva obiettivi più ambiziosi. Per avere un’amministrazione qualificata ed efficiente, in grado di fare a meno degli introiti dell’edilizia selvaggia e della privatizzazione cementificata delle spiagge, davvero capace di impedire di costruire dove non si deve, di trasferire altrove gli insediamenti inopportuni, di rinforzare i fianchi delle nostre colline, gli argini dei nostri fiumi, il limitare dei nostri mari, occorrono cifre immense. Di fronte alle quali «tagliare la spesa pubblica» deve diventare un’espressione con un significato corretto e meditato.

 

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/dal-maltempo-una-lezione-per-la-finanza-pubblica-kuFppaYoBSgJIIa1YMPfzL/pagina.html
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« Risposta #63 inserito:: Febbraio 19, 2013, 11:35:55 pm »

Editoriali
19/02/2013

Il sogno di una crescita equa


Franco Bruni

Manca il «soogno», come direbbe Crozza nei panni di Briatore. Nella campagna elettorale sono deboli le visioni d’insieme che caratterizzano le proposte economiche dei candidati. Servono iniezioni di speranza per il cuore e il cervello degli elettori. 

D’altra parte, se si domanda in che cosa potrebbero consistere queste visioni e queste speranze, non si trovano buone risposte. 5 punti percentuali in meno di pressione fiscale? Rilancio dell’occupazione? Non basta per sognare. C’è poi l’etichetta «rivoluzione liberale», che sembra un sogno. Ma si presta a equivoci: non si capisce se è compatibile con difese anti-inquinamento abbastanza severe, welfare adeguato, quote sufficienti di spiagge libere e altri connotati di un Paese dove l’interesse generale non sia soffocato da quelli particolari. E’ liberale vietare la cementificazione del territorio? 

Cercando ancora, sentiamo echeggiare la parola «crescita», più o meno accompagnata da «equità». Certamente riprendere a crescere, e farlo con equità nella distribuzione del reddito e della ricchezza, è un bel sogno. 

 

Ma è un sogno confuso che si accompagna spesso a ricette semplicistiche come miracolosi stimoli macroeconomici che non coinvolgono i cittadini in uno sforzo collettivo. Sognare gratis rende amaro il risveglio. Proviamo a ripartire dalla parola «crescita». Significa aumentare durevolmente il Pil pro capite. Che cos’è il Pil? E’ la somma dei beni prodotti dall’economia, ciascuno moltiplicato per il suo prezzo. L’idea è che quando un bene ha un prezzo relativamente più alto arreca più soddisfazione all’economia che ne fa uso. Per crescere dobbiamo aumentare la produzione dei beni di maggior valore. Si aprono allora due cantieri per fabbricare il sogno.

 

Nel primo cantiere cerchiamo di riorganizzare sforzi e capacità in modo da ottenere più beni di maggior valore. Qui incontriamo la radice della stagnazione che ci affligge da quasi vent’anni. Il mondo cambia sempre più svelto, cambiano le tecnologie, i popoli produttori, la loro demografia, la loro cultura. Perciò cambiano la domanda e l’offerta dei diversi beni, il loro valore relativo, i vantaggi competitivi dei loro produttori, la validità economica della catena di montaggio del Pil. Se non si riorganizza il tutto, se non si spostano i nostri sforzi da una produzione all’altra, se non si partecipa alla reinvenzione del sempre nuovo insieme di beni che chiede e offre il mondo, il valore del Pil scende. Non si può crescere producendo le stesse automobili negli stessi posti, gli stessi giornali venduti nelle stesse edicole, le stesse lezioni nelle stesse università, gli stessi servizi pubblici erogati con le stese tecniche, le stesse cose in imprese che non cambiano le dimensioni, le forme di finanziamento, la struttura proprietaria, il governo societario, le relazioni col mercato del lavoro e dei capitali. 

 

Stiamo ristagnando perché non troviamo modi per aggiungere nuovo valore alle catene produttive, perché resistiamo al cambiamento, non ci adattiamo a un mondo mutevole, siamo rigidi, ognuno difende il suo antico posto, il suo precedente vantaggio, ricco o misero che sia. Chi innova, nel privato e nel pubblico, é spaesato in un ambiente conservatore. Il problema è microeconomico: non si cura con miracoli macro. 

 

Qual è il sogno? Creare un sistema adatto al continuo cambiamento, così che la somma dei beni prodotti sia somma di valori che crescono perché tengono il passo coi tempi. Alcune produzioni cessano, altre cambiano, altre nascono. Un’economia flessibile, che muta velocemente spostando le risorse, riorganizzando i mercati, aggiornando i saperi, adeguando le regole. E’ difficilissimo, ma è un vero sogno coinvolgente, che impegna i governati insieme ai governanti. E’ costoso, perché spostarsi costa e il cambiamento emargina chi è troppo debole per tenerne il passo. 

 

Ecco allora l’altro termine del sogno, l’equità: crescita equa significa flessibilità assistita. Assistenza per chi rischia di essere spiazzato dal cambiamento, lavoratori e imprese. Ma assistenza per affrontare il cambiamento, non per evitarlo. Anche i burocrati e i politici devono capire il cambiamento e aggiornare i loro comportamenti. Un’economia flessibile richiede molto lavoro collettivo per evitare di divenire un insieme di vittime e di vincitori di Pirro. La libertà dei mercati deve sposarsi con la loro continua ri-regolazione, la concorrenza con la solidarietà, con l’indirizzo della politica e l’aiuto della finanza pubblica. 

 

Ma il sogno di un’equa crescita si coltiva anche in un secondo cantiere. Dove si costruiscono i beni pubblici, che fanno parte della somma con cui si calcola il Pil. Alcuni sono pubblici del tutto, come i panorami e la difesa nazionale; altri lo sono nella misura in cui comprendiamo che produrli per qualcuno beneficia tutti: come l’istruzione, la salute e quell’assistenza alla flessibilità che serve nel primo cantiere. I beni pubblici non hanno un chiaro prezzo di mercato per il quale moltiplicarne la quantità per fare la somma del Pil: perciò le statistiche li valorizzano in modi insoddisfacenti. Non è ovvio che cosa succede al Pil se si produce meno acciaio e più ore di asilo nido, meno telefonini e carceri migliori. E’ invece ovvio che noi dobbiamo impegnarci per scegliere meglio fra produrre acciaio o ore di asilo nido, telefonini o carceri migliori. Dobbiamo farlo raffinando la nostra capacità di calcolo economico e di scelta politica. 

 

Il sogno potrebbe dunque consistere nel coinvolgerci tutti per ottenere un’economia dove viga flessibilità assistita e una giusta valorizzazione dei beni pubblici. Un sogno che richiede tempo, pazienza, sforzo, costanza e concordia. Richiede molte risorse, che vanno risparmiate dove sono sprecate, nel settore pubblico ma anche in quello privato. Richiede soprattutto di individuare le priorità con chiarezza e di guardare ai risultati di medio-lungo termine. Ma è un sogno dal quale ci sveglieremmo con un ritmo sostenibile di crescita rispettosa dell’equità. E pronti a un nuovo sogno. 

 

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://lastampa.it/2013/02/19/cultura/opinioni/editoriali/il-sogno-di-una-crescita-equa-hyl8ld30JNnVSQJLNtTFWL/pagina.html
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« Risposta #64 inserito:: Maggio 06, 2013, 11:44:24 am »

Editoriali
06/05/2013

L’incertezza pesa più dell’imposta

Franco Bruni

Nell’editoriale di ieri Luca Ricolfi invita a «parlare di tasse senza ideologie». E’ un invito da cogliere. Il dibattito sulle misure del nuovo governo dovrebbe riflettere le finalità del suo largo supporto parlamentare, sradicandosi da faziosità di parte. 

A dibattere senza faziosità non dobbiamo esser solo noi commentatori senza potere, ma anche i membri del governo ai quali, diversamente da noi, si addice la riservatezza, il non sottolineare in pubblico inevitabili divergenze, giungere a buoni compromessi e difenderli con coerenza e unità. 

Non giova al Paese, per esempio, che il viceministro Fassina sembri dissentire, in un’intervista sulla Repubblica di ieri, dalla posizione del suo ministro e del governo circa la strategia nei confronti del coordinamento fiscale dell’Ue. Smettano di rilasciare interviste, parlino con una sola voce, diano almeno l’impressione che mirano a governare, non a mettersi in luce per le prossime elezioni.

Ma torniamo a noi, a chi ha il compito di dire, disdire, dissentire, «senza pregiudizi», come suggerisce Ricolfi. Che rompe il ghiaccio con due «interrogativi provocatori»: se l’Imu sia scevra da effetti negativi sulla crescita e se, sempre ai fini della crescita, sia prioritario tener bassa l’Iva. 

Sono domande importanti, urgenti e non facili da rispondere come molti sembrano pensare. 

L’Imu può avere effetti depressivi sulla domanda aggregata, sia direttamente che attraverso il suo impatto sui valori immobiliari, che sono componenti importanti della ricchezza, da cui dipendono i consumi, e sono determinanti cruciali degli investimenti e della produzione nel settore edilizio, con il suo vastissimo indotto. Questi effetti si possono però contenere, rendendo l’imposta più progressiva di quanto è già e alzando le soglie per l’esenzione completa delle proprietà piccole e dei proprietari con redditi bassi. Insistere sulla difesa della prima casa sa di ideologia e propaganda mentre è evidente che sono soprattutto le piccole proprietà e i bassi redditi a veder traumatizzati i loro piani di consumo dal pagamento dell’imposta. In compenso si può calcare di più su chi è più ricco ma, proprio per questo, avendo un patrimonio e fonti di reddito più robusti e variegati, può ridurre meno le spese per pagare le imposte sugli immobili che possiede. 

L’effetto depressivo dell’Imu è dipeso anche dall’incertezza delle modalità e dei tempi del suo pagamento nonché dalla confusione circa la destinazione del suo gettito fra Stato ed enti locali, confusione legata al più generale disordine di quel brutto aborto che è stato il cosiddetto federalismo fiscale. Inoltre si tratta di un’imposta che colpisce un settore, quello edilizio-immobiliare, mal governato, spesso gonfiato dalla speculazione e distorto dalla corruzione: perciò un settore fragile anche quando prospera, facile a deprimersi per un subitaneo mutamento del trattamento fiscale. L’idea di sospendere la rata di giugno è dunque buona per poter riflettere, studiare, calcolare e deliberare bene; ma è poi opportuno far presto a decidere risolvendo l’incertezza dei contribuenti e degli enti percettori del gettito e, accanto alla riforma dell’Imu, ci vuole almeno l’impostazione di una politica industriale dell’edilizia, che sia di riferimento per i progetti degli operatori del settore e degli investimenti immobiliari ma che garantisca anche la difesa dell’integrità del territorio, senza la quale non c’è crescita decente e duratura.

Sull’Iva credo di essere d’accordo con Ricolfi e persino con me stesso, anche se lui invita a non aver scrupoli a contraddire quanto scritto in passato. L’enfasi sul danno di un’Iva più alta è eccessiva e converrebbe, fino a quando non si riusciranno a tagliare più massicciamente le spese inutili, finanziare con l’Iva la riduzione di imposte che sono più importanti per rilanciare l’occupazione e aiutare l’esportazione. La riduzione del cuneo fiscale, cioè della differenza fra costo del lavoro e busta paga, e del «total tax rate» del quale Ricolfi ricorda il livello stratosferico raggiunto in Italia, sono più benefici per la crescita del contenimento dell’Iva. Lo hanno detto in molti (su La Stampa lo scrissi fin dai tempi del governo Berlusconi) e non ho mai capito perché il governo Monti non abbia aggredito la questione con tempestività ed energia. Inoltre, anche se contabilmente l’Iva finisce sui prezzi al consumo, in un periodo di bassa domanda ha meno probabilità di avere effetti inflattivi a carico della larga massa dei consumatori finali, mentre potrebbe incidere su uno o più degli anelli, a volte superflui, della catena distributiva. Ridurre i costi dei produttori con fondi provenienti dall’imposizione indiretta sui consumi, dalla quale sono esenti le esportazioni, ha un nome anche nei libri di testo: si chiama svalutazione interna e favorisce la bilancia dei pagamenti. 

Credo di aver evitato ideologie. Se però andassimo oltre l’urgenza dei provvedimenti a breve, diverrebbe più difficile sfuggire valutazioni politiche, rimanere su un tono tecnico-pragmatico. Infatti nel lungo periodo decidere sul fisco, sulla qualità e il livello dell’imposizione, implica due scelte controverse: in che misura si vuole influenzare durevolmente la distribuzione del reddito e in che misura alcuni beni e servizi vadano considerati «pubblici» e perciò prodotti o sussidiati dalla pubblica amministrazione. Sono cioè in gioco le finalità e le dimensioni dello Stato nell’economia. Il finanziamento strutturale delle politiche di welfare, soprattutto, richiede prese di posizione che, pur volendo evitare faziosità ideologiche, non possono non avere qualche sapore «di parte». 

Ma si possono cercare convergenze anche su questioni divisive di lungo periodo. E’ un bene che governi d’emergenza come quelli di Monti e di Letta siano spinti dalle urgenze di breve a esercizi tecnico-pragmatici che possono insegnare al Paese a raggiungere compromessi duraturi, politicamente più qualificanti.

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://www.lastampa.it/2013/05/06/cultura/opinioni/editoriali/l-incertezza-pesa-piu-dell-imposta-TlVVpNZwGSzFQYzfQS7hQN/pagina.html
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« Risposta #65 inserito:: Luglio 02, 2013, 04:44:08 pm »

Editoriali
02/07/2013 - in cerca della ripresa

Quanto costa rinviare le riforme

Franco Bruni


Molti pensano che la politica economica faccia passi troppo piccoli. D’altra parte la politica dei piccoli passi dice le sue ragioni e i pericoli di correre di più. Ma la gente è perplessa e dubita anche di alcuni passi non piccoli che sono stati avviati, come il pagamento di decine di miliardi di debiti pregressi della pubblica amministrazione, o gli incentivi nazionali ed europei all’occupazione giovanile. 

 

Molti commentatori chiedono subito drastici tagli di spesa e di tasse, spericolati debordi dai limiti di deficit concordati con l’Europa, liberalizzazioni, privatizzazioni. 

 

Va detto che ci sono due tipi di piccoli passi: quelli che mostrano solo disorientata esitazione e quelli che avanzano con realistica gradualità su un cammino dove passi lunghi e decisivi sono stati già stabiliti con chiarezza. A me sembra che il governo voglia convincere il Parlamento, i cittadini, l’Europa, che i suoi piccoli passi sono del secondo tipo ma che per ora lo sforzo di convincimento abbia un successo limitato. 

 

Le ragioni dei piccoli passi sono, innanzitutto, nella paradossale situazione politica. L’accordo fra i due poli viene giustificato, anziché con l’obiettiva difficoltà e la condivisa importanza delle riforme da fare, con l’obbligo di allearsi controvoglia visti i risultati delle elezioni. Ciascun polo sbandiera le sue differenze più delle convergenze; spunta troppo spesso la voglia di tornare presto a spargere populismo per ricontare i voti. E questo avviene nonostante entrambi i poli siano disuniti e impreparati a una competizione elettorale coerente e nonostante le differenze fra le due visioni di politica economica siano tutt’altro che evidenti: l’unica cosa chiara è l’insistenza del Pdl sulle sue promesse sull’Imu. Ma già sul non aumento dell’Iva si sbraccia anche parte della sinistra. I tagli di spesa (quali, quanto e quando), la riforma del mercato del lavoro, le liberalizzazioni, sono fra i molti esempi di temi dove i falchi di entrambe le parti dicono quasi le stesse genericità e i partiti non sono pronti a parlar chiaro e confrontarsi in modo impegnativo e trasparente con i loro potenziali elettori.

 

E allora perché non usare il tempo delle larghe intese per pulirsi le idee, cominciando a riconoscere che quasi tutto quello che c’è di più urgente non richiede politiche di destra né di sinistra ma un’azione concorde e coerente per migliorare un Paese che non crede più in sé stesso perché troppo disunito e litigioso? Forse i piccoli passi servono anche ad evitare di interrompere traumaticamente quella sorta di purgatorio dove il nostro disastroso bipolarismo sta scontando i suoi peccati. Senza contare che, a fianco della politica economica, scorrono i delicatissimi diciotto mesi che Letta ha fissato per il disegno delle indispensabili riforme istituzionali.

 

Vi sono benefici nel far passi piccoli. Perché in Europa devono maturare condizioni più concordi per politiche comunitarie più coraggiose, probabilmente nel tardo autunno, dopo le elezioni tedesche. C’è una congiuntura internazionale che stenta a confermare il miglioramento, che potrebbe succedere fra qualche mese, facilitando anche per noi riforme più radicali e difficili. E c’è il fatto che lo spazio per politiche di rilancio macroeconomico è limitatissimo per un Paese che deve continuamente rifinanziare un debito pubblico come il nostro: perciò le riforme essenziali sono di tipo microeconomico, strutturale, e dunque lunghe da disegnare bene e implementare sul serio. 

 

Ma ci sono anche i costi dell’avanzare con piccoli passi. Costa temporeggiare quando i problemi richiederebbero interventi urgenti e radicali. L’esempio sono i rinvii delle decisioni su Imu e Iva. Nel caso dell’Imu il tempo richiesto finora dal governo per riformare bene l’imposizione sulle abitazioni è giustificato; ma se in autunno si dovesse ancora rimandare l’incertezza sarebbe devastante. Nel caso Iva non c’erano invece ragioni economiche per rinviare la decisione, facendo oltretutto un pasticcio nel prevedere la copertura degli oneri del rinvio: l’aumento dell’imposizione sui consumi andava accettato e i suoi proventi utilizzati per detassare subito di più l’occupazione. 

 

Il temporeggiamento è disorientante nella principale di tutte le riforme, quella della pubblica amministrazione: non occorre far tutto subito ma va urgentemente raggiunto un accordo, resistente alle pressioni degli interessi in gioco, su almeno due cose: che nel settore pubblico sarà introdotta più mobilità del lavoro e che il decentramento amministrativo sarà rivoluzionato, ridimensionato e semplificato, sia sul piano fiscale che su quello dei poteri di decisione. Non ci si può limitare a semi-promettere che forse le province verranno quasi accorpate: nel disordine incontrollato e irresponsabile del decentramento si radica sia la debolezza della nostra finanza pubblica che, per esempio, l’inadeguata politica di difesa del territorio. 

Temporeggiare costa anche perché si dà fiato agli avversari delle riforme, che si attrezzano per opporvisi meglio. Costa perché fare passi piccoli e isolati concentra l’opposizione sui singoli passi anziché disperderla su una gamma multidirezionale di riforme; perché alle riforme viene a mancare lo sprint di una mobilitazione generale per far funzionare l’Italia; perché la credibilità di un governo che rinvia le decisioni è continuamente a rischio. 

 

Per qualche mese possiamo ancora sopportare i costi dei piccoli passi, incassando i benefici. Speriamo che il governo usi bene il tempo che ci separa da quando, verso metà autunno, dovremo disporre di un disegno impegnativo e piuttosto dettagliato delle riforme che siamo d’accordo di fare. Basterà un disegno credibile per migliorare le aspettative e aiutare la ripresa. Dopodiché non occorrerà fare passi più lunghi della gamba: ma saranno piccoli passi del secondo tipo, con davanti un cammino lungo e chiaramente concordato.

 

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://lastampa.it/2013/07/02/cultura/opinioni/editoriali/quanto-costa-rinviare-le-riforme-EFAKZZeRIXAEObi2LQMueL/pagina.html
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« Risposta #66 inserito:: Agosto 07, 2013, 05:32:29 pm »

Editoriali
07/08/2013

Il passo che manca per la ripresa

Franco Bruni


Enrico Letta celebra i primi cento giorni del suo governo documentando gli sforzi per far riprendere il Paese. Sforzi fatti, anche sulla scia del governo precedente, in una situazione politica difficilissima e in un quadro economico internazionale ancora debole. Giustamente il premier chiede fiducia e perseveranza per continuarli. 

 

Si diffonde l’idea che la congiuntura economica italiana stia smettendo di peggiorare. Un’idea supportata da dati aggregati e ufficiali, come l’andamento della produzione industriale, il cui lieve miglioramento, già avvertito da qualche settimana, è stato ora ufficializzato dall’Istat. Da tempo Saccomanni, che ieri ha detto di pensare che «la recessione sia finita», raccomanda di non sottovalutare l’effetto positivo dell’accelerazione dei pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione. 

 

Miglioramenti risultano anche da evidenze meno ufficiali. Vanno bene numerose imprese, soprattutto nei settori dell’export di qualità, che stanno reagendo alle difficoltà degli ultimi anni con innovazione, ricerca, nuovo marketing, migliori relazioni con le organizzazioni sindacali. 

 

Con grande travaglio e attorno al triste serbatoio della disoccupazione, cambiano le imprese, la gente cambia mestieri, si adatta ai cambiamenti del mondo. Anche le banche, pur mediamente bloccate, dalle sofferenze dei loro prestiti passati, nell’erogazione di nuovi crediti alle imprese, vanno differenziandosi: le migliori cominciano a respirare e a far respirare la loro clientela. 

 

Siamo «a un passo dal possibile» ha detto Letta. Ma per il passo che manca – e perché non si torni indietro – servono condizioni, esterne e interne al nostro Paese. La crescita di alcune delle locomotive globali non deve rivelarsi un bluff prodotto da stimoli monetari e fiscali artificiali e pericolosi. L’Europa deve proseguire verso la maggiore integrazione che ha avviato negli ultimi due anni: è la condizione per mostrare a un Paese come il nostro, che cerca di ricostruire la sua politica e rianimare la sua economia, che i suoi travagliati sforzi lo portano verso una meta comunitaria dove saremo tutti più forti e solidali. Il disegno di un’Europa più unita è avanzato; la sua realizzazione deve proseguire; il semestre di presidenza italiana dell’Ue dell’anno prossimo sarà cruciale. 

 

Quanto alle condizioni interne, alcune sono urgentissime e dovrebbero accavallarsi subito ai piccoli miglioramenti statistici che stiamo osservando. Va risolto definitivamente, meglio se prima delle scadenze obbligatorie, il nodo delle imposte in sospeso: l’Imu e l’Iva. Famiglie e imprese non devono continuare a pagare i costi dell’incertezza su che cosa si deciderà. Anche perché è un’incertezza che si diffonde all’insieme delle decisioni fiscali e di bilancio che vengono comunque coinvolte dai non pochi miliardi in ballo per quelle imposte. 

 

C’è un’eccezionale convergenza di vedute, dal Fmi, all’Ocse, alla Commissione Europea, alle banche centrali, alla Confindustria e ai sindacati: la tassazione sulla prima casa non va eliminata. L’Imu si può riformare, alleggerire per i più poveri, si può cambiarle il nome e ricomporla con altre imposte, ma le promesse di chi ha basato sulla sua abolizione la campagna elettorale non possono essere mantenute. Il premier deve ora dirlo chiaro e sfidare anche su questo la sua maggioranza. Sull’Iva il consenso è meno compatto; ma sono fra i molti che pensano che l’aumento che scatterebbe automaticamente in assenza di altre decisioni vada accettato, con eventuali rimodulazioni delle aliquote agevolate, e che tutta la detassazione possibile vada concentrata per ridurre il cuneo fra salari e costi del lavoro e le aliquote dell’imposta sui redditi personali di chi guadagna meno. 

 

Al di là dei provvedimenti specifici come il riassetto più urgente delle imposte, condizione interna cruciale per confermare la ripresa è convincerci che più che stimoli macroeconomici servono profonde riforme microeconomiche e amministrative. Le quali, è vero, richiedono tempo, ma il cui solo annuncio e disegno credibile, impegnativo e condiviso, concordato con le apposite procedure in sede Ue, farà subito effetto, perché agirà sulle aspettative, permetterà a famiglie e imprese di fare i piani di medio-lungo, rilancerà gli investimenti e l’afflusso di capitali dall’estero. Le riforme sono la chiave per risolvere la contraddizione fra austerità e crescita.

 

L’elenco è ben noto e in parte già steso in più sedi: riforma del lavoro, della giustizia, delle banche, del decentramento politico-amministrativo, eccetera. Ma è indispensabile che si diffonda maggiormente, fra tutti i cittadini, la consapevolezza che il Paese va cambiato profondamente, che ciascuno deve dare il suo apporto e che la direzione della maggior parte dei cambiamenti necessari non è un fatto ideologico e di parte ma risulta dalla somma del buon senso con la convinzione che l’interesse collettivo deve prevalere su quelli dei singoli e dei gruppi di pressione. E’ indubbio che nel settore privato le imprese e le persone stanno impegnandosi a cambiare. E’ persino questione di giustizia che il cambiamento pervada in modo rapido e radicale anche tutta la pubblica amministrazione. 

 

Cartine di tornasole del cambiamento, a caso, che a qualcuno sembreranno futili: ci serve un Paese dove nel giro di 24 ore qualcuno possa decidere senza appello che le grandi navi non possono avvicinarsi a Piazza San Marco; che i soldi che ancora spendiamo per il Ponte di Messina vadano a Pompei; che il sussidio che mia madre, senza averne bisogno, riceve per la badante, vada a integrare lo stipendio dei giovani medici; che il sottosegretario alla cultura possa, con un ordine di servizio immediato, spostare due uscieri dalla sua anticamera, dove hanno poco da fare, al vicino museo di Palazzo Venezia, dove manca personale. Cose come queste aiuteranno i dati dell’Istat a migliorare davvero e durevolmente. 


franco.bruni@unibocconi.it 

 da - http://lastampa.it/2013/08/07/cultura/opinioni/editoriali/il-passo-che-manca-per-la-ripresa-DDdDX0aAs3gO1EgozpwzrJ/pagina.html
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« Risposta #67 inserito:: Novembre 13, 2013, 04:29:17 pm »

Editoriali
08/11/2013

Perché lo stimolo sarà limitato

Franco Bruni

Con la riduzione dei tassi di ieri la Bce è riuscita a sorprendere, nonostante abbia deciso secondo i suoi criteri più noti e ortodossi. Poiché l’aumento dei prezzi sta rallentando troppo, fino a suscitare timori di vera e propria deflazione, cioè di prezzi che si avvitano in discesa, la banca centrale ha fatto una mossa espansiva, come da manuale. 

La decisione contiene un certo pessimismo sulle prospettive congiunturali. Si pensa che l’inflazione rischia di rimanere a lungo troppo bassa perché l’economia rischia di rimanere a lungo troppo debole. E la Bce avverte che la probabilità che le cose vadano peggio del previsto è più alta di quella che vadano meglio. Le Borse e gli spread non hanno festeggiato. Il problema è l’esasperante lentezza della ripresa, soprattutto in alcuni Paesi. Ne sapremo di più con le previsioni numeriche che la Bce darà in dicembre. 

Ieri Draghi ha dato anche un altro messaggio, leggermente più ottimista, circa la possibilità che il pur lievissimo ribasso dei tassi fissati dalla Bce si trasmetta al costo del credito bancario. Da più di un anno l’eurozona si è «frammentata», nel senso che le banche dei diversi Paesi non si fidano l’una dell’altra e ciò inceppa la circolazione della liquidità, soprattutto verso i Paesi più indebitati e considerati più deboli, fra i quali il nostro.

In questi Paesi l’economia va peggio anche per mancanza di afflussi di liquidità e, con un circolo vizioso, le banche diventano ancora più esitanti ed esose nel concedere il credito a una clientela che si fa più rischiosa. Cosicché, abbassando i tassi della Bce, l’effetto espansivo ha difficoltà a tradursi in una riduzione uniforme dei tassi effettivamente pagati da imprese e famiglie nei vari Paesi. Anche per questo gli stimoli alla crescita che possono venire dalla politica monetaria della Bce sono minimi e l’idea di abbassare i tassi a Francoforte è stata più volte rinviata. Ma la decisione di ieri segnala un poco più di fiducia nella trasmissione della riduzione dei tassi centrali a quelli bancari. Infatti Draghi ha detto che la frammentazione è diminuita e continua a ridursi, anche se troppo lentamente. Per ridurla di più andrebbe accelerato il cammino verso l’unione bancaria europea, che in questi mesi sembra invece attraversare una fase difficile di contrasti politici e dubbi tecnici e della quale nella conferenza stampa di ieri non si è quasi parlato. 

Purtroppo l’effetto delle decisioni della Bce sul rilancio dell’economia sarà piccolo. Non solo perché, come appena detto, la frammentazione dell’eurozona limita la diffusione del calo dei tassi. Ci sono almeno altre tre ragioni. La prima è che il flusso di credito per nuovi, buoni investimenti, non può tornare a essere abbondante fino a quando non si è ridotto l’eccessivo indebitamento accumulato in passato da molti governi, banche e imprese, indebitamento spesso impiegato in modo pessimo, in attività improduttive e in rischi mal calcolati. La seconda è che per rilanciare la crescita occorrono soprattutto riorganizzazioni dell’economia reale, difficili riforme strutturali, sia nel settore privato che nelle pubbliche amministrazioni. Lo ha ancora ricordato ieri Draghi raccomandando, fra l’altro, che il riordino dei conti pubblici avvenga con provvedimenti «organizzati in modo da incentivare la crescita e ridurre le distorsioni del fisco». 
Una terza ragione per non attendersi molto da riduzioni dei tassi o straordinarie iniezioni di moneta della Bce, è che la crisi ha ancora una dimensione globale e molti problemi vengono dal di fuori dell’Europa. Basti pensare alle tensioni venute recentemente dalle politiche monetarie e di bilancio degli Usa. C’è un pericoloso disordine competitivo nelle politiche monetarie mondiali, che si stanno rincorrendo nell’abbassare i tassi e nello stampar moneta e gareggiano per indebolire la propria valuta e far guadagnare ai loro esportatori una competitività artificiale ed effimera. Finora la Bce si è distinta per virtù e cautela in questa brutta gara, soprattutto rispetto alla Fed americana e alla banca centrale giapponese. Il che ha però rafforzato l’euro, nonostante la debolezza dell’eurozona.

Ciò viene da più parti criticato perché sacrificherebbe la competitività europea. La decisione di ieri potrebbe leggersi come una conseguenza di queste critiche: un inizio di adeguamento della politica Bce ai comportamenti delle altre banche centrali, per non rimaner vittima della propria virtù. In effetti l’euro ieri si è svalutato, non molto ma bruscamente. Ma Draghi ha negato che si sia anche solo parlato del tasso di cambio durante il Comitato di ieri.

Non è bene che le banche centrali si rincorrano nell’abbassare i tassi, rovesciare liquidità sui mercati e indebolire il proprio cambio, finendo per neutralizzarsi a vicenda e creare disordine, speculazione e instabilità monetaria in tutto il mondo. Anche perché è una rincorsa che non fa che cercar di nascondere l’incapacità dei governi di risolvere i problemi dei bilanci pubblici e di fare le riforme strutturali necessarie alla crescita. Occorrerebbe invece coordinare le principali politiche monetarie facendo in modo che dagli andamenti dei cambi vengano alle economie il minimo possibile di disturbi e incertezze. L’Europa, che più degli altri ha la cultura della stabilità monetaria, dovrebbe prendere iniziative diplomatiche affinché la cooperazione globale vada in questa direzione. 

franco.bruni@unibocconi.it 

da - http://lastampa.it/2013/11/08/cultura/opinioni/editoriali/perch-lo-stimolo-sar-limitato-xC4ReovWYPdD00N3jGegEM/pagina.html
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« Risposta #68 inserito:: Febbraio 26, 2014, 05:51:10 pm »

Editoriali
25/02/2014

Come usare la fretta e l’ottimismo
Franco Bruni

Speriamo che il disegno di politica economica del governo si precisi. Per ora sono cenni disordinati e pochi numeri azzardati, anche ieri, nel discorso a braccio di Renzi in Senato. Ma speriamo che il disegno rimanga, come sembra essere, centrato sulle riforme strutturali. In entrambe le speranze aiuta la figura di Pier Carlo Padoan, che è un professionista della precisione e un grande esperto di riforme strutturali, che sono una specialità dell’Ocse dov’è stato finora. 

Renzi, com’è apparso anche ieri a Palazzo Madama, ha uno spiccato ottimismo della volontà e molta voglia di correre. In economia sono due virtù che possono però volgersi in corrispondenti difetti. 

L’ottimismo. Ci sono buone e cattive ragioni che spingono i governi a presentare lo stato delle cose e i risultati dei loro interventi accentuando gli aspetti positivi e sorvolando sulle difficoltà e gli insuccessi. Una ragione cattiva è la ricerca di consenso a buon mercato, a costo di non dir la verità. Un motivo più accettabile è influenzare positivamente le aspettative di chi deve aver fiducia per spendere, alimentando così la ripresa in modo che le aspettative si autorealizzino. Ancor più giusto è l’ottimismo degli ufficiali che incoraggiano i soldati all’attacco dicendo loro che ormai è fatta, ancor prima di aver travolto le trincee nemiche. E’ l’atteggiamento di un governo che, per tener uniti i suoi ranghi e difendersi dalle critiche dell’opposizione, anche da quelle giuste, colora lo scenario della propria azione in modo favorevole. E’ il famoso mostrare «la luce in fondo al tunnel»: non è un camion che sta per travolgerci, stiamo trovando la via d’uscita, facciamoci i complimenti.

Il sorriso energetico che caratterizza Renzi fa pensare che additerà spesso la luce in fondo al tunnel. Quando mezzo provvedimento sarà approvato, vorrà dirci che è per intero già applicato. Un capo incoraggiante, un forte avvocato dei suoi collaboratori e dei risultati del loro lavoro, un comunicatore che vuol dare ai cittadini la sensazione che i problemi non sono difficili da risolvere, che abbiamo appena cominciato ma già quasi finito, basta l’energia e la volontà, quelle che ha messo lui nel diventare il capo. Bene. Ma guai se non c’è anche una giusta dose dell’atteggiamento opposto. 

Per spronare i soldati, gli ufficiali devono a volte spaventarli, sottolineando l’emergenza in cui si trovano, il disastro che succederebbe se non raddoppiano gli sforzi, la pericolosità del nemico, la possibilità di una sconfitta. L’economia italiana è in una situazione di emergenza, perché per smuoverla occorrono tante riforme difficili e fra loro intrecciate, alle quali si oppongono formidabili forze corporative e conservatrici. Chi governa dev’essere anche il leader della protesta, deve sottolineare la pericolosità dei nemici con i quali si batte. Ieri Renzi ha detto che siamo in «un Paese arrugginito, impantanato, incatenato». Continuerà ad ammetterlo abbastanza a lungo, anche quando avrà messo le prime firme su azioni di governo? Se smetterà troppo presto non riuscirà a fare le riforme, a battere le inerzie burocratiche, a chiudere i dipartimenti universitari improduttivi, toglierà la pressione dell’emergenza, dovrà presentare le sue misure dicendo che non fanno vittime, che danno poco disturbo e grandi, immediati vantaggi. Non è così. Riformare la pubblica amministrazione, il mercato del lavoro, il welfare, significa fare molte vittime e coinvolgere ciascuno di noi in uno sforzo di innovazione lungo e faticoso. E’ bene che il governo lo spieghi e lo documenti continuamente, mentre ricorda i vantaggi che ne verranno.

E veniamo alla giusta fretta di Renzi. E’ giusto aver fretta di impostare le riforme, trovare per ciascuna il consenso di fondo, obbligarsi a farle mettendoci la faccia. Una al mese: perché no? Ma poi occorre il tempo per dettagliarle e realizzarle davvero e serve la forza di farlo senza poter contare su risultati immediati. Per «cambiare il Paese» ci vuole urgenza ma anche la pazienza di vivere una transizione di vacche ancora magre, come dice il titolo di un recente libro di Marco Magnani, un tempo in cui i sorrisi di Renzi, le sue battute, l’equilibrio di genere del suo giovane governo, possono aiutarci a sperare, a sopportare i costi della trasformazione, ma non possono eliminarli. 

La fretta diventa un difetto quando promette la ripresa dietro l’angolo, cercando effimere positività nelle percentuali di crescita del Pil. Prima le riforme, poi la crescita: guai se la fretta cerca di invertire le cose, magari tentando la droga di allargare il deficit, tagliando le tasse prima della spesa pubblica, caricandoci di nuovi debiti o pretendendo regali dall’Europa. E’ vero che la crescita aiuta le riforme: se c’è fiducia in chi governa, dalle prime riforme può nascere un po’ di crescita che facilita nuove riforme e così via, in un circolo virtuoso, facendo leva sulle grandi risorse degli italiani. Ma non va persa la consapevolezza che il percorso è lungo e, soprattutto, che non bisogna approfittare dei primi segni di crescita per smettere le riforme. Siamo in un guaio in cui ci siamo cacciati negli ultimi quattro o cinque lustri. Diamoci il tempo di uscirne senza trucchi. 

L’Ocse, sotto la direzione del nostro attuale ministro dell’Economia, ha calcolato che alcune buone riforme strutturali possono aggiungere il 5% alla crescita potenziale del Pil e più del 7% a quella dell’occupazione: ma in circa 10 anni. L’Europa non ci farà mancare l’aiuto di un monitoraggio flessibile e intelligente: è praticamente già scritto nei patti ed è inutile prepararsi a chissà quale combattimento diplomatico. Ma l’aiuto verrà solo se mostreremo decisione e lungimiranza nel riformare i tanti malfunzionamenti del Paese. Renzi lo ha promesso: ora deve farlo davvero, con piani precisi e azioni concrete, con fretta ma con pazienza, sgridandoci se non lo aiutiamo, se non cambiamo un poco tutti quanti. 

franco.bruni@unibocconi.it 

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