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Autore Discussione: NOURIEL ROUBINI.  (Letto 7836 volte)
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« inserito:: Dicembre 19, 2008, 09:25:07 am »

ECONOMIA      

Repubblica.it ha raccolto i quesiti dei lettori e li ha girati al "guru" di Wall Street che ha previsto tutti gli sviluppi del disastro economico

Crisi: tasso zero, dollaro, interventi

Le risposte di Nouriel Roubini
 

ROMA - Nouriel Roubini, uno dei più prestigiosi guru di Wall Street, origini iraniane, nato a Istanbul, master alla Bocconi, oggi docente di economia alla New York University, ha acquisito fama e prestigio globali da quando è riuscito a prevedere con sistematica puntualità tutti gli sviluppi dell'attuale crisi: dal crack immobiliare alla cartolarizzazione dei subprime, dai fallimenti bancari all'allargamento al settore industriale. Pur essendo consigliere di Obama, ha suggerito all'amministrazione Bush alcune modifiche alle misure di salvataggio che sono state prontamente accolte.

LE RISPOSTE DI ROUBINI SUL FUTURO 1 - 2

Qualche giorno fa, all'indomani del taglio a zero dei tassi della federal Reserve americana, gli abbiamo chiesto se era disponibile a rispondere alle domande dei nostri lettori, che abbiamo raccolto attraverso il sito e abbiamo sintetizzate nei dieci argomenti essenziali. Oggi sul nostro giornale è apparsa una sintesi delle domande e delle risposte del professore, che riportiamo qui in una versione ampliata riportando anche alcune delle domande "originali", poche - ne sono arrivate più di 300 - ma riguardanti interessi che abbiamo ritenuto generali.
(eugenio occorsio)


TASSO ZERO
La mia domanda è la seguente: con la decisione di portare i tassi a zero non ritiene che le Fed stia cercando di prendere il falling knife dei consumi e dell'immobiliare e stia sottovalutando i rischi ben più seri a livello di sistema di una fuga dal dollaro?? grazie.
Raffaele Mascetra

La Fed ha praticamente azzerato i tassi: la Bce farà lo stesso? Si va verso un modello tipo finanza halal o tipo le Jak Bank svedesi, in cui non si applicano interessi sui prestiti e le remunerazioni derivano esclusivamente da selezionati investimenti trasparenti e remunerativi, in cui chi ha i migliori progetti ha migliori condizioni di credito?
Alberto Arnoldi

Non è stata troppo aggressiva la Federal Reserve nel tagliare a zero i tassi?
Bruno Riccardo Cravero

Chiedo al professore se sia giusto anche in Europa provvedere ad un abbassamento più importante dei tassi e se ritiene efficace un allineamento stabilito per legge tra i tassi BCE e quelli realmente sopportati dai mutui.
Marvin70

Ora che i tassi Usa sono a zero, non si rischia di sprofondare nella deflazione?
Roberto Tappolini

Risposta di Roubini
LA MISURA della Fed non è stata che la presa d'atto di una situazione di fatto. Già da tempo il tasso praticato dalle banche era vicino allo zero, perché il mercato spingeva in tal senso. E questo succedeva perché la stessa Fed aveva intrapreso un'ampia politica di monetary easing, inondando letteralmente il mercato finanziario di denaro con prestiti ed emissioni speciali rivolti alle istituzioni che vi operano ad interesse pressoché inesistente, e anche stampando dollari sic et simpliciter. Tutto questo sta portando già a qualche risultato, ma non dobbiamo farci illusioni: la crisi si è ormai estesa all'economia reale e sarà ancora lunga e dolorosa. Il mercato azionario scenderà ancora del 20%. La recessione è cominciata nel dicembre 2007 e andrà avanti per tutto il 2009. E anche quando nel 2010-11 l'economia riprenderà a crescere, lo farà a ritmi molto lenti, inferiori all'1%. Insomma, bisogna salvare Wall Street per salvare Main Street, il sistema finanziario (banche, broker, assicurazioni) per rilanciare quello produttivo. A questo punto, i percorsi di America, Europa e Asia sono paralleli, e i tempi di recupero potrebbero essere più o meno gli stessi.


DOLLARO-EURO
Perché a parità di situazione economica, c'è una differenza di valore così marcata tra euro e dollaro americano?
Carlo De Amicis

Possiedo un discreto numero di dollari americani. Cosa faccio, li cambio o aspetto tempi migliori? Nel caso fosse opportuno cambiarli subito è meglio previlegiare il franco svizzero la sterlina o l'euro?
Cesare Camerani

Cosa si deve fare in questo momento di crisi se si ha la sfortuna di avere in portafoglio dollari, sterline e dollari neozelandesi? Reinvestirli e aspettare che finisca la tempesta? Su quali aziende e banche si può con fiducia investire in questo periodo? Quali sono invece più a rischio?
Supermari79

Risposta di Roubini
I MERCATI delle valute rispondono a logiche veramente imprevedibili. La verità è che America, Europa e Giappone sono tutti e tre in recessione, quindi a rigor di logica le valute che ne sono espressione dovrebbero andare tutte e tre male, il che è evidentemente impossibile. Il vero gioco è sui differenziali dei tassi, il cosiddetto carry trade, e quindi sulle speculazioni che comporta. Negli ultimi mesi c'era stato un rally del dollaro sull'euro, il che se vogliamo era irragionevole perché l'America andava peggio dell'Europa. Poi l'euro ha recuperato appunto perché in America si stava diffondendo il marchio del "tasso zero". Ma credo che il dollaro tornerà presto a rafforzarsi per la forte domanda di asset denominati in dollari causata dall'emissione di titoli Usa per finanziare i tanti interventi previsti. A meno che l'Europa non risponda con massicce emissioni di eurobond. Poi c'è il Giappone, che è in crisi nera da molto più tempo dell'occidente: bene, lo yen è stato paradossalmente forte per mesi sul dollaro, ma ora credo che anche qui la situazione si riequilibrerà. Lo vede quanto è complicato?

L'ITALIA
Ho sempre letto gli articoli di Nouriel Roubini già da gennaio 2008 e lo seguivo con la massima attenzione e trepidazione per le sue previsioni rivelatesi poi esatte. Oggi mi chiedo, l'Italia può finire come l'Islanda? o l'Argentina? Come dobbiamo tutelare noi piccoli risparmiatori i pochi soldi raccimolati da una vita? Da tempo non investo in Borsa e me ne guardo bene, la maggior parte del mio risparmio è in titoli di stato dando sempre un'occhio ai prezzi delle case che in teoria dovrebbero scendere: vorrei acquistare una casa più grande per la mia famiglia: quando sarà il momento giusto? o è meglio tenere un po' di liquidità ?
Sara Montemaria

Vista l'attuale fase di recessione (anticipata già da mesi dal crollo delle borse per vari motivi) e gli attuali interventi dei governi di tutto il mondo per incentivare consumi ed investimenti, quando prevede una ripresa consistente delle borse (dopo che nell'ultimo anno hanno perso dal 30 al 50%)? Io ho una discreta somma investita con piano di accumulo in fondi Abn, Master Az. Europa e America: mi consiglia di continuare il piano di accumulo e se è prevedibile un recupero almeno alla parità di quanto investito (in che tempi?).
Mauro Bassani

Vorrei un suo parere sulla possibilità di una crisi argentina in Italia, con conseguente blocco dei conti correnti nelle banche e blocco delle pensioni oltre ovviamente al massiccio attacco al sistema sociale condotto in modo spesso ipocrita e meschino (scuole, sanità). Tutto questo dopo anni di stagnazione, disoccupazione, licenziamenti di massa e mancanza di aiuti a precari e disoccupati (come saprà non è previsto un sussidio di disoccupazione a tutti i disoccupati, esiste solo per chi ha può dimostrare di aver lavorato per almeno due anni e dura sei mesi al massimo, poi basta). Secondo lei è possibile una crisi analoga? Se sì cosa consiglia di fare alla gente (non ai governanti, tanto quelli pensano a ben altro)?
L. C.

L'Italia non rischia di finire come l'Argentina o l'Islanda?
Giorgio Secchiaroli

Risposta di Roubini
LA MIA risposta è no. Il vostro paese presenta una serie di elementi di instabilità e di difficoltà economiche, ma non è a rischio di fallimento. Restano comunque estremamente urgenti gli interventi di cui da tempo avete bisogno. Penso soprattutto all'incremento della produttività e della competitività, da perseguire con una serie di misure come il miglioramento della formazione professionale dei lavoratori, una decisa spinta sul fronte della ricerca scientifica e tecnologica, la modernizzazione delle aziende con l'introduzione massiccia delle nuove tecnologie, l'introduzione di ulteriori elementi di flessibilità nel mercato del lavoro. La chiave è tutta qui: oggi la produttività cresce meno del costo del lavoro, è un problema che hanno anche Spagna e Grecia e ha avuto a tratti anche la Germania, ma è inaccettabile per un paese che peraltro deve già fronteggiare quello che è un elemento di forza e insieme di debolezza, e cioè l'appartenenza all'unione monetaria. Un fattore che la rende ovviamente solida ma anche in un certo senso vulnerabile perché non consente di avere una propria politica monetaria, sostanzialmente una propria indipendenza, o meglio autonomia.


GLI INTERVENTI
Fino ad oggi il tracollo dei mercati finanziari è stato posticipato solo grazie agli annunci di piani di sostegno a suon di miliardi di dollari e/o euro. Quando finiranno gli effetti psicologici innescati dai governi con l'"effetto annuncio" cosa accadrà?. E soprattutto, ora che i margini di manovra delle banche centrali sono pressoché ridotti a zero, come si combatterà la deflazione?
Vincenzo Figliolia

Ho delle perplessità sui piani di salvataggio delle società che sono sull'orlo della bancarotta. Banche. Il finanziamento da parte dei singoli Stati (a titolo di capitale proprio o di prestiti obbligazionari) alle singole banche, di cui non è ancora possibile conoscere esattamente la situazione patrimoniale (e certamente non aiutano, in questo senso, le recenti disposizioni sulle modalità di contabilizzazione degli investimenti finanziari), potrebbe essere destinato alla estinzione delle reciproche esposizioni, con la conseguenza che potrebbero restare insoddisfatti i veri creditori e, cioè, gli investitori (imprese e consumatori). Dalle ricerche pubblicate da istituzioni finanziarie sembra che il patrimonio dei singoli Istituti sia eroso quasi completamente dalla perdite su derivati e su crediti non garantiti. Non sarebbe il caso, quindi, di costituire Agenzie nazionali con il compito di coordinare il piano di salvataggio delle banche, di ripulire i bilanci e di assicurare l'eguale trattamento di tutti i creditori, esautorando i vecchi managers? Imprese. Alcune grandi imprese rischiano di fallire, con rilevanti conseguenze sul piano sociale. Alcune di loro, però, operano in settori "maturi"; secondo Lei non sarebbe opportuno provvedere allo loro riconversione (ovvero alla cessione degli assets di valore) in altri settori produttivi , con ricollocazione della manodopera, piuttosto che finanziare, forse inutilmente, un piano di salvataggio di corto respiro? Anche in questo caso, la gravità della crisi potrebbe richiedere la costituzione di un Ente finanziato dallo Stato per la gestione di questi processi, nel tentativo di ottimizzare l'allocazione delle risorse pubbliche (alla stregua dell'IRI italiano del dopoguerra). Cosa ne pensa?
Gianni Leonio

Volevo una sua opinione in merito alla tanto nominata protezione dello stato. Io mi chiedo come sia possibile che lo stato possa farsi garante di tutto (sanità, pensioni, scuole, banche, industrie, cassa integrazione)? Dove potrà trovare tutte le risorse necessarie se i consumi calano e le aziende, producendo meno, pagheranno meno tasse e quindi lo stato avrà meno introiti?
Carlo Martinchich

Al professor Roubini, di cui sono un grande estimatore e spero in un prossimo incarico nella'amministrazione Obama, volevo chiedere quali ritiene i settori che saranno più colpiti.
Enrico Vaccari

Leggo spesso La Repubblica e ricordo quando questa estate il Prof. Roubini esortava la Bce al taglio dei tassi. Sarebbe cambiato qualcosa se si fosse intervenuti con tempo? Avremmo potuto almeno alleggerirne gli effetti?
Alessandro Tarola

Con tutta questa iniezione di liquidità nel sistema economico, soprattutto nel sistema bancario tutto ciò non creerà un'inflazione a doppia cifra nel prossimo futuro? Se è cosi', quando comincerà a crescere l'inflazione tra sei mesi un anno?
Carmine De Chiara

Ma dove mai troveranno i governi le risorse necessarie per finanziare gli imponenti interventi di salvataggio che sono stati messi in cantiere, prima in America e poi nel resto del mondo?
Francesco Colajanni

Risposta di Roubini
QUI c'è uno dei punti centrali dell'intera crisi. Naturalmente ci sono paesi più pronti a varare massicci interventi pubblici, e altri meno. Fra i primi c'è sicuramente l'America, per la sua facilità di accesso ai mercati internazionali del credito e anche perché quanto a debito pubblico c'è ancora margine di manovra: oggi è inferiore al 50% del Pil, dopo questa massiccia ondata di interventi si potrà arrivare al 60-65%, che è molto ma per un paese forte come gli Stati Uniti è ancora tollerabile e riassorbibile in un ragionevole numero di anni. Fra i paesi che invece incontrano dei limiti c'è l'Italia. Come dicevo, dovete considerare una grande fortuna far parte dell'euro, però bisogna misurarsi concretamente con i problemi. E a volte può diventare un problema un patto di stabilità così rigido e severo: ora, non sostengo che debba essere abolito, però dovrebbe essere interpretato con magg

(19 dicembre 2008)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Maggio 14, 2010, 11:02:41 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 29, 2008, 10:47:35 am »

29/12/2008
 
La bolla più grande della storia
 
NOURIEL ROUBINI
 

Il sistema finanziario del mondo ricco si sta dirigendo verso un crollo. Per la prima volta in settant’anni si è avuto paura di una corsa indiscriminata a ritirare i depositi dalle banche, mentre il sistema bancario «ombra» - agenti, prestatori di mutui non bancari, strumenti strutturati di investimento, hedge funds, fondi monetari di mercato e società di private equity - sta correndo rischi sulle sue passività a breve termine.

Dal lato dell’economia reale, tutte le economie avanzate - che rappresentano il 55 per cento del Prodotto interno lordo globale - erano entrate in recessione anche prima del pesante shock finanziario iniziato alla fine dell’estate 2008. Di conseguenza, ci troviamo oggi di fronte a una recessione, a una crisi finanziaria severa e a una profonda crisi bancaria nelle economie avanzate.

I mercati emergenti hanno inizialmente subito le conseguenze di questa crisi solo quando gli investitori stranieri hanno cominciato a ritirare i loro investimenti. Poi il panico si è diffuso sui mercati di credito, monetari e valutari.

Evidenziando così la vulnerabilità dei sistemi finanziari di molti Paesi in via di sviluppo e di settori aziendali che, di fronte all’espansione del credito, si sono indebitati a breve e in valute estere.

I più fragili sono stati i Paesi con un grande deficit di conto corrente e/o con un grande deficit fiscale e con forti debiti in valute estere a breve termine. Ma anche quelli con la migliore performance - come Brasile, Russia, India e Cina - sono adesso a rischio di un atterraggio brusco. Molti mercati emergenti stanno quindi rischiando una grave crisi finanziaria.

La crisi è stata causata dalla più grande bolla finanziaria e creditizia della storia, causata da un uso estremo della leva finanziaria. L’utilizzo della leva finanziaria e le bolle speculative non si sono limitati al mercato immobiliare americano, ma hanno caratterizzato il mercato immobiliare anche di altri Paesi. Inoltre, al di là del mercato immobiliare, in molti sistemi economici vi è stata un’eccessiva concessione di prestiti da parte di istituzioni finanziarie e di alcuni settori di impresa e della pubblica amministrazione. Il risultato è che ora stanno esplodendo contemporaneamente una bolla immobiliare, una bolla dei mutui ipotecari, una bolla del mercato azionario e obbligazionario, una bolla del credito, una bolla delle materie prime, una bolla del private equity e degli hedge fund.

L’illusione che la contrazione economica negli Stati Uniti e nelle altre economie avanzate sarebbe stata profonda ma breve - una recessione cioè di sei mesi a V - è stata sostituita dalla certezza che la crisi sarebbe stata una lunga e protratta recessione a U, che può durare almeno due anni negli Stati Uniti e si avvicina ai due anni in gran parte dei Paesi nel resto del mondo. In più, dato il rischio crescente di un collasso del sistema finanziario globale, non si può neppure escludere la prospettiva di una recessione a forma di L della durata di una decina d’anni: come quella vissuta dal Giappone dopo il collasso della sua bolla immobiliare e azionaria.

Docente di Economia presso la New York University e presidente di RGE Monitor
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 31, 2009, 10:56:51 am »

31/10/2009

Un mondo squilibrato non uscirà dalla crisi
   
NOURIEL ROUBINI


Gli squilibri macroeconomici internazionali sono al centro di tutti i dibattiti di questi mesi, peraltro senza che vengano prese iniziative forti per arrivare a una soluzione. Ben prima dell’inizio della crisi i dirigenti mondiali si erano ripromessi di mettere fine a questo paradosso. Rappresentanti europei e americani si erano accordati, durante una conferenza del Fmi nel 2007, per incoraggiare il risparmio domestico e limitare le spese, mentre i loro omologhi cinesi, tedeschi e giapponesi avevano promesso di aumentare i consumi nazionali. Questi progetti però sono rimasti illusioni: quando l’economia mondiale si è ammalata, i disequilibri non hanno aiutato.

Questa riflessione non è così evidente guardando le cifre attuali, perché la crisi finanziaria fa diminuire gli squilibri. I consumatori dei Paesi in deficit come Usa, Regno Unito, Spagna o i Paesi dell’Est hanno iniziato a risparmiare appena la crisi ha messo in evidenza i pericoli del loro livello di indebitamento. Al contrario, lo stimolo fiscale dei Paesi esportatori come la Cina ha contribuito a rinforzare un consumo domestico fino ad allora esitante.

Il ristabilimento dei conti correnti negli Stati Uniti è particolarmente importante. Da quando è aumentato il tasso di risparmio, il deficit americano è solo più il 2,8% del prodotto interno lordo, il livello più basso dal 2001. Questo abbassamento spettacolare in confronto al record del 6,6% del 2005 riflette principalmente la netta riduzione delle importazioni. La stessa logica si applica a economie meno solide nell’Europa dell’Est e soprattutto nei Paesi baltici: le fonti di finanziamento esterno su cui riposava la generosa copertura dei deficit negli anni fortunati si sono seccate e hanno messo questi Paesi nella condizione di stringere la cintura. Nei casi più drammatici di Ucraina e Kazakistan la crisi è all’origine delle svalutazioni monetarie che hanno fortemente rincarato il costo delle importazioni. D’altra parte chi vuole entrare nell’euro, come la Lettonia, ha cercato di mantenere bene o male stabile la propria moneta. L’aggiustamento necessario non si può effettuare, in questi casi, che abbassando drasticamente i consumi. Viste queste cose è grande la tentazione di concludere che il riequilibrio sarà automatico. Sarebbe un errore. Tutto sembra al contrario indicare che le correzioni sono temporanee e non sono che una traduzione di politiche pubbliche reattive nei Paesi esportatori e di un consumo più moderato nei Paesi più spendaccioni.

L’esempio dei Paesi esportatori di petrolio è, da questo punto di vista, esemplare: dopo aver largamente beneficiato della crescita dei prezzi del barile, hanno contribuito negli ultimi anni al processo di riequilibrio macroeconomico finanziando il loro consumo con un continuo aumento del ricorso al credito, come è successo in Russia, negli Emirati Arabi e in Kazakistan. Queste economie hanno a lungo prodotto dei tassi di investimento deboli in confronto a quelli di altri Paesi emergenti: oggi il loro pesante bisogno di infrastrutture è causa di una rivalutazione di questi tassi a livello domestico. I surplus di budget e gli investimenti che ne sono derivati hanno raggiunto il loro massimo nel 2007 e 2008. Senza un nuovo cambio dei prezzi del petrolio - che avrebbe verosimilmente come conseguenza quella di spegnere la domanda e quindi compromettere la ripresa - gli eccessi di bilancia corrente saranno magri nel 2010. Con un barile a 75 dollari nel 2010 le nuove dotazioni in capitale dei fondi del Golfo e delle banche centrali saranno minori che nel 2007 quando i prezzi erano in media 72 dollari al barile. In altri termini, il tempo delle spese pazze è terminato e, data l’instabilità attuale dei cambi, questi Paesi saranno tentati di costituire forti riserve interne per proteggere la moneta.

La Cina, il più dinamico Paese al mondo, da una decina d’anni è un caso di scuola. La mia collega Rachel Ziemba prevede una riduzione della bilancia corrente cinese che si stabilirà tra 350 e 370 miliardi di dollari in funzione dell’evoluzione delle importazioni, contro i 420 miliardi del 2008. Nel primo semestre il suo saldo positivo era minore di cento miliardi. Un saldo commerciale di circa 30 miliardi di dollari si attende per il terzo trimestre. Un aumento delle spese domestiche a svantaggio del risparmio potrebbe ridurre ancora questo eccesso.

Nonostante siano in difficoltà per la crisi, molti Paesi persistono a promuovere un modello di crescita costruito sull’esportazione. Il ristoccaggio e la costruzione di nuovi inventari hanno potentemente aiutato la ripresa in Asia. La stabilità artificiale dei cambi non farà che esacerbare questa tendenza, accentuando l’accumulo di riserve e le distorsioni che ne derivano. Le previsioni più recenti del Fmi suggeriscono che gli squilibri potrebbero di nuovo aggravarsi, pur restando più bassi che nel 2006. Il loro volume in dollari peraltro potrebbe restare notevole.

Quale fattore si sostituirà dunque, nel gioco degli scambi, al deficit degli Stati Uniti? Il Fmi vede una possibile diffusione degli squilibri: gli eccessi giapponesi e tedeschi continueranno a diminuire, mentre Canada e Brasile compenseranno con i loro deficit gli eccessi cinesi. In termini aggregati, comunque, le stime a cinque anni dell’istituto di Washington anticipano una crescita degli eccessi a livello mondiale, il che potrà significare che i livelli previsti delle esportazioni sono incompatibili con le ipotesi di crescita.

La questione degli squilibri macroeconomici è stata rimessa all’ordine del giorno quando il G20 ha deciso di istituire un esame delle politiche pubbliche condotte dai suoi membri per evitare una nuova crisi. Il piano non è ancora definito che nelle grandi linee, ma insiste sul carattere imperativo di un abbassamento del consumo (a vantaggio del risparmio) negli Usa e sulla riallocazione degli investimenti consacrati all’esportazione in Cina, Giappone e Germania.

Questi obiettivi sono perfettamente legittimi. Ma c’è da temere che un comunicato emesso da un’organizzazione internazionale nascente non sia il trattamento miracoloso di cui l’economia mondiale ha bisogno. E’ l’estensione dei poteri del Fmi che permetterà di raggiungere questi difficili obiettivi politici ed economici. Gli squilibri vanno di pari passo con una cattiva collocazione del capitale all’interno delle economie il che, su scala planetaria, aumenta considerevolmente il rischio di future crisi finanziarie e la creazione di bolle speculative. Se non sono la prima causa della crisi attuale vi hanno certamente contribuito. Il denaro facile e la debolezza dei tassi di interesse hanno incitato gli investitori a comprare azioni apparentemente sicure e redditizie. La riduzione degli squilibri rischia di pesare sulla ripresa mondiale: ma resta fondamentale per ristabilire nel mondo un regime di crescita durevole.

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« Risposta #3 inserito:: Maggio 03, 2010, 06:37:32 pm »

29 Aprile 2010

Roubini: «Salvare la Grecia è uno spreco di risorse pubbliche»

di Daniela Roveda

LOS ANGELES - «Salvare la Grecia è uno spreco di risorse pubbliche». Parola di Nouriel Roubini, l'economista della New York University divenuto famoso nel mondo per aver correttamente anticipato lo scoppio della bolla immobiliare e il collasso di Wall Street. Secondo Roubini quello della Grecia non è un problema di liquidità ma di insolvenza, e la cura proposta dall'Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale non potrà che rimandare nella migliore delle ipotesi il problema, con il rischio aggiuntivo di un contagio agli altri paesi deboli della Ue, prima di tutto Spagna e Portogallo, ma anche Italia e Irlanda. La probabilità di una rottura dell'unione monetaria sta crescendo rapidamente, dice. E sta crescendo anche la probabilità che la Grecia si trasformi in un'altra Argentina.

Il problema della Grecia non è solo un livello insostenibile del debito pubblico e del deficit corrente, sostiene Roubini, ma anche e soprattutto una forte perdita di competitività internazionale. In assenza delle riforme strutturali necessarie per ottenere la convergenza fiscale dei paesi dell'Unione, la Grecia ha consentito che i salari salissero negli ultimi dieci anni molto più rapidamente della produttività, e il risultato è stato un rapido e preoccupante aumento del deficit delle partite correnti, giunto ormai al 10% del Pil.

«Anche se la Grecia riuscisse ad abbassare il deficit pubblico dall'attuale 13,6% al 3% del Pil nel giro di tre anni, una condizione inclusa nel piano di salvataggio della Ue e dell'Fmi, la questione della competitività resterebbe irrisolta», ha detto Roubini, arrivato ieri a Los Angeles per partecipare alla conferenza annuale del Milken Institute. «Per affrontarlo seriamente occorre un periodo di deflazione (salari e prezzi in discesa) che potrebbe durare cinque anni, un'opzione politicamente inaccettabile. Insomma una "mission impossible"». Se la Ue e l'Fmi continuano a trattare il problema della Grecia come un problema di illiquidità anziché di insolvenza, la Grecia è condannata a fare la fine dell'Argentina, dove il tentativo di salvataggio nel 1998 è fallito e il paese ha dovuto dichiarare l'insolvenza dopo quattro anni di caos.

Qual è quindi l'alternativa? «Impiegare le risorse pubbliche per ristrutturare il debito greco e pilotare la sua uscita dall'unione europea». E utilizzare parte delle risorse per affrontare l'imminente problema del Portogallo e soprattutto della Spagna, una cui crisi potrebbe avere ripercussioni molto, molto più gravi sul futuro della zona euro. «A mio avviso è solo una questione di settimane se non di giorni prima che scoppi il caso Spagna, basta guardare all'aumento dello spread tra i tassi sul debito spagnolo e tedesco», prevede Roubini, che peraltro al momento dell'intervista ancora non sapeva del taglio del rating sul debito spagnolo da parte di Standard & Poor's. Anche se lo stato delle finanze pubbliche è migliore che in Grecia, la Spagna ha vari problemi aggiuntivi: un tasso di disoccupazione del 20%, una bolla immobiliare scoppiata di recente con gravi ripercussioni sul sistema bancario e sull'economia reale, e una perdita di competitività ancor più pronunciata. A differenza della Grecia, il cui Pil è solo il 3% del totale europeo, la Spagna è una della quattro maggiori economie della Ue, e il contagio al resto dell'unione potrebbe essere insanabile.
Non c'è quindi alcuna speranza di salvare la Grecia? «L'unica speranza sarebbe una politica monetaria più espansiva da parte della Banca Centrale Europea per favorire un deprezzamento dell'euro a 1,2, 1,1 o addirittura alla parità con il dollaro, e una politica fiscale espansiva in Germania per compensare le pressioni deflazionistiche in Grecia e nei paesi costretti all'austerità fiscale». Solo così si può evitare il disastro.

29 Aprile 2010

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Editrice/IlSole24Ore/2010/04/29/Economia%20e%20Lavoro/3_B.shtml?uuid=f71eb54a-5351-11df-aa0b-e7dd342ffe1a&DocRulesView=Libero
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 14, 2010, 11:03:09 pm »

14/5/2010 - CRISI GLOBALE

Il dollaro e un primato a rischio
   
NOURIEL ROUBINI

Esce oggi “La crisi non è finita” di Nouriel Roubini e Stephen Mihm, Feltrinelli editore, 399 pagine, 19 euro. Ne pubblichiamo un estratto in esclusiva: i due economisti tratteggiano il futuro.

Finora abbiamo percepito soltanto qualche lieve tremore. La crisi finanziaria ha danneggiato alcune economie avanzate, suscitando dubbi sull’affidabilità creditizia a lungo termine di paesi come la Grecia, l’Irlanda, l’Italia, il Portogallo, la Spagna e persino il Regno Unito. Questi tremori faranno vacillare l’economia globale, ma sono poca cosa rispetto alla madre di tutti i terremoti: un declino brusco e tumultuoso del dollaro. (...)

Si pone l’inquietante possibilità che la supremazia del dollaro abbia ormai gli anni – e non i decenni – contati.

È difficile immaginare come potrebbe svolgersi un declino così brusco e tumultuoso. In passato le valute avevano qualche relazione con l’oro o l’argento; questo legame è stato spezzato del tutto soltanto negli Anni Settanta. Oggi il sistema monetario internazionale poggia su una valuta a corso forzoso: una valuta che non ha valore intrinseco e non è sostenuta da metalli preziosi, e il cui valore non è fissato in alcun modo.

In un certo senso il dollaro occupa attualmente il ruolo ricoperto a suo tempo dall’oro; un suo crollo avrebbe oggi lo stesso effetto che si sarebbe prodotto se i reggenti e i banchieri dei secoli passati, nell’aprire i forzieri, avessero scoperto che le loro preziose monete si erano trasformate in polvere. Un tale scenario potrebbe un giorno realizzarsi se gli Stati Uniti continueranno a generare disavanzi esplosivi. La Cina probabilmente continuerà ad acquistare il debito Usa, ma altri Paesi più piccoli potrebbero cominciare a muoversi lentamente verso l’uscita. Questo potrebbe provocare un fuggi fuggi generale al quale neppure la Cina potrebbe sottrarsi. Quali che siano i vantaggi dell’attuale sistema per quest’ultima, a un certo punto i costi potrebbero superare i benefici.

Gli Stati Uniti si trovano a un bivio. Se non rimettono ordine nei conti pubblici e non aumentano i risparmi privati, la probabilità di un evento sismico di questa portata non potrà che aumentare. È fin troppo facile immaginare uno scenario in cui questo potrebbe verificarsi, particolarmente se nei prossimi anni si arrivasse a una situazione di stallo politico. I repubblicani metterebbero il veto a un aumento delle imposte, i democratici si opporrebbero ai tagli della spesa. La monetizzazione del deficit, ottenuta stampando moneta, diverrebbe la via di minor resistenza. L’inflazione così generata avrebbe l’effetto di erodere il valore del debito pubblico e privato detenuto nel mondo.

Gravati da questa «imposta da inflazione», gli investitori di tutto il mondo sarebbero portati a disfarsi dei dollari e ad acquistare la valuta di un Paese con una migliore reputazione di responsabilità fiscale. Se ciò accadesse, gli Stati Uniti ne pagherebbero le conseguenze. Finora siamo riusciti a emettere debito nella nostra valuta anziché in quella di altri Paesi, trasferendo sui nostri creditori il costo di una perdita di valore del dollaro. Se altri Paesi ci negassero improvvisamente questo «esorbitante privilegio» l’onere ricadrebbe su di noi e i costi dell’indebitamento aumenterebbero bruscamente, trascinando in basso il consumo, l’investimento e, in ultima analisi, la crescita economica. I prezzi di tutte le importazioni – dai giocattoli di plastica da due soldi provenienti dalla Cina ai barili di petrolio dell’Arabia Saudita – aumenterebbero, pregiudicando uno stile di vita che gli americani considerano ormai un diritto di nascita. In questo processo il dollaro diventerebbe soltanto un’altra valuta tra tante. (...)

Per superare le sfide che ci attendono sarà necessario un livello di cooperazione internazionale che in anni recenti è stato palesemente assente. Resta da vedere se le maggiori economie mondiali vorranno cooperare per il bene comune. Se gli Stati Uniti e la Cina resteranno concentrati sui propri interessi nazionali a breve termine, gli squilibri mondiali continueranno ad aggravarsi, e un sistema monetario internazionale già fragile potrebbe cedere sotto il peso delle tensioni e degli stress accumulati. In verità, l’esperienza storica parrebbe suggerire che stiamo vivendo un momento particolarmente vulnerabile nella storia finanziaria. In passato le crisi bancarie come quella che abbiamo appena vissuto sono state spesso il preludio di un’ondata di inadempienze sul debito sovrano e di crolli valutari. Le economie danneggiate dagli effetti dello scoppio delle bolle speculative e dalle conseguenti crisi bancarie potrebbero continuare a trascinarsi ancora per qualche tempo, ma molte finiranno per cedere, vittime delle ferite accumulate. Se gli squilibri di conto corrente che hanno preceduto la crisi recente continueranno a crescere a dismisura, tale eventualità sarà particolarmente probabile; e se la situazione dovesse precipitare, quanto accaduto in Islanda non sarebbe che un assaggio del destino che attende il mondo intero.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione in “Serie Bianca” maggio 2010
Traduzione dall’inglese di Adele Olivieri
Published by arrangement with Berla & Griffini Literary Agency

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7349&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 05, 2010, 05:19:59 pm »

FESTIVAL DELL'ECONOMIA

Roubini: "L'Europa può farcela solo insieme L'Italia non è a rischio, ma deve favorire la crescita"

L'economista che aveva previsto la crisi esclude che l'euro possa sopravvivere con due Europe, una forte e una debole.

E per il nostro Paese, sì all'austerità dei conti pubblici e ai tagli della spesa improduttiva, ma bisogna anche uscire da dieci anni di stagnazione e incrementare la produttività

dal nostro inviato ROSARIA AMATO


TRENTO - L'Europa e l'Eurozona in particolare devono uscire insieme dalla crisi, non c'è posto per un''Europa del Sud' e un''Europa del Nord', ma per farlo devono avviare politiche economiche coordinate. La Germania, che può permetterselo, deve immettere nel sistema stimoli per favorire la crescita e i consumi, insomma deve assumersi in pieno il ruolo di 'locomotiva' che i dati e gli economisti le attribuiscono, mentre Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda devono agire sul deficit e sul debito. L'Italia deve coordinare un taglio della spesa pubblica nel breve termine che riduca il debito con misure che a medio lungo termine facciano decollare la ripresa non tanto dalla crisi ma "da un decennio di crescita economica anemica". E' la ricetta di Nouriel Roubini, l'economista che meglio aveva previsto la genesi della crisi, professore di Economia e Business Internazionale alla New York University, in passato consulente della Casa Bianca.

La fine della crisi è stata annunciata a più riprese, ma le cose stanno davvero così? Ne stiamo venendo fuori?
"L'Italia ha sicuramente agganciato la ripresa, ma si tratta ancora di una ripresa fragile, anche perché nel frattempo è intervenuta la questione della Grecia, forse una situazione analoga potrebbe emergere in Portogallo. Tuttavia l'Italia non è esposta al rischio default, la sua situazione è diversa perché il deficit è rimasto piuttosto basso in confronto ad altri Paesi europei, anche grazie ad opportune politiche di bilancio. Il debito pubblico è però molto alto, e nel breve corretto è sicuramente corretto tagliare la spesa pubblica, soprattutto quella improduttiva. In questo senso è stata anche un bene la riforma delle pensioni. Ha agito nella giusta direzione anche la Banca d'Italia, che non ha permesso il dilagare di prestiti facili che ci sono stati in altri Paesi. Però l'Italia viene da un lungo periodo di stagnazione, dieci anni di crescita anemica, per cui bisogna agire anche su questo. Occorre incrementare la produttività, rendere il mercato del lavoro più flessibile. Non basta però agire in Italia, occorre una politica coordinata a livello europeo".

Che tipo di politica?
"Diversa a seconda del Paese, ma convergente verso un obiettivo unico, quello della ripresa e del rafforzamento dell'euro. Ci sono Paesi che hanno gravi squilibri di bilancio, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna, in qualche misura anche l'Italia che però non è in una situazione di rischio. Ebbene, questi Paesi devono agire subito con politiche economiche di austerità, devono riportare i conti pubblici in ordine. Mentre la Germainia deve invece agire a sostegno della domanda, incrementare i salari, favorire la crescita".

Ma una Germania che cresce più veloce non rischia di aggravare gli squilibri all'interno dell'Eurozona?
"No, occorre un maggiore coordinamento delle politiche economiche, ma a differenti problemi bisogna dare risposte differenti, e non solo a livello europeo, a livello globale. Anche Paesi come il Giappone e la Cina dovrebbero agire come la Germania, con stimoli che facciano crescere la domanda".

Quindi il risultato al quale bisogna tendere è un'Europa e un euro unico, la soluzione non è quella dell'euro a due velocità?
"Questa è la vera prima crisi dell'euro, e sono emersi i problemi legati alla moneta unica. Io però non credo che la soluzione sia una divisione in un'Europa 'forte' del Nord e un'Europa 'debole' del Sud, è un'ipotesi che non ha senso né dal punto di vista economico né sociale o politico. Se l'euro sopravviverà, sopravviverà come moneta unica per tutta l'area".

In Paesi come l'Italia che si trovano nella necessità di tagliare la spesa pubblica ma anche di introdurre misure che favoriscano la ripresa, misure di eccessiva austerità non rischiano, come è stato detto per la manovra economica appena varata dal governo, di deprimere ancora di più la domanda e la crescita?
"L'austerità è necessaria se il deficit è troppo ampio, altrimenti si rischia il default. E comunque ci sono anche in Italia ampi margini di riduzione della spesa pubblica improduttiva. Il welfare state europeo non è sostenibile: certo anche l'assenza di welfare state crea dei problemi, come avviene in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, ma Paesi come la Francia e l'Italia sono stati ugualmente colpiti dalla crisi, la disoccupazione è dilagata comunque".

In Italia c'è un'evasione fiscale altissima. Quanto politiche adeguate alla sua riduzione potrebbero contribuire alla ripresa?
"Certo è uno dei pezzi della soluzione dei problemi italiani: bisognerebbe allargare la base imponibile effettiva, non gravare di tasse soltanto i lavoratori dipendenti, quindi così si favorirebbero maggiori entrate ma si potrebbero anche ridurre le aliquote per imprese e lavoratori. Però non basta, occorre altro per rilanciare il Paese".
 

© Riproduzione riservata (05 giugno 2010)
http://www.repubblica.it/economia/2010/06/05/news/intervista_nouriel_roubini-4595685/?ref=HREC1-2
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« Risposta #6 inserito:: Giugno 06, 2010, 09:50:27 am »

Intervista a Roubini: «Euro verso la parità con il dollaro nel 2011. Vedo rischi di una nuova recessione globale»

dall'inviato Giuseppe Chiellino 5 giugno 2010

   

TRENTO - «Nel corso del prossimo anno l'euro andrà verso la parità nei confronti del dollaro, se non ancora più in basso. I fondamentali delle due economie giustificano questa debolezza. Se questo processo avverrà in maniera graduale non è una cosa di cui preoccuparsi, anzi sarà un beneficio per l'economia della zona euro»

La previsione è di Nouriel Roubini, l'economista della New York University, tra i primi ad aver previsto la grande crisi del 2008-2009. Roubini parlerà domenica al Festival dell'Economia di Trento proprio di come si evolverà la crisi economica mondiale, ma oggi in un incontro con alcuni giornalisti ha affrontato gli aspetti più caldi dell'attuale fase economica, dalla debolezza dell'euro alle politiche necessarie per rilanciare la crescita.

C'è chi ritiene che se i paesi della zona euro non riusciranno a fare un salto di qualità nell'integrazione politica, anche l'unione monetaria è destinata a fallire. Lei cosa pensa?
«L'euro potrà sopravvivere se le istituizoni comunitarie e gli stati membri saranno in grado non solo di ridurre deficit ormai insostenibili, ma anche di far ripartire la crescita. L'austerità è solo uno degli strumenti per affrontare la crisi. La vera sfida è la crescita. Se non c'è crescita economica non si evita la recessione e non si evita il disastro economico e finanziario. Quindi non basta discutere di austerità fiscale ma occorre parlare delle misure per rilanciare l'economia reale. Questa è la sfida. Se queste cose, per quanto difficili, saranno realizzate l'unione monetaria potrà sopravvivere, se non saranno fatte l'unione monetaria può saltare».

Come si può stimolare la crescita?
«Serve una politica monetaria della Bce non rigida; serve un euro debole; la Germania dovrà stimolare la domanda interna con stimoli fiscali che aumentino il reddito disponibile; al contrario i paesi che non hanno i conti pubblici in equilibrio, parlo della Grecia, del Portogallo, della Spagna, dell'Italia, dell'Irlanda ma anche la Francia ha un deficit che diventa sempre più ampio, dovranno attuare una politica di austerità per ridurre i deficit pubblici o, nel caso dell'Italia, riportare il debito che oggi supera il 115% del Pil, a livelli sostenibili».

E la Grecia?
«La Grecia deve ristrutturare il proprio debito e attuare politiche opposte a quelle tedesche, riducendo i salari e aumentando la competitività».

Anche per l'Italia potrebbe porsi il problema della ristrutturazione del debito?
«No. Non ora. L'Italia deve attuare una politica di austerità con i tagli fiscali e riforme strutturali che rendano più flessibile l'economia per stimolare la crescita».

Torniamo all'euro. È in mezzo al guado. Cosa serve alla zona euro?
«In Europa c'è bisogno di un maggiore coordinamento nelle politiche, ma non può essere la Germania che impone agli altri Paesi l'austerità fiscale. L'austerità è necessaria, in Paesi dove ci sono difficoltà di deficit e debito, ma dall'altra parte sono necessarie politiche che stimolino la crescita per evitare recessione e deflazione. La Germania, dove il rapporto tra deficit e Pil l'anno scorso è stato solo del 3%, ha dei margini per aumentare la spesa e sostenere la domanda nell'eurozona. Con l'euro che cade, l'industria tedesca che era già competitiva è ora ancora più competitiva, e con l'euro debole lo sarà ancora di più. Quindi la Germania può permettersi un leggero aumento dei salari, per stimolare non solo l'export, ma anche la domanda interna di beni tedeschi e di beni dell'Eurozona. Berlino deve lanciare un piano di stimolo fiscale, incrementare i salari netti e la Bce non deve preoccuparsi dell'inflazione - perché il rischio è semmai di una deflazione – e allentare la politica monetaria, sia intervenendo sui tassi, sia con metodi non convenzionali, per stimolare la crescita, accompagnare il calo dell'euro. Ogni attore nell'area euro deve svolgere il suo ruolo, il che implica un maggiore coordinamento, ma non il fatto che tutti diventino come la Germania. Ogni Paese, con le sue specificità, con i suoi problemi specifici, con le sue politiche, deve fare la sua parte».

E a livello globale?
«Questo deve avvenire anche a livello globale: i Paesi che spendono di più, sia a livello pubblico sia a livello privato, come Stati Uniti, Gran Bretagna o alcune nazioni d'Europa, devono spendere di meno; quelli che finora hanno risparmiato, come la Germania, il Giappone, Cina, debbono spendere di più. Tutto va coordinato a livello europeo e di G 20».
È ipotizzabile un euro a doppia velocità, una moneta unica soft per i paesi del Sud e una più forte per i paesi del nord Europa?
«Non credo che sia un'ipotesi praticabile dal punto di vista economico né dal punto di vista politico. Ciò che serve all'eurozona è ridurre gli squilibri al proprio interno, quindi la Grecia deve sanare i conti e ridurre gli stipendi, mentre la Germania che ha i conti a posto, deve stimolare la domanda interna aumentando le retribizioni. Gli altri devono sanare i deficit».

Secondo lei a che punto siamo della crisi? Sta finendo o vede altri rischi?
«C'è una crescita anemica, guidata dall'export più che dai consumi. E' il momento per l'Italia, come per gli altri membri dell'eurozona, di aumentare la produttività, di rendere l'economia più competitiva, più flessibile. Perché vedo in Europa un rischio di ricaduta, sono preoccupato per la situazione di bilancio di alcuni Paesi, come Portogallo e Grecia, vedo il rischio di un allargamento del contagio finanziario, vedo il rischio di una doppia W, ossia di una nuova recessione. E anche il quadro globale non è buono: la crescita è debole anche negli Stati Uniti e i dati sulla disoccupazione di venerdì sono pessimi; il Giappone cresce poco ed è in deflazione; ci sono anche indicazioni che la Cina stia rallentando. Così ognuno deve fare la sua parte per evitare una nuova recessione globale. Ci sono molte sfide di politica economica e fiscale da affrontare».

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da ilsole24ore.com
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 23, 2012, 04:46:02 pm »

23/8/2012

Se cade l'euro, Unione europea al collasso

NOURIEL ROUBINI*, NICOLAS BERGGRUEN*, MOHAMED A. EL-ERIAN*

In teoria, i più concordano che il progetto d’integrazione della zona euro valga la pena di essere salvaguardato. Eppure, negli ultimi due anni in occasione di ogni decisione importante durante l’euro-crisi l’impegno dei politici è apparso troppo parziale e troppo condizionato. Più a lungo la zona euro rimane in una terra di nessuno con la periferia che accumula ulteriore debito a tassi di interesse elevati solo per guadagnare tempo, più costosi e dolorosi saranno i futuri aggiustamenti e maggiori i rischi di crollo. Questo è ormai così evidente che alcune voci rispettabili all’interno dell’opinione maggioritaria stanno ormai giungendo alla conclusione che, già ora, la zona euro potrebbe non essere più sostenibile e, quindi, sarebbe meglio dividersi adesso invece che più tardi, quando i costi potrebbero essere molto più alti. Ma questo punto di vista si spinge troppo oltre.

Cerchiamo di non lasciare dubbi: se la zona euro va a pezzi cade anche l’Europa e possono crollare anche il mercato unico e l’Unione europea. Quindi, se si crede nella sostenibilità della zona euro, non c’è assolutamente più tempo da perdere. Per i leader europei l’unica alternativa alla disfatta dell’euro nei prossimi mesi sta nel trovare la volontà politica per passare rapidamente a una maggiore integrazione - a partire da una tabella di marcia molto più chiara e perseguibile verso l’unione bancaria e fiscale che fermi e inverta la balcanizzazione delle banche e dei mercati del debito pubblico; un’unione economica che ripristini la crescita e la competitività, e un’unione politica che dia legittimità democratica al trasferimento di grandi parti della sovranità fiscale, bancaria ed economica al centro dell’Ue. E tutto questo può essere possibile - anzi auspicabile - solo se preceduto da un rinnovamento dell’appartenenza alla zona euro in modo che sia più in linea con le realtà attuali e con le verosimili prospettive.

La frammentazione dell’eurozona - che definiamo come il ritorno alle monete nazionali di una parte significativa degli attuali 17 membri della zona euro, e in particolare di uno o più dei quattro grandi (Germania, Francia, Italia e Spagna) - sarebbe così destabilizzante e caotica che l’Europa si troverebbe ad affrontare un decennio perduto. Oltre a distruggere la zona euro, la più grande, ovvero i 27 membri dell’Unione europea, sarebbe messa a dura prova. Nel breve periodo, per l’Europa la frammentazione sarebbe l’equivalente economico e finanziario di un arresto cardiaco. I flussi transfrontalieri di merci, servizi e capitali si interromperebbero perché le preoccupazioni per la definizione della valuta sopraffarebbero il normale calcolo di valutazione. Grandi disallineamenti valutari alimenterebbero lo stress finanziario delle aziende e darebbero luogo a molteplici inadempimenti. La disoccupazione s’impennerebbe. E la prestazione di servizi finanziari di base, dal settore bancario alle assicurazioni, sarebbe ridotta con un’alta probabilità di corse agli sportelli nei Paesi membri più vulnerabili della zona euro.

Proliferebbero i controlli – dal momento che le economie deboli cercherebbero di limitare l’aumento dei deflussi di capitali e le economie forti resisterebbero ad afflussi eccessivi. Nel processo sarebbe compromesso il funzionamento stesso del mercato comune che è alla base del progetto d’integrazione europea. La balcanizzazione delle banche, dei mercati finanziari e dei mercati del debito pubblico che è già in corso sarebbe seguita dalla balcanizzazione degli scambi di beni, servizi, lavoro e capitale, e da un ritorno al protezionismo commerciale e finanziario. I Paesi provati ormai da diversi anni dalla gestione delle crisi hanno pochi o anche nessun ammortizzatore in grado di assorbire nuovi colpi. Di conseguenza, gli sconvolgimenti economici e finanziari probabilmente alimenterebbero tensioni sociali e disfunzioni politiche – minando ulteriormente il sostegno nazionale per l’integrazione europea. Ma se il peso della catastrofe sarebbe sentito principalmente dalle economie deboli (già periferiche), anche i Paesi più forti (quelli che erano il nucleo) subirebbero un notevole contraccolpo.

Vediamo caso per caso. Nel tornare alle loro monete nazionali, le economie più deboli della zona euro riprenderebbero il controllo di una serie più ampia di strumenti politici. Avrebbero così maggiori mezzi per perseguire i vantaggi competitivi che sono essenziali per il ripristino delle dinamiche di crescita e la creazione di posti di lavoro. Ma farlo in modo efficace richiederebbe la gestione sapiente di una svalutazione delle principali valute. Essi si troverebbero anche a contrastare forti pressioni inflazionistiche e costi più elevati delle importazioni, canali di trasmissione monetaria e bancaria interrotti, e maggiori premi di rischio. E con tutta l’Europa disconnessa, scoprirebbero che i vantaggi nei prezzi ottenuti tramite la svalutazione rischiano di essere erosi da un crollo della domanda regionale. Inoltre, dati i disallineamenti valutari, un ritorno su vasta scala alle monete nazionali comporterebbe una serie d’inadempienze. Insieme ad alcune ristrutturazioni coercitive e a una conversione forzata di posizioni in euro nelle nuove e deprezzate monete nazionali.

I temi della domanda regionale e del default sono importanti anche per le economie più forti. Nonostante i progressi fatti nella diversificazione del commercio, tra cui un maggiore riorientamento verso i Paesi emergenti, quantità significative delle loro esportazioni sono ancora vendute in Europa. Questo crollo del mercato arriverebbe al colmo delle perdite a causa della rapida erosione dei crediti finanziari verso le economie più deboli insolventi per i loro debiti in euro, sia direttamente sia tramite la probabile necessità di ricapitalizzare le istituzioni regionali. La ristrutturazione del debitore, e il default certo, potrebbero compromettere i bilanci delle istituzioni creditrici, aumentando il loro proprio debito (perché avranno le stesse attività, ma una maggiore passività) e il costo del capitale. E sarebbe a rischio anche il rating AAA della Germania e di altri membri fondanti della zona euro. Vi è poi il resto del mondo. L’Europa è ancora la più grande area economica del globo, e la più interconnessa da un punto di vista finanziario. Come tale, il suo crollo sarebbe inevitabilmente trasmesso al resto del mondo. E con gli Stati Uniti che stanno già lottando per mantenere una crescita economica significativa e creare posti di lavoro, potrebbe concretizzarsi una recessione globale.

Tutto questo spiega, naturalmente, il motivo per cui le narrazioni politiche hanno ripetutamente cercato di escludere una frammentazione della zona euro; e anche perché i leader di altri Paesi hanno messo sotto pressione i loro omologhi europei per affrontare la crisi regionale in modo più deciso e olistico. Ma le parole e le moral suasion sono gravemente insufficienti per fermare le forze di frammentazione liberate da gravi difetti di progettazione e alimentate da anni di risposte politiche tattiche piuttosto che strategiche, sequenziali e non simultanee, e parziali e non complete. Solo comprendendo l’enormità dei rischi che corrono, i leader europei hanno una possibilità di superare le persistenti tensioni interne e convergere su una risposta che possa mutare le regole del gioco.

E solo allora sarebbero in grado di convincere una cittadinanza scettica della necessità di adottare misure realmente senza precedenti - innanzitutto riformare la zona euro in un’unione più coerente, più piccola, meno imperfetta e strutturata e gestita in modo più saldo; in secondo luogo garantire che questa Eurozona riformulata possa andare avanti nel creare crescita e posti di lavoro; e, terzo, salvaguardare il funzionamento più ampio dell’Unione europea. Dopo troppi anni di battibecchi e litigi, i leader europei non hanno più a disposizione una soluzione chiara, relativamente gratuita e altamente certa per la crisi regionale.

Quello che hanno è un po’ di tempo - anche se non molto - per tentare di difendere l’integrità del progetto d’integrazione regionale, adottando subito misure coraggiose, a partire da un’unione economica, fiscale e bancaria, fino all’unione politica. Sì, il risultato è tutt’altro garantito e, inevitabilmente, ci sarebbero immediate defezioni. Ma tutto questo impallidisce in confronto alla catastrofe che l’Europa e il mondo subirebbero se si continua con un approccio che rimane troppo limitato e troppo a corto raggio.

La Germania e i Paesi chiave devono decidere con coraggio se credono che la zona euro possa sopravvivere e in quale formato. Se la risposta è sì, allora la ricerca di un’unione meno imperfetta dovrebbe essere corredata di massicci finanziamenti ufficiali, sia fiscali sia dalla Bce, alla periferia per lenire il doloroso adattamento attraverso l’austerità, le riforme e la svalutazione interna. Se, invece, si dovesse decidere che la zona euro non è vitale, come invece è e che un’unione più piccola non è realizzabile, i costi di un crollo futuro e disordinato sarebbero molto più alti di una rottura immediata. Quello che non dovrebbe ad alcun costo accadere è che la zona euro rimanga com’è ora nel mezzo del guado.

* Nouriel Roubini, economista, professore alla Stern School della New York University
* Nicolas Berggruen è presidente del Consiglio sul futuro dell’Europa
* Mohamed A. El-Erian è Ceo di Pimco, la società globale di gestione degli investimenti

[Traduzione di Carla Reschia]

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10453
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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 15, 2013, 12:19:36 am »

Roubini: allarme rientrato per Roma e Madrid

Decisivo il risultato delle elezioni italiane

Intervista al guru della New York University. "Non mi stupisce la discesa dello spread. Vanno ringraziate le banche centrali".

"Una convincente vittoria del centrosinistra e poi un'alleanza con Monti darebbe fiducia ai mercati"

di EUGENIO OCCORSIO


ROMA - "Non mi stupisce la discesa dello spread, ricolloca i rapporti fra i Paesi in un più realistico equilibrio. Ma l'Italia potrà fare ancora meglio. Certo, tutto dipende a questo punto dall'esito delle elezioni". Nouriel Roubini, il guru della New York University, l'esegeta di ogni fase di questa lunghissima crisi, segue con crescente passione le vicende italiane: "Se posso fare insieme un auspicio e una previsione, ci vorrebbe una convincente vittoria del centrosinistra e poi un'alleanza con Monti. La stabilità conseguita darebbe fiducia ai mercati e permetterebbe di continuare il cammino verso il risanamento".

Sul piano interno l'Italia resta in gravissima difficoltà. A cosa si deve quest'insperato miglioramento del clima?
"Dovete tutti ringraziare Mario Draghi. O meglio, dovete ringraziare questo comune sentire delle banche centrali di tutto il mondo, a partire dalla Fed. Sull'impronta di Bernanke, le banche centrali giapponese, inglese, svizzera e ora anche europea, hanno tutte imbracciato la filosofia del quantitative easing. La decisione di Francoforte di intervenire senza limitazioni sui titoli degli Stati in difficoltà è una variante di quest'approccio. Ed è stata decisiva. Però c'è anche da dire che l'Italia, così come gli altri Paesi in difficoltà, ha fatto buona parte di quanto doveva".

Dobbiamo aspettarci una fase di sospensione della fiducia in vista delle elezioni?
"Non necessariamente. La speculazione, proprio perché stoppata dalla Bce, resta ferma. Il quadro mondiale ed europeo è sensibilmente migliorato, con un'incrementata liquidità. La sensazione internazionale del rischio associato con Paesi come Italia o Spagna è diminuita in modo marcato. I prossimi sviluppi per l'Italia dipendono da tre elementi: 1) se l'andamento della liquidità internazionale si manterrà confortante; 2) se la crisi dell'economia reale e dei consumi ha raggiunto il fondo come appare possibile; 3) come andranno le elezioni".

Il fattore-Monti è decisivo?
"Diciamo che rappresenta un asset a livello internazionale che sarebbe un peccato non giocarsi. Nessuno crede alle ripicche incrociate col Pd. Se vorranno, potranno benissimo fare un accordo post-elettorale che lo veda ministro dell'Economia o in qualche altra posizione chiave".

Monti però finora ha garantito solo la stabilità monetaria. E il recupero economico? Draghi ha detto che verso la fine del 2013 finirà finalmente la recessione.

"Non sono del tutto sicuro che sia quello il momento o non si debba attendere l'inizio del prossimo anno. In ogni caso per tutto il 2014 la crescita in Italia si manterrà sotto l'1%. La ripresa sarà molto lenta, e dipenderà ora più che mai dal contesto europeo. Non dimentichiamo che l'attuale rasserenamento deriva in buona parte, oltre che dalla Bce, dal fatto che la Germania ha deciso finalmente di tenere la Grecia dentro l'euro. Ma vi ricordate quando i ministri tedeschi pubblicamente sostenevano che Atene doveva uscire dalla moneta unica? Niente più di tutto questo. Si sono accorti che una fine disordinata avrebbe significato un disastro per tutti. Atene è addirittura tornata sui mercati, mentre vi ha fatto il suo debutto l'Esm. Tutti fattori estremamente positivi, e il riflesso è lo spread dell'Italia a 250. Ora la Germania dovrebbe fare un passo in più e varare qualche misura espansionistica paneuropea utilizzando il surplus valutario che, ormai quasi unica, detiene. Sarebbe un ulteriore segnale positivo che potrebbe dare la Merkel prima delle elezioni, per marcare con chiarezza il punto che la Germania non punta alla dissoluzione dell'euro. E da voi, Berlusconi dovrebbe stare più attento alle sue affermazioni contro l'euro e Bruxelles per non guastare questo delicato equilibrio".

Però è vero che la linea del rigore a tutti i costi sta portando a tensioni sociali esasperate. O no?
"Così come ha esagerato la Germania ad imporre una linea di eccessivo rigore, e ora se ne sta rendendo conto, ha altrettanto calcato troppo la mano il governo italiano. Con la conseguenza di provocare eccessive sofferenze nella popolazione. In questa campagna elettorale si sta cercando proprio questo, da parte delle forze più responsabili: come garantire la prosecuzione del "montismo" con un tocco di umanità in più".

(12 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2013/01/12/news/roubini_allarme_rientrato-50365362/
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 10, 2013, 05:25:13 pm »

Roubini: «Grillo? Un grande rischio per i mercati ma non subito»

di Stefano Carrer

8 marzo 2013

Grillo? Un grande rischio per i mercati. Non subito, però, ma tra alcuni mesi, quando ci sarano nuove inevitabili elezioni in Italia che potrebbero segnare l'affermazione definitiva di forze populiste anti-austerità e tendenziamente ostili all'Europa. E' l'opinione dell'economista Nouriel Roubini, che vede sia Grillo sia Berlusconi come fattori potenzialmente destabilizzanti per i mercati e per l'intera Europa in quanto potrebbero avvantaggiarsi alle prossime urne di un probabile aggravamento delle condizioni dell'economia connesso proprio all'attuale stallo politico.

Secondo Roubini (oggi a Villa d'Este per una conferenza organizzata da The Europea House-Ambrosetti), i mercati ci dovrebbero comunque dare un po' di tempo di tregua, sull'onda di quanto dimostrato negli ultimi giorni: gli investitori scommettono sulla nascita di un governo-badante (un mero "caretaker") per il minimo indispensabile. In fondo, anche se non si facesse nulla se non riformare la legge elettorale, la pressione fiscale aumenterà da sé senza innescare quindi problemi di credibilità immediata del sistema-Paese. Il problema, ha detto Roubini, è che quando in autunno si tratterà di delineare il budget statale, è inverosimile che Grillo (quand'anche avesse prima parzialmente collaborato su alcuni punti specifici) sia disponibile a votarlo: quindi, nuove elezioni che purtroppo coincideranno con un probabile aumento di altri fattori di tensione per il mercati internazionali, compreso il problema del nucleare iraniano e un rallentamento economico in Usa e Cina. Anche in altri Paesi dell'Europeriferia, nel frattempo, si sarà accresciuta la stanchezza per l'austerità (austerity fatigue), mentre al centro dell'Eurozona si rafforzerà al contrario la stanchezza per i salvataggi.

"La novità è che il 65-70% degli italiani si è pronunciato contro l'austerità",. ha detto Roubini, che include nel calcolo anche un terzo degli elettori di Bersani ( i più pro-crescita). Certo, ha aggiunto, i mercati reagiranno con spavento non appena i sondaggi dovessero indicare una vittoria elettorale di Grillo, almeno se lui avrà confermato i suoi orientamenti verso la promozione di un referendum, sull'euro, una ristrutturazione unilaterale del debito italiano, la settimana lavorativa di 20 ore, il salario minimo per tutti e così via. Comunque Roubini non si spinge a pronosticare solo sfracelli: gli appare più probabile che alla fine Germania e Banca centrale europea cerchino di venire incontro all'Italia in qualche modo con alcune concessioni, perché l'alternativa sarebbe la fine dell'euro. E sarebbe meglio che un allentamento delle maglie dell'austerity arrivasse prima che dopo.
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 17, 2013, 11:16:57 pm »

 Studio di Nouriel Roubini e Ian Bremmer: nei prossimi anni probabili altre crisi sistemiche

Luigi dell'Olio, L'Huffington Post  |  Pubblicato: 17/06/2013 18:36 CEST  |  Aggiornato: 17/06/2013 18:57 CEST


Non più tardi di due settimane Nouriel Roubini aveva sorpreso tutti, quando a un giornalista della Cnbc si era mostrato sicuro: "I mercati saliranno ancora per due anni, sino a quando il divario tra la ricchezza di Wall Street e quella di Main Street (come viene definita l'economia reale, ndr) non diventerà troppo grande". Per poi aggiungere che non è il caso di essere preoccupati, considerato che la Fed "varerà l'exit strategy" dalla politica monetaria espansiva "molto lentamente".

Un ottimismo inusitato per l'economista americano globetrotter (è nato a Istanbul da una famiglia iraniana, si è laureato alla Bocconi, per poi trasferirsi negli Usa, dove tra le altre cose è stato consulente del presidente Bill Clinton) che sui mercati è noto con l'appellativo "Mr. Doom" ovvero "Signor catastrofe", per aver anticipato già nel 2006 la grande crisi finanziaria e aver mantenuto un sostanziale pessimismo anche verso la ripresa americana degli ultimi due anni.

Pochi giorni dopo lo ritroviamo nel ruolo di Cassandra, con uno studio - realizzato a quattro mani con Ian Bremmer, il guru di Eurasia Group, uno dei principali studi di consulenza sui rischi politici - che sta spopolando tra le segnalazioni degli analisti su Twitter.

"Altro che nuova normalità dei mercati", è il suo ragionamento, "i problemi che hanno portato alla grande crisi sono ancora quasi del tutto irrisolti cinque anni dopo l'avvio delle turbolenze". Da qui il titolo della pubblicazione: "New abnormal". Riassumendo il pensiero dei due analisti, quello che ci attende nei prossimi anni è un mondo in cui le crisi sistemiche non sono solo possibili, ma "altamente probabili".

Le critiche non risparmiano nessuno, a cominciare dai politici di Washington, accusati di temporeggiare troppo sui dissidi in campo economico che caratterizzano democratici e repubblicani, anziché varare le misure necessarie ad eliminare i fattori di criticità. Così come quelli di Pechino, che procedono troppo lentamente nel processo di ampliamento del benessere tra i cittadini, esponendo quello che presto sarà la prima economia al mondo ("pur restando nel suo insieme un Paese povero", spiegano gli autori) a forti tensioni sociali.

Né sembrano arrivare segnali di stabilizzazione dall'Europa. Roubini e Bremmer citano come esempio l'Italia, "con le elezioni di febbraio che hanno creato ulteriore confusione, premiando un candidato populista e il suo messaggio euroscettico". Così, "nuove elezioni nei prossimi mesi non possono essere escluse".

L'elevata probabilità di nuove crisi a breve è spiegata anche con i problemi globali che caratterizzano questa stagione - dai cambiamenti climatici al terrorismo cibernetico, alla sicurezza alimentare - e che richiedono un notevole impegno di risorse pubbliche. Peccato che, nel frattempo, tutti i governi occidentali si siano dati come obiettivo l'austerità. Inoltre, per Roubini e Bremmer, anche quando i problemi vengono affrontati, non si supera mai il particolarismo nazionale.

Per evitare nuove accuse di protagonismo, non mancano i consigli. "Cina e Germania spendano di più, aiutando così anche gli altri Paesi a ripartire", è il suggerimento, accompagnato dall'auspicio che anche negli Stati Uniti si metta fine a una visione dell'economia limitata ai soli problemi interni. "L'America e la Cina si stanno avviando verso una crescente conflittualità, che rischia di essere giocata sul piano cibernetico e finanziario più che con le armi", è l'allarma lanciato. Eppure le due super-potenze sono sempre più interdipendenti tra loro. "In un atteggiamento pragmatico, una proficuo collaborazione tra i due Paesi", è la conclusione, "ci sono le maggiori speranze per un atterraggio 'morbido' di questa anormalità".

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/06/17/studio-nouriel-roubini-ian-bremmer-crisi-sistemiche-_n_3454727.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 27, 2013, 11:42:21 pm »

"Con la crisi spread presto a quota 300.

Già oggi i mercati possono punire l'Italia"

L'intervista a Nouriel Roubini: "C'era un patto per evitare scossoni politici prima del voto tedesco



dal nostro inviato EUGENIO OCCORSIO


NEW YORK - "Si sta rompendo a causa di Berlusconi il patto non ufficiale, una sorta di gentlemen agreement che doveva evitare qualsiasi sconvolgimento politico prima delle elezioni tedesche. Viviamo in una fase di "volatilità controllata": ma se la situazione si avvita, come ormai sembra tutt'altro che impossibile, le conseguenze potrebbero essere molto pesanti per l'Italia". Questa volta Nouriel Roubini non vorrebbe abbandonarsi al pessimismo, ma poi analizzando le ipotesi possibili le speranze di una schiarita si dimostrano davvero poche. Sono ore febbrili negli uffici del centro studi Rge, che Roubini ha fondato a pochi isolati dalla New York University dove insegna. Da qui il professore segue minuto per minuto la partita-Italia con l'assistenza di Brunello Rosa, l'economista della London School of Economics che è direttore delle macro-strategie del think-tank. "La situazione - dice Roubini - potrebbe precipitare già domani alla riapertura (oggi per chi legge, ndr)".

Così presto?
"E' una giornata in cui potrebbero accavallarsi diversi fenomeni negativi: le contrattazioni sono limitate perché è periodo di ferie, anche in America dove l'attività riprenderà a pieno regime dopo il Labor Day del 2 settembre, ed è chiuso il mercato di Londra per una festività. In ogni caso, se non si trova una soluzione, lo spread risalirà entro pochissimi giorni a quota 300, il buon momento del mercato azionario italiano si interromperà, i titoli bancari saranno particolarmente penalizzati e i costi del credito torneranno ancora una volta a salire. Quanto più le elezioni sono prossime, tanto maggiore è il danno per i Btp".

Tutto questo perché si è infranto il patto con l'Europa, e la fiducia che è stata riposta nel nostro Paese e che ha evitato finora traumi malgrado le tensioni, come ricordava nel suo editoriale domenicale Eugenio Scalfari, sarà stata ancora una volta tradita?
"Esattamente. Ed è un peccato, perché Enrico Letta, una persona seria e rispettata da tutti sul piano internazionale, sta con il suo governo facendo molte cose buone, a partire dall'accelerazione per i pagamenti dei crediti della pubblica amministrazione. Letta sta agendo bene con l'appoggio del governo tedesco, fondamentale che ci piaccia o no, nonché della Bce Mario Draghi, sostegno che non si può sapere se verrà conservato se la situazione precipita. Sull'Imu la soluzione che si sta profilando è quella giusta: una tassa da far gravare solo sui più abbienti. Con le risorse che ne verranno, si imposterà l'alleggerimento del carico sulle imprese e sui lavoratori. Una linea corretta, e i mercati la stavano apprezzando. Invece Berlusconi per un mero calcolo personale prende a pretesto proprio l'Imu per aprire la crisi. Anzi, per pretendere l'immunità personale, a costo di sfasciare tutto. Una posizione inaccettabile. Vedremo se Napolitano riuscirà ad evitare le elezioni prima della Finanziaria. Il nostro scenario più probabile è che si voti all'inizio del 2014 ma non escludiamo un'accelerazione. I mercati stanno facendo un ragionamento simile".

Lei parlava del patto implicito, o diciamo riservato, verosimilmente raggiunto dalla Merkel direttamente con Napolitano come era avvenuto già nel 2011, che doveva evitare "incidenti" fino al 22 settembre. Ma questo significa che sotto la cenere cova comunque una certa preoccupazione sull'Italia?
"La domanda di fondo rimane: l'Italia ha un immane debito pubblico, ce la farà a ripagarlo? Il problema è la crescita. Il Paese viaggia con un Pil più basso dell'8% rispetto a prima della crisi. Ammesso che si sia raggiunto il fondo, quale velocità avrà la ripresa? Gli indicatori mostrano un quadro di sviluppo assai limitato, quindi la questione della sostenibilità rimane. Con una prospettiva temporale decente questi problemi si possono affrontare con lucidità al pari degli altri casi europei. A partire dalla Grecia, che ha bisogno, come si è lasciato sfuggire lo stesso Schauble, di una nuova ristrutturazione finanziaria, e vedremo a chi saranno imposte le perdite. Altre sorprese potrebbero venire dagli altri Paesi sotto programma internazionale di assistenza. L'Italia per ora non ha avuto bisogno di interventi d'emergenza, ma non è escluso che un'operazione sul debito sia necessaria fra qualche tempo, magari un allungamento delle scadenze: swap di titoli a corto con altri a lungo dietro un piccolo mark-up (sconto, ndr). Sono normali misure di gestione delle passività condotte in un regime market-friendly, senza emergenze, da realizzare con gradualità in un quadro di stabilità nel prossimo anno e mezzo. Ecco, quest'equilibrio rischia di saltare. L'Italia è sotto osservazione perché tutti temono l'instabilità politica, che si conferma il punto debole: non ci sentiamo più di escludere misure più radicali di ristrutturazione del debito a medio termine".

Ha rivisto le previsioni sulla crescita italiana per quest'anno?
"No, lo stiamo facendo adesso. Finora eravamo più ottimisti della media: per il secondo trimestre il mercato diceva - 0,4%, noi - 0,1%. Alla fine la perdita del Pil è stata dello 0,2. Per l'intero 2013 noi prevedevamo un -1,7%, il Fondo Monetario ha detto - 1,8 e la Banca d'Italia è arrivata quasi al 2%. Temo che dovremo rivedere anche le nostre previsioni al ribasso, e neanche di poco, se la situazione precipita".

(26 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2013/08/26/news/con_la_crisi_spread_presto_a_quota_300_gi_oggi_i_mercati_possono_punire_l_italia-65302262/?ref=HREC1-1
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