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Autore Discussione: Franco Venturini - Le missioni dimenticate  (Letto 2089 volte)
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« inserito:: Aprile 08, 2013, 11:19:24 am »

I MILITARI, I COSTI, L'IMMAGINE DEL PAESE

Le missioni dimenticate

La crisi di governabilità uscita dalle urne e dalla legge elettorale che ne ha condizionato il verdetto comporta, lo sappiamo tutti, una serie di rischi per i cittadini e per il Paese. Tanto più che il «caso Italia» si colloca nella cornice più ampia delle turbolenze economiche e finanziarie europee e occidentali. Non è perciò sorprendente che il buon senso suggerisca - quale che sia lo stato delle alchimie politiche interne - tagli alla spesa e investimenti mirati volti alla crescita. Ma esistono, e di questo anche l'opinione pubblica dovrebbe essere cosciente, spese che vanno al di là dell'equazione contabile, che sono utili al Paese anche se ne aggravano il passivo, che difendono valori come le alleanze internazionali e la credibilità sulla scena mondiale cui l'Italia non può permettersi di rinunciare (men che meno dopo l'autolesionista vicenda dei marò).

È il caso del finanziamento delle nostre missioni militari all'estero, che salvo sorprese dovrà essere votato come ogni anno dal Parlamento nel mese di settembre dopo la conferma, in giugno, delle attuali presenze. Tentare di prevedere oggi l'esito di quei voti sarebbe come giocare alla roulette, tali e tante sono le incognite presenti e future della nostra politica interna. Ma ad anticipare i tempi e a rinfrescarci la memoria ha provveduto il Movimento 5 Stelle, annunciando che martedì sarà depositata una mozione per il ritiro immediato delle forze italiane dall'Afghanistan. Le urgenze che premono sono altre, beninteso, ma la scampanellata dei «grillini» non ci fa male perché è giusto che le missioni militari non vengano infilate sotto il tappeto come accade di solito fino al prossimo soldato ucciso.

Le nostre sono missioni di pace. Lo è senza dubbio quella voluta dall'Onu nel Libano meridionale (mille uomini dagli iniziali tremila), che aiuta a prevenire un ritorno delle ostilità tra hezbollah e israeliani. Lo è con certezza quella nei Balcani, seicento militari anch'essi già ridotti che proteggono minoranze e sorvegliano una calma ancora fragile. Anomala almeno nella definizione è invece la presenza italiana in Afghanistan, perché gli oltre tremila soldati inquadrati nell'Isaf (espressione della Nato) cercano sì di costruire la pace ma si trovano spesso a dover fare la guerra. È questo contingente, che è il più numeroso, che costa molto, che ha avuto 52 morti, ad aver ispirato la mozione del Movimento 5 Stelle. Che trova precedenti, peraltro, negli umori della Lega, nelle proteste che oggi sembrano lontanissime di Di Pietro, e persino in alcuni settori del Pd.

La guerra in Afghanistan è una guerra persa, si diceva, e non ha più senso rimanere, spendere e morire. In effetti esistono grandissime probabilità che quella dell'Afghanistan non sia una guerra vinta. Ma il vero interrogativo che dobbiamo porci, oggi, è molto più semplice e scavalca il giudizio storico: faremmo bene, noi italiani, a ritirarci unilateralmente mentre è in corso un ritiro collettivo? Qualcuno lo ha fatto, come la Francia di Hollande che per tener fede alle promesse della campagna elettorale ha anticipato il trasferimento della regione nord-est a forze afghane che fonti autorevoli considerano non ancora pronte a subentrare, se mai lo saranno. Ma la Francia è abituata a «compensare» di testa sua (si pensi all'intervento in Mali), e noi comunque dobbiamo ragionare sulla base dei nostri interessi e partendo, se possibile, da dati oggettivi.

Il primo di questi dati oggettivi è che il ritiro italiano dall'Afghanistan è già in corso. Diminuisce progressivamente il numero dei militari, la «nostra» provincia di Herat è passata sotto il controllo afghano, con navi e aerei sono già stati riportati in Italia 187 veicoli e 153 container. Ripieghiamo coordinandoci con i nostri alleati presenti sul terreno, con i britannici (meno 3.800 uomini entro la fine dell'anno), con gli americani (si pensa meno 30.000 entro il prossimo febbraio), con i tedeschi e gli spagnoli, con i contingenti minori. La scadenza alla quale tutti guardano è la fine del 2014, quando la sicurezza diventerà responsabilità degli afghani e quasi tutte le truppe straniere dovranno essere partite.

Quasi. Perché forse resterà un nucleo di truppe speciali Usa (dipende dagli accordi con Kabul). Perché molti Paesi, anche l'Italia, prevedono di mandare addestratori, e il nuovo totale si collocherà tra otto e dodicimila militari non combattenti. E anche perché, visto che i denari pesano quanto i soldati, il più recente orientamento della Nato è quello di finanziare un esercito afghano forte di 352.000 uomini fino al 2018 (prima si era pensato di ridimensionarlo dopo la partenza degli stranieri, cosa operativamente assurda). Questa è la realtà, spesso insanguinata, sempre pericolosa, che non si presta a trionfi presenti o futuri, che dovrà trovare soprattutto ma non soltanto negli Usa i finanziamenti supplementari volti a non «perdere» l'Afghanistan subito dopo il 2014.

Sarà giusto discutere, di queste cifre. È giusto far sentire la nostra voce, esprimere apertamente impegni e anche perplessità che legittimamente possiamo avere. Ma sarebbe giusto rifugiarsi in una ritirata unilaterale quando quella concordata con gli alleati è in pieno svolgimento? La credibilità internazionale dell'Italia è affidata da anni più alle sue missioni all'estero che alla sua politica estera. E la credibilità comporta ritorni, ha anche un valore economico, disegna le gerarchie mondiali. Se vogliamo parlare di interessi, il nostro interesse è di ritirarci sì dall'Afghanistan, ma con gli altri.

Franco Venturini

6 aprile 2013 | 8:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_06/missioni-dimenticate-venturini_862f2f48-9e78-11e2-8717-9b3e51409b57.shtml
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