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Autore Discussione: Chi è Cairo, nuovo capo de La7 di Gianluca Di Feo e Alessandro Gilioli  (Letto 2418 volte)
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« inserito:: Marzo 04, 2013, 07:16:04 pm »

Tivù

Chi è Cairo, nuovo capo de La7

di Gianluca Di Feo e Alessandro Gilioli

L'incontro 'magico' con Berlusconi e la conquista di Italia1. I guai giudiziari ai tempi di Mani Pulite. Il litigio con Dell'Utri. La riscossa con la raccolta pubblicitaria. Ritratto dell'uomo che ha appena comprato la rete da Telecom

(04 marzo 2013)


Un venerdì del lontano 1982 Urbano Cairo, assistente personale di Silvio Berlusconi, va a trovare il vecchio Edilio Rusconi nei suoi uffici di via Vitruvio, a Milano.

Non è una visita di cortesia. La Fininvest, con Canale 5, sta vendendo gli spot a prezzi stracciati e Rusconi, proprietario di Italia 1, non riesce più a sostenere la corsa al ribasso. Urbano ed Edilio discutono fino a sera e trovano un accordo. Una firma sancisce l'impegno a non scendere sotto una cifra pattuita fin dal lunedì successivo. Rusconi, tranquillizzato, va a godersi il meritato weekend.

Cairo invece esce di fretta e si fa portare a Cologno, dove convoca subito tutti i venditori di Publitalia, la concessionaria Fininvest, per sguinzargliarli in una 48 ore filata di svendite di spot ai prezzi vecchi. E' un fine settimana di fuoco, ma alla fine l'intera stagione di Canale 5 viene piazzata. Quando Edilio torna in ufficio, il lunedì, capisce di essere stato gabbato. A quel punto, per far sopravvivere l'azienda deve vendere Italia 1. E l'unico acquirente possibile è proprio Fininvest.

L'aneddoto, raccontato da un ex manager rusconiano, rende l'idea della scaltrezza di Cairo, proprietario dell'omonimo gruppo editoriale, del Torino calcio e ora anche de La 7.

L'ascesa al pantheon televisivo di Cairo del resto è il coronamento di una carriera avvolta nel mito, fin da quando nel 1981, da poco laureato alla Bocconi, legge un'intervista rilasciata a 'Capital' da Silvio Berlusconi. "Se qualche giovane ha una buona idea, mi chiami", diceva tra l'altro al mensile il fresco fondatore di Canale 5.

Detto fatto, Urbano si presenta negli uffici del Biscione e si piazza davanti alla segretaria di Sua Emittenza finché non riesce a farsi ricevere. Scoppia il colpo di fulmine e Urbano, a 24 anni, diventa l'assistente personale del futuro premier.

Per il ragazzo di Alessandria è l'inizio folgorante di un'epopea fininvestiana che durerà 14 anni, sempre al fianco di Berlusconi tanto nelle fatiche degli affari quanto nelle notti di baldoria della Milano da bere. I soldi non mancano e le ballerine neppure, sicché nulla osta i divertimenti e le complicità dei due.

Sul lavoro, invece, Cairo è un'idrovora a ciclo continuo di raccolta pubblicitaria, prima a Publitalia poi alla Mondadori. Alla corte di Silvio, Urbano impara a imitare uno stile fatto di cordialità straripante, doppiopetti blu anche d'estate e frizzanti complimenti a semplici conoscenti o assoluti sconosciuti, perché chissà mai, un giorno tutti possono tornare utili. Anche nei mesi in cui Berlusconi inizia a cullare l'idea di entrare in politica, nel '93, al suo fianco ha Cairo, che lo aiuta in molti degli incontri che preparano il terreno ai club da cui nascerà il partito.

Quando però la buriana di Mani pulite si abbatte su Publitalia, l'enfant prodige del Biscione è tra i primi a finire nel mirino del pool.

Il meccanismo contestato dai magistrati è quello delle società sponda: sigle che firmavano contratti e poi li giravano al colosso pubblicitario, creando fatture false e riserve di denaro in nero. E' l'inchiesta che travolge Marcello Dell'Utri e provoca il commissariamento di Publitalia. I pm Francesco Greco e Gherardo Colombo delineano l'esistenza di una rete parallela creata dai manager Fininvest: una macchina raccogli quattrini che in alcuni casi offre anche un servizio di esportazione di capitali in favore degli imprenditori. E che fa il 'nero' su tutto, anche sulle sponsorizzazioni sportive di automobilismo, calcio e ciclismo.

Le rivelazioni di un ex manager del giro, Giovanni Arnaboldi, descrivono un mondo da telenovela dove gli affari vengono conclusi tra feste, top model, yacht e jet personali. Cairo opera con una società chiamata Publivis che fa mediazioni fittizie. Per i giudici, in questo modo, tra l'89 e il '92, oltre 4 miliardi di lire sono finiti fuori dai bilanci, scomparendo anche dalle dichiarazioni delle tasse.

Nell'attività Urbano ha coinvolto tutta la famiglia: padre, madre, ex moglie, due sorelle, fratello e cognato. A tutti ha fatto intestare quote della raccolta pubblicitaria parallela. Quando i pm chiedono di mandarli alla sbarra, nei corridoi della procura vengono ribattezzati i 'Cairo Eight', parafrasando il nome del gruppo pop dei Jackson Five. Perfino la sorellina, matricola in legge, si ritrova imputata.

All'apertura del processo Cairo è l'unico a chiedere il patteggiamento, rompendo il fronte dei manager Publitalia che invece respingono le accuse e si dichiarano vittime politiche. Il suo avvocato, Giuseppe Pezzotta, riesce a concordare una pena di 19 mesi con la condizionale per falso in bilancio, fatture per operazioni inesistenti e appropriazione indebita. La sentenza diventa definitiva nel '99, ma dopo 5 anni scatta l'estinzione del reato e oggi il certificato penale di Cairo risulta immacolato.

Da quest'esperienza esce assai incrinato il suo rapporto con Dell'Utri, che in azienda non lo vuole più. Berlusconi è ormai a Roma, in politica, e il boss di Publitalia ha gioco facile nell'emarginare Cairo nel limbo di Pagine Utili per poi cacciarlo dal gruppo con un benservito che lascia di sasso il piemontese rampante. Sicché nel 1995, a 38 anni, Cairo si trova a spasso con un pacco di miliardi, molte ottime conoscenze e un know-how pubblicitario non da poco.

Urbano allora mette in piedi una concessionaria di pubblicità in proprio, che chiama con il suo nome e trova presto una bonaria sponda ai vertici della Rizzoli: i boss di Crescenzago infatti gli affidano subito la raccolta di grasse testate come 'Oggi' e 'Io donna'. Come sempre, il ragazzo ci sa fare, gli investitori arrivano, il gruppo decolla e lo smacco del licenziamento dalla Fininvest è dimenticato. Tempo dopo dirà: «Mi sono sentito un po' come il conte di Montecristo: un uomo che ha fatto il miracolo passando dall'ingiustizia della condanna al grande rilancio, dimostrando capacità di risalire la china».

Due anni più tardi Cairo fa il suo ingresso nel mondo del calcio e comincia a vendere la 'pubblicità statica' all'interno dell'Olimpico, cioè i cartelloni a bordo campo e dietro le porte.

Gli italiani iniziano così a conoscere il simbolo del suo gruppo - un occhio stilizzato - che ogni tanto passa anche in tv. Poi si prende la pubblicità di Telepiù, lancia un paio di attività su Internet e finalmente si sente pronto per tentare l'avventura da editore. Nel '99 l'anziano Giorgio Mondadori, che da tempo si era distaccato dal gruppo di famiglia creando un'azienda di mensili in proprio, è stanco e vuole ritirarsi in Costa Azzurra. Cairo si fa sotto e poco dopo la Giorgio Mondadori è sua. Il tenero Urbano riceve una telefonata di complimenti dal suo ex padrone, Silvio, e lui gli sussurra: «Hai visto presidente? Ora ho la mia Mondadori anch'io».

Nel luglio del 2000 Cairo riesce a quotare il suo gruppo in piazza Affari, appena in tempo prima del grande flop borsistico. Per lanciare il collocamento, Urbano fa tappezzare Milano di manifesti con l'immagine di se medesimo che spunta in giacca e cravatta da un borsone di cuoio e la scritta: 'Cairo entra in Borsa'. I milanesi meno attenti alle cose dell'editoria non capiscono e commentano: "Chel lì l'è matt".

Invece Urbano riesce a piazzare un quarto delle azioni a 65 euro l'una, un affarone. E grazie ai miliardi freschi dei piccoli azionisti, Cairo può dare una svolta al gruppo: le vecchie testate della Giorgio Mondadori infatti sono solo mensili di nicchia, patinati e sobri, come 'Airone' e 'Bell'Italia', che non soddisfano l'indole popolaresca di Cairo. Lui, come Berlusconi, pensa di saper parlare alle masse ed è alle masse che vuole vendere giornali. Così dopo aver scoperto che in Inghilterra fanno un mensile maschile ad alta tiratura che si chiama 'For him magazine' decide di imitarlo con un clone più trash che chiama 'For men magazine'. Pochi anni dopo passa al settimanale con 'DiPiù', testata di gossip diretta a un target particolarmente basso, proposta in edicola a un euro. Un successo, così come il televisivo che vede la luce pochi mesi dopo, 'DiPiùTv'. Culla anche il sogno di un un quotidiano popolare, un tabloid tipo il 'Sun' inglese,ma poi ci ripensa.

La passione per la carta stampata non gli fa scordare il primo amore, quello televisivo: litiga con Sky (che quando si compra Telepiù rescinde il contratto per la raccolta pubblicitaria) ma già si consola con La7 (ai tempi di Tronchetti Provera) che gli affida la vendita dei suoi spot. Gli affari vanno bene e negli uffici di corso Magenta si stappa frizzantino a ogni budget raggiunto. Cairo si fa fotografare per il sito aziendale in posa da James Bond, con un trapano in mano al posto della pistola: una misteriosa metafora edilizia o forse un inconscio omaggio al passato palazzinaro del suo mito Berlusconi, chissà.

E quando il gruppo arriva a fatturare quasi 200 milioni di euro l'anno, Cairo pensa che sia giunto il momento buono per imitare Silvio anche nello sfizio ludico-mediatico di farsi una squadra di calcio. S'interessa al Genoa e al Bologna, ma ci sono da tirare fuori troppi soldi. Si avvicina allora all'Alessandria, squadra della sua città natale con un lontano passato in A (ci giocava anche Rivera) ma un grigio presente nelle serie minori che dopo un po' lo convince a lasciar perdere. 

Quando finalmente riesce a prendersi il Torino subito giura di averlo fatto non per ottenere visibilità televisiva, ma per un'autentica passione granata sorta in cuore quando sua madre gli raccontava della tragedia di Superga. «Sono sempre un ragazzo pieno di sogni», dice di sé.

E adesso, come il suo primo datore di lavoro, ha anche una tivù nazionale.

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