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« inserito:: Settembre 22, 2009, 11:11:34 am » |
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22/9/2009
Usa, il problema del potere nel mondo multipolare JOSEPH S. NYE
Il National Intelligence Council degli Stati Uniti prevede che il dominio americano sarà «molto diminuito» entro il 2025, e che la superiorità americana (e il potere militare) saranno meno forti nel sempre più competitivo mondo del futuro. Il presidente russo Dmitri Medvedev ha definito la crisi finanziaria 2008 un segno che la leadership globale dell’America sta volgendo al termine. Il leader d’opposizione canadese Michael Ignatieff ne conclude che il potere degli Stati Uniti sia tramontando. Come possiamo sapere se queste previsioni sono corrette?
Bisogna stare attenti. Dopo che la Gran Bretagna perse le sue colonie americane, alla fine del XVIII secolo, Horace Walpole disse che era diventata un paese «insignificante come la Danimarca o la Sardegna». Non riuscì a prevedere che la rivoluzione industriale avrebbe dato alla Gran Bretagna un periodo di ancor maggiore ascesa. Roma rimase dominante per oltre tre secoli dopo l’apogeo del potere romano. Che cosa significa esercitare il potere nell’era dell’informazione globale del XXI secolo? La saggezza popolare ha sempre ritenuto che prevale il Paese con l’esercito più forte, ma nell’era dell’informazione a vincere può essere lo Stato con un passato migliore alle spalle. Oggi è tutt’altro che chiaro come sia misurato l’equilibrio di potere, e tanto meno come poter sviluppare efficaci strategie di sopravvivenza.
Nel suo discorso inaugurale nel 2009, il presidente Barack Obama ha affermato che «la nostra potenza cresce attraverso l’uso prudente; la nostra sicurezza deriva dalla giustezza della nostra causa, dalla forza del nostro esempio, dalla tempra, dall’umiltà e dalla moderazione». Poco tempo dopo, il segretario di Stato Hillary Clinton ha detto: «L’America non può risolvere i problemi più pressanti da sola, e il mondo non può risolverli senza l’America. Dobbiamo usare ciò che è stato chiamato smart power, l’intera gamma di strumenti a nostra disposizione». Smart power: la combinazione del potere di comando e del potere di attrazione.
Il potere dipende sempre dal contesto. Oggi è distribuito secondo un modello che assomiglia a una partita a scacchi tridimensionale. Sulla scacchiera in alto, il potere militare è in gran parte unipolare, e gli Stati Uniti sono destinati a rimanere l’unica superpotenza ancora per un po’. Ma, sulla scacchiera di mezzo, il potere economico è già multi-polare da più di un decennio, con Stati Uniti, Europa, Giappone e Cina come attori principali, e altri stanno acquistando importanza. La scacchiera in basso è il regno delle operazioni transfrontaliere che avvengono al di fuori del controllo governativo: comprende diversi attori non-statali, come ad esempio il trasferimento elettronico di somme di denaro ben più grandi di alcuni bilanci nazionali e, all’altro estremo, terroristi che trasferiscono armi o hacker che minacciano la cyber-sicurezza. Questa scacchiera comprende anche nuove sfide, come le pandemie e il cambiamento climatico.
A questo livello il potere è ampiamente diffuso, e non ha alcun senso parlare di unipolarità, multipolarità, egemonia o qualsiasi altro cliché. Anche a seguito della crisi finanziaria, il ritmo vertiginoso del cambiamento tecnologico è probabile che continui a guidare la globalizzazione e le sfide transnazionali.
Il problema per il potere americano nel XXI secolo è che ci sono cose che rimangono fuori controllo anche per lo Stato più potente. Sotto l’influenza della rivoluzione informatica e della globalizzazione, la politica mondiale sta cambiando in un modo che impedisce all’America di conseguire da sola tutti gli obiettivi internazionali. Ad esempio, la stabilità finanziaria internazionale è vitale per la prosperità americana, ma gli Stati Uniti hanno bisogno della collaborazione di altri per garantirla. Il cambiamento climatico globale, anche, interesserà la qualità della vita degli americani, ma gli Usa non possono gestire da soli il problema.
In un mondo in cui le frontiere sono più che mai permeabili per tutto, dai farmaci per le malattie infettive al terrorismo, l’America deve contribuire alla costruzione di coalizioni internazionali e istituzioni per affrontare le minacce e le sfide comuni. In questo senso, il potere diventa un insieme di somme.
Non è sufficiente pensare in termini di potere sugli altri. Si deve anche pensare in termini di potere per raggiungere gli obiettivi. Su molte questioni transnazionali, gli altri possono contribuire a realizzare i propri obiettivi. Il problema del potere americano nel XXI secolo non è il declino, ma il non riconoscere che anche il Paese più potente non può raggiungere i suoi obiettivi senza l’aiuto degli altri.
© Project Syndicate, 2009 da lastampa.it
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« Ultima modifica: Marzo 17, 2012, 12:05:10 pm da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 17, 2012, 12:01:19 pm » |
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17/3/2012 Capire il mondo, la sfida chiave dei nuovi Usa JOSEPH S. NYE* Quest’anno la campagna presidenziale negli Stati Uniti è stata caratterizzata da segnali provenienti da aspiranti sfidanti repubblicani per una trasformazione radicale della politica estera americana. Le campagne sono sempre più estreme rispetto alla realtà delle cose, ma i Paesi dovrebbero essere consapevoli della richiesta di cambiamento trasformazionale. Le cose non sempre vanno come previsto. La politica estera non ha quasi giocato alcun ruolo nelle elezioni presidenziali americane del 2000. Nel 2001, George W. Bush ha iniziato il suo primo mandato con uno scarsissimo interesse per la politica estera, ma ha scelto obiettivi trasformazionali dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Come Woodrow Wilson, Franklin Roosevelt, e, prima di lui, Harry Truman, Bush si convertì alla retorica della democrazia per galvanizzare i suoi seguaci in un momento di crisi. Anche Bill Clinton aveva parlato di rafforzare il ruolo dei diritti umani e della democrazia nella politica estera degli Stati Uniti, ma negli Anni 90 la maggior parte degli americani inseguiva la normalità e un bonus di pace post-Guerra Fredda piuttosto che un cambiamento. Al contrario, la National Security Strategy (la strategia della sicurezza nazionale) di Bush del 2002, quella che fu chiamata la Dottrina Bush, proclamava che gli Stati Uniti avrebbero «identificato ed eliminato i terroristi ovunque fossero, insieme ai regimi che li sostengono». La soluzione al problema del terrorismo era diffondere la democrazia in tutto il mondo. Bush ha invaso l’Iraq dichiaratamente per togliere a Saddam Hussein la possibiltà di usare armi di distruzione di massa e, in corso d’opera, per cambiare il regime. Bush non può essere incolpato per gli abbagli dell’intelligence, che attribuiva tali armi a Saddam, visto che molti altri Paesi avevano condiviso tali analisi. Ma l’inadeguata comprensione del contesto iracheno e regionale, insieme alla scarsa pianificazione e gestione, hanno portato al fallimento gli obiettivi di trasformazione di Bush. Anche se alcuni dei difensori di Bush cercano di accreditargli le rivoluzioni della «Primavera araba» i principali protagonisti arabi respingono tali argomentazioni. Bush è stato descritto da The Economist come «ossessionato dall’idea di essere un presidente di trasformazione; non solo un agente dello status quo come Bill Clinton». L’allora Segretario di stato Condoleezza Rice cantò le virtù della «diplomazia trasformazionale». Ma, mentre i teorici della leadership e gli autori di editoriali tendono a pensare che gli agenti della trasformazione in politica estera siano migliori sia sotto il punto di vista dell’etica sia sotto il profilo dell’efficacia, l’evidenza non supporta questo punto di vista. Altre capacità di leadership sono più importanti rispetto all’abituale distinzione tra leader trasformazionali e «transazionali"». Si consideri il presidente George H. W. Bush, che non ha realizzato la «visione», ma che grazie a una sana amministrazione ed esecuzione ha supportato una delle più riuscite agende di politica estera statunitense degli ultimi 50 anni. Forse gli ingegneri genetici un giorno saranno in grado di produrre leader altrettanto dotati di visione e capacità di gestione rispetto ai due Bush (che condividono metà dei loro geni), è chiaro che la natura non ha ancora risolto il problema. Questa non è una polemica contro i leader trasformazionali. Mohandas Gandhi, Nelson Mandela e Martin Luther King, Jr., che hanno giocato un ruolo cruciale nella trasformazione dell’identità e nelle aspirazioni delle persone. Né, questo è un argomento contro i leader trasformazionali della politica estera statunitense. Franklin Roosevelt e Truman sono stati determinanti. Ma, nel giudicare i leader, abbiamo bisogno di prestare attenzione ad atti di omissione come di imperio, per quello che è successo e per ciò che è stato evitato, per quello che è stato criticato o meno. Un grosso problema in politica estera è la complessità del contesto. Viviamo in un mondo di culture diverse, sappiamo molto poco di ingegneria sociale e su come «costruire le nazioni». Quando non siamo sicuri su come migliorare il mondo, la prudenza diventa una virtù importante, e le visioni grandiose possono comportare gravi pericoli. In politica estera, come in medicina, è importante ricordare il giuramento di Ippocrate: primo, non nuocere. Per queste ragioni, le virtù dei leader transazionali con una buona intelligenza contestuale sono molto importanti. Qualcuno, come George H. W. Bush, incapace di articolare una visione, ma in grado di condurre con successo fuori da una crisi, si rivela un leader migliore di uno come suo figlio, in possesso di una visione potente ma con poca intelligenza contestuale o abilità di gestione. L’ex Segretario di Stato George Shultz, che ha servito sotto Ronald Reagan, una volta ha paragonato il suo ruolo al giardinaggio: «Il nutrimento costante di una serie complessa di fattori, interessi e obiettivi». Ma la collega a Stanford di Shultz, Condoleezza Rice, ha voluto una diplomazia più trasformazionale che non accetta il mondo così com’è, ma cerca di cambiarlo. Come ha detto un osservatore, «l’ambizione di Rice non è solo quella di essere un giardiniere, lei vuole essere un architetto del paesaggio». C’è un ruolo per entrambi, a seconda del contesto, ma dobbiamo evitare l’errore comune di pensare automaticamente che l’architetto paesaggista di trasformazione è un leader migliore del giardiniere coscienzioso. Dovremmo tenerlo presente nel valutare gli attuali dibattiti presidenziali negli Stati Uniti, con il loro costante riferimento al declino americano. Il declino è una metafora fuorviante. L’America non è in declino assoluto e, in termini relativi, vi è una ragionevole probabilità che rimarrà più potente rispetto a qualsiasi altro Paese nei prossimi decenni. Non viviamo in un «mondo post-americano», ma nemmeno viviamo nell’era americana della fine del ventesimo secolo. Gli Stati Uniti dovranno fronteggiare un aumento delle risorse energetiche di molti altri - siano Stati e attori non statali. Occorrerà inoltre confrontarsi con un crescente numero di problemi che richiedono elevata capacità d’influenza sugli altri tanto quanto potere sugli altri al fine di ottenere i risultati prescelti. La capacità dell’America di mantenere le alleanze e creare reti di cooperazione sarà una dimensione importante del suo potere dissuasivo e persuasivo. Il problema del ruolo dell’America nel XXI secolo non è quello del (mal specificato) «declino», ma piuttosto di sviluppare l’intelligenza contestuale necessaria per comprendere che anche il più grande Paese non può realizzare ciò che vuole senza l’aiuto degli altri. Educare il pubblico a comprendere questa complessa realtà dell’informazione globalizzata, e ciò che è necessario per operarvi con successo, sarà il vero compito della leadership trasformazionale. Fin qui, i candidati repubblicani non ce ne hanno parlato molto. *Joseph S. Nye, ex sottosegretario alla Difesa degli Usa, è professore ad Harvard e autore di «Il futuro del potere» Copyright: Project Syndicate, 2012 www.project-syndicate.orgTraduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9894
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 06, 2012, 10:39:59 am » |
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4/5/2012 Il rischio di un 11 settembre informatico JOSEPH S. NYE Due anni fa, un pezzo di codice informatico difettoso infettò il programma nucleare iraniano e distrusse molte delle centrifughe utilizzate per arricchire l’uranio. Alcuni osservatori definirono questo evidente sabotaggio come il precursore di una nuova forma di guerra e il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Leon Panetta, mise in guardia gli americani dal pericolo di una «Pearl Harbor cibernetica» contro gli Stati Uniti. Ma cosa sappiamo veramente dei conflitti informatici? L’impero cibernetico dei computer e delle relative attività elettroniche è un ambiente complesso creato dall’uomo e gli avversari umani sono motivati e intelligenti. Le montagne e gli oceani sono difficili da spostare, ma porzioni di cyberspazio possono essere attivate e disattivate premendo un interruttore. E’ molto più economico e più rapido spostare gli elettroni da una parte all’altra del mondo che spostare grandi navi su lunghe distanze. I costi necessari per costruire tali navi – cargo multifunzioni e flotte di sottomarini creano enormi barriere all’ingresso, permettendo il predominio navale degli Stati Uniti. Ma le barriere che chiudono il dominio informatico sono così poco difese che gli attori non statali e gli stati di piccole dimensioni possono svolgere un ruolo significativo con spese modeste. Nel mio libro The Future of Power (Il futuro del potere), sostengo che la diffusione del potere extragovernativo è uno dei grandi cambiamenti politici di questo secolo. Il cyberspazio è un esempio perfetto. Grandi Paesi come Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina hanno una maggiore capacità di altri Stati e attori non statali di controllare il mare, l’aria, o lo spazio, ma non ha molto senso parlare di posizione dominante nel cyberspazio. Se non altro, dipendenza da sistemi informatici complessi per il supporto delle attività militari ed economiche crea nuove vulnerabilità negli stati di grandi dimensioni che possono essere sfruttate da attori non statali. Quattro decenni fa il Dipartimento della Difesa statunitense creò Internet, oggi, per molti versi, gli Stati Uniti rimangono il Paese leader in termini di uso militare e sociale. Ma una maggiore dipendenza dalle reti di computer e dalla comunicazione lascia gli Stati Uniti più vulnerabili agli attacchi di molti altri Paesi e il cyberspazio è diventato una delle principali fonti d’insicurezza, perché lì, in questa fase dello sviluppo tecnologico, l’offesa prevale sulla difesa. Il termine «attacco informatico» copre una vasta gamma di azioni, che vanno dalle semplici incursioni al sabotaggio di siti, cancellazione dei servizi, spionaggio e distruzione. Allo stesso modo, il termine «guerra informatica» è usato impropriamente per coprire una vasta gamma di comportamenti, riflettendo le definizioni del dizionario di guerra che vanno dal conflitto armato a qualsiasi contesto ostile (per esempio «la guerra tra i sessi», o «la guerra alla droga»). All’estremo opposto alcuni esperti utilizzano una definizione ristretta di cyberguerra: una «guerra senza spargimento di sangue» tra gli stati che consiste esclusivamente in un conflitto elettronico nel ciberspazio. Ma questo elude le importanti interconnessioni tra gli effetti fisici e virtuali del cyberspazio. Perché come ha dimostrato il virus Stuxnet che ha infettato il programma nucleare iraniano, gli attacchi al software possono avere effetti fisici reali. Una definizione più utile di guerra informatica è un’azione ostile nel cyberspazio, i cui effetti eguagliano o amplificano una grave violenza fisica. Nel mondo fisico, i governi hanno un quasi-monopolio sull’uso della forza su larga scala, il difensore ha una conoscenza approfondita del terreno e gli attacchi cessano per logoramento o esaurimento. Tanto le risorse come la mobilità hanno alti costi. Nel mondo virtuale, invece, gli attori sono diversi (e talvolta anonimi), la distanza fisica è irrilevante e alcune forme di attacco sono a buon mercato. Poiché Internet è stato progettato per un facile utilizzo piuttosto che per la sicurezza, gli attaccanti sono avvantaggiati rispetto ai difensori. L’evoluzione tecnologica, compresi gli sforzi per «implementare» alcuni sistemi per una maggiore sicurezza, potrebbe finalmente cambiare la situazione, ma, per ora, il caso rimane aperto. Il partito più grande ha una capacità limitata di disarmare o distruggere il nemico, occupare il territorio, o utilizzare strategie di contrattacco efficaci. La cyberguerra, anche se in questa fase è solo incipiente, è la più drammatica tra le potenziali minacce. Gli stati più influenti potrebbero, in linea di principio, ricorrendo a elaborate risorse tecniche e umane, creare una situazione di caos e distruzione fisica attraverso gli attacchi informatici contro obiettivi militari e civili. Le risposte alla guerra informatica includono una forma di deterrenza interstatale attraverso oscuramento e ingaggio, capacità offensive e piani per un rapido ripristino della rete rapida e delle infrastrutture se la deterrenza fallisce. A un certo punto, può essere possibile rafforzare questi passaggi con alcune norme rudimentali e controllo degli armamenti, ma il mondo è solo all’inizio in questo processo. Se in questa fase si considera il cosiddetto «hacktivism» (n.d.r. termine intraducibile, che unisce i termini hacker e activism) da parte di gruppi ideologici soprattutto come un elemento di disturbo, restano quattro principali categorie di minacce informatiche alla sicurezza nazionale, ciascuna con un diverso orizzonte temporale: la guerra informatica e lo spionaggio economico sono in gran parte associate agli stati, la cybercriminalità e il cyberterrorismo sono per lo più associati ad attori non statali. Per gli Stati Uniti, i costi più elevati attualmente derivano dallo spionaggio e dalla criminalità, ma nel prossimo decennio o giù di lì, la guerra e il terrorismo potrebbero diventare minacce maggiori di quanto non siano oggi. Inoltre, man mano che le alleanze e le tattiche si evolvono, le categorie possono sovrapporsi sempre più. Secondo l’ammiraglio Mike McConnell, ex direttore americano della National Intelligence, «Prima o poi i gruppi terroristici arriveranno alla complessità cibernetica. E’ come la proliferazione nucleare, solo molto più facile». Il mondo sta appena iniziando a scorgere barlumi di guerra informatica – negli attacchi di oscuramento dei siti che hanno accompagnato la guerra convenzionale in Georgia nel 2008, o nel recente sabotaggio delle centrifughe iraniano. Gli Stati hanno le capacità maggiori ma gli attori non statali hanno più probabilità di dare il via a un attacco catastrofico. Un «11 settembre» informatico sembra essere molto più probabile della spesso citata «cyber Pearl Harbor». E’ tempo che gli stati si siedano a discutere su come eliminare questa minaccia alla pace mondiale. Joseph S. Nye, ex assistente del segretario alla Difesa statunitense, è professore all’università di Harvard e l’autore di The Future of Power . Copyright: Project Syndicate, 2012. http://www.project-syndicate.org/[Traduzione di Carla Reschia] da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10061
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 16, 2012, 04:57:06 pm » |
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16/5/2012 Obama-Romney, le emozioni sono il test del vero leader JOSEPH S. NYE Come governatore del Massachusetts, Romney ha battuto ogni record come conservatore competente e moderato, un profilo politico perfetto per gli elettori dello Stato. Ma l’estrema destra del partito repubblicano domina le primarie, così Romney ha lavorato sodo per evitare l’etichetta di «moderato», assumendo posizioni molto conservatrici. Ora, come probabile candidato del partito, deve tornare verso il centro politico, dove si trova la maggioranza degli elettori. Quindi, qual è il vero Mitt Romney? E gli elettori come possono valutare i due candidati? Obama ha un percorso già verificato, anche se perciò ha deluso molti che avevano votato per lui nel 2008. Naturalmente, i suoi sostenitori sostengono che ha dovuto adattarsi a due guerre in corso e alla peggiore recessione dal 1930. Inoltre, dopo le elezioni di medio termine del 2010, una Camera dei Rappresentanti ostile, controllata dai repubblicani, ha bloccato le sue iniziative. Romney potrà rinfacciare a Obama le sue prime e ancora non mantenute promesse, mentre Obama chiamerà Romney un «flipflopper», un voltagabbana che cambia le sue posizioni in funzione del momento (e del pubblico). In realtà, la difficoltà di prevedere la condotta del vincitore una volta in carica non è una novità. Nel 2000, candidandosi, George W. Bush com’è noto promise un «conservatorismo compassionevole» e una politica estera tranquilla, ma governò in modo molto diverso, come quando decise di invadere l’Iraq. Allo stesso modo, Woodrow Wilson e Lyndon Johnson impostarono la loro campagna elettorale sulle promesse di pace, ma entrambi condussero l’America in guerra poco dopo essere stati eletti. Queste inversioni di rotta post-elettorali si fanno beffe della democrazia? Come possono gli elettori esprimere giudizi intelligenti quando le campagne sono così ben sceneggiate e astutamente orchestrate? Gli analisti della leadership suggeriscono che dovremmo prestare meno attenzione alle promesse politiche dei leader e più alla loro intelligenza emotiva: la loro padronanza di sé e la capacità di coinvolgere gli altri. Contrariamente all’idea che le emozioni interferiscano con la chiarezza di pensiero, la capacità di comprendere e regolare le emozioni può portare a pensare in modo più efficace. Come pare abbia detto scherzando il giudice della Corte Suprema Oliver Wendell Holmes dopo l’incontro con Franklin D. Roosevelt: «Intelletto di seconda classe, ma temperamento di prima classe». La maggior parte degli storici concorda sul fatto che il successo di Roosevelt come leader poggiasse più sul suo buon carattere che sulle sue capacità di analisi. L’energia e l’ottimismo che profuse nei primi cento giorni della sua amministrazione non riflettevano le proposte politiche concrete nella sua campagna. Gli psicologi si sono misurati per oltre un secolo con il concetto dell’intelligenza, e su come valutarla. I test d’intelligenza globali misurano facoltà come la destrezza verbale e spaziale, ma i punteggi del QI in linea di massima prevedono solo circa il 10-20% del successo nella vita. E, mentre gli esperti non sono d’accordo su quanto il restante 80% sia attribuibile all’intelligenza emotiva, in genere concordano sul fatto che sia una dote importante che si può imparare e che aumenta con l’età e l’esperienza, e che gli individui possiedono in varia misura. I leader lavorano sodo per gestire la loro immagine pubblica, cosa che richiede un po’ della stessa disciplina emotiva e dell’abilità che possiedono gli attori di successo. L’esperienza di Ronald Reagan a Hollywood gli fu molto utile sotto questo aspetto e Roosevelt era un maestro nella gestione dell’immagine. Nonostante il dolore e la difficoltà a muoversi con le gambe paralizzate dalla poliomielite, aveva un aspetto allegro ed evitava di essere fotografato sulla sedia a rotelle. Che ne siano o meno consapevoli, i leader trasmettono sempre segnali. L’intelligenza emotiva comporta la consapevolezza e il controllo di tali segnali e l’auto-disciplina che impedisce ai bisogni psicologici personali di distorcere la politica. Se l’intelligenza emotiva non è autentica, è probabile che nel lungo tempo gli altri lo scoprano. Richard Nixon, ad esempio, era forte sulle abilità cognitive, ma debole sull’intelligenza emotiva. Era in grado di mettere a punto strategie efficaci in politica estera, ma era meno in grado di controllare le insicurezze personali che alla fine hanno portato alla sua caduta, una carenza che emerse solo nel corso del tempo. Infatti, solo dopo gran parte del suo mandato il pubblico seppe della sua famigerata «lista dei nemici». Bush nella mezza età diede prova d’intelligenza emotiva padroneggiando i suoi problemi con l’alcol e mostrando coraggio nel perseverare con le politiche impopolari. Ma, a un certo punto, la perseveranza diventa ostinazione emotiva. Come Wilson, Bush ha avuto una testarda fedeltà alla sua visione che gli ha impedito di imparare e regolarsi. Forse la flessibilità che hanno dimostrato Obama e Romney dopotutto non è una cattiva qualità per un Presidente. Le asprezze di una lunga campagna possono fornire agli elettori qualche indizio sulla resistenza e l’autodisciplina. Tutti i candidati repubblicani hanno avuto uno scatto vittorioso all’inizio di questa gara e i rigori della stagione delle primarie hanno reso evidenti i difetti di alcuni, come il governatore del Texas Rick Perry, che inizialmente sembravano attraenti. Ora, nelle elezioni generali, il modo in cui Romney, in particolare, si riferisce alla piattaforma del suo partito ci dirà qualcosa circa la forza della sua indipendenza e le decisioni del futuro gabinetto. Ma la variabile più importante per gli elettori è l’esame della biografia del candidato. Non intendo i libri accattivanti e gli spot televisivi prodotti per le loro campagne. Se i consulenti d’immagine e l’abilità nella recitazione possono mascherare il carattere di un candidato, una vita integra nel tempo è la base migliore per valutare l’autenticità del temperamento del prossimo Presidente, e come governerà. Soprattutto, gli elettori più smaliziati sono essi stessi emotivamente abbastanza intelligenti da essere preparati alle sorprese. Quando il loro candidato li delude - come accade inevitabilmente, a prescindere dal risultato delle elezioni – tengono ben presente che la democrazia è il peggior sistema, fatta eccezione per tutti gli altri. Joseph S. Nye, ex assistente alla Segretario alla Difesa, è professore ad Harvard ed è autore di «The Future of Power» Copyright: Project Syndicate, 2012. http://www.project-syndicate.org/Traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10109
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 12, 2012, 11:37:20 pm » |
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12/6/2012 Il destino degli interventi umanitari JOSEPH S. NYE* Quando devono intervenire militarmente gli Stati per fermare le atrocità in altri Paesi? La domanda è annosa, una vecchia conoscenza. Che ora si rifà viva a proposito della Siria. Nel 1904, il presidente americano Theodore Roosevelt sosteneva che «ci sono a volte crimini commessi su così vasta scala e talmente orrendi» che dobbiamo intervenire con la forza delle armi. Un secolo prima, nel 1821, mentre europei e americani discutevano se intervenire nella lotta per l’indipendenza della Grecia, il presidente John Quincy Adams mise in guardia i suoi connazionali dall’«andare all’estero in cerca di mostri da distruggere». In tempi più recenti, dopo un genocidio che in Rwanda nel 1994 costò quasi 800 mila vite e il massacro di uomini e ragazzi bosniaci a Srebrenica nel 1995, molte persone hanno giurato che non avrebbero mai più permesso che simili atrocità accadessero. Quando Slobodan Miloševic nel 1999 diede il via a una pulizia etnica su vasta scala in Kosovo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottò una risoluzione nella quale riconosceva la catastrofe umanitaria, ma non era d’accordo su una seconda risoluzione sull’intervento, data la minaccia di un veto russo. Al contrario, i Paesi della Nato hanno bombardato la Serbia in un attacco che molti osservatori hanno considerato legittimo ma non legale. In seguito, l’allora Segretario generale dell’Onu Kofi Annan creò una commissione internazionale per raccomandare le modalità che permettessero di conciliare l’intervento umanitario con l’articolo 2.7 della Carta delle Nazioni Unite, che sostiene la sovranità nazionale degli Stati membri. La Commissione concluse che gli Stati hanno la responsabilità di proteggere i propri cittadini e dovrebbero essere aiutati a farlo con mezzi pacifici, ma che se uno Stato ignora questa responsabilità attaccando i propri cittadini, la comunità internazionale potrebbe prendere in considerazione un intervento armato. L’idea di una «responsabilità di protezione» (R2P) è stata approvata all’unanimità al vertice mondiale delle Nazioni Unite nel 2005, ma gli eventi successivi hanno dimostrato che non tutti gli Stati membri hanno interpretato la risoluzione allo stesso modo. La Russia ha sempre sostenuto che solo le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e non quelle dell’Assemblea Generale, sono vincolanti per il diritto internazionale. Nel frattempo, la Russia ha posto il veto alla risoluzione sulla Siria, e, un po’ ironicamente, Annan è stato richiamato e arruolato in un fin qui vano tentativo di fermare la carneficina. Fino all’anno scorso molti osservatori consideravano nella migliore delle ipotesi l’R2P una pia speranza o un nobile fallimento. Ma nel 2011, quando il colonnello Muammar el-Gheddafi si preparava a sterminare i suoi oppositori a Bengasi, il Consiglio di Sicurezza invocò l’R2P come base per una risoluzione che autorizzava la Nato a usare la forza armata in Libia. Negli Stati Uniti, il presidente Barack Obama è stato attento ad aspettare le risoluzioni della Lega araba e del Consiglio di Sicurezza, evitando così i costi per l’immagine dell’America che l’amministrazione di George W. Bush dovette pagare quando intervenne in Iraq nel 2003. Ma la Russia, la Cina e altri Paesi ebbero la sensazione che la Nato sfruttasse la risoluzione per progettare un cambio di regime, e non solo per proteggere i cittadini libici. In realtà, l’R2P ha più a che fare con le dispute sulla legittimità politica e la diplomazia che con il diritto internazionale in sé. Alcuni avvocati occidentali sostengono che comporta la responsabilità di lottare contro il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra ai sensi delle varie convenzioni del diritto umanitario internazionale. Ma la Russia, la Cina e gli altri sono riluttanti a fornire una base giuridica o politica per interventi come, ad esempio, quello in Libia. Ci sono altri motivi per cui l’R2P non è stato un successo nel caso siriano. Derivata dalla teoria tradizionale della «guerra giusta» l’R2P non si basa solo sulle intenzioni giuste, ma anche sull’esistenza di una ragionevole prospettiva di successo. Molti osservatori evidenziano le importanti differenze fisiche e militari tra la Libia e la Siria che renderebbero problematiche no-fly o no-drive zone siriane. Alcuni siriani che si oppongono al regime del presidente Bashar al-Assad, pensando a Baghdad nel 2005, sostengono che l’unica cosa peggiore di un dittatore crudele è una guerra civile. Tali fattori sono sintomatici di problemi più ampi in relazione agli interventi umanitari. Per cominciare, i motivi sono spesso misti (Roosevelt, dopo tutto, si riferiva a Cuba). Inoltre, viviamo in un mondo di culture diverse, e sappiamo molto poco di ingegneria sociale e dell’edificazione delle nazioni. Quando non siamo sicuri su come migliorare il mondo, la prudenza diventa una virtù importante, e le visioni arroganti possono rappresentare un grave pericolo. La politica estera, come la medicina, deve essere guidata dal principio «Primo, non nuocere». Prudenza non significa che in Siria non si può fare nulla. Altri governi possono continuare a cercare di convincere la Russia che i suoi interessi sarebbero meglio serviti sbarazzandosi del regime piuttosto che permettendo la crescente radicalizzazione dei suoi avversari. Sanzioni più severe possono continuare a delegittimare il regime e la Turchia potrebbe essere persuasa a prendere misure più forti contro il suo vicino di casa. Inoltre, la prudenza non significa che gli interventi umanitari sono sempre destinati a fallire. In alcuni casi, anche se i motivi sono mescolati, le prospettive di successo sono ragionevoli, e la sciagura di una popolazione può essere alleviata con costi modesti. Gli interventi militari in Sierra Leone, Liberia, Timor Est e Bosnia non hanno risolto tutti i problemi, ma hanno migliorato la vita della gente. Altri interventi - per esempio, in Somalia - invece no. I recenti interventi su larga scala in Iraq e in Afghanistan, anche se non principalmente umanitari, hanno eroso il sostegno dell’opinione pubblica per l’azione militare. Ma dovremmo ricordare la storia di Mark Twain sul suo gatto. Dopo essersi seduto su una stufa bollente aveva imparato a non farlo mai più, ma questo valeva anche se la stufa era spenta. Continueranno a esserci interventi anche se probabilmente saranno più brevi, coinvolgeranno forze su scala ridotta e si baseranno su tecnologie che permettono l’azione a una maggiore distanza. In un’epoca di cyber-guerra e droni, la fine dell’intervento R2P o umanitario è annunciata. Docente all’università di Harvard e autore di «The Future of Power». Copyright: Project Syndicate, 2012. http://www.project-syndicate.org/[Traduzione di Carla Reschia] da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10217
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 03, 2012, 07:19:21 am » |
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31/7/2012 La nuova sfida dell'indipendenza energetica JOSEPH S. NYE* Quando, negli Anni 70 Nixon proclamò che voleva garantire l’indipendenza energetica nazionale, gli Usa importavano un quarto del loro petrolio. Entro la fine del decennio, dopo un embargo petrolifero arabo e la rivoluzione iraniana, la produzione nazionale era in declino, gli americani importavano la metà del fabbisogno di petrolio a 15 volte il prezzo, ed era opinione diffusa che il Paese fosse a corto di gas naturale. Le crisi energetiche hanno contribuito a una combinazione letale di crescita economica stagnante e inflazione, e ogni presidente americano dopo Nixon ha proclamato, come lui, l’obiettivo dell’indipendenza energetica. Ma pochi hanno preso sul serio quelle promesse. Oggi, gli esperti del settore energetico non scherzano più. Entro la fine di questo decennio, secondo la Energy Information Administration degli Stati Uniti, quasi la metà del greggio che l’America consuma sarà prodotta in casa, mentre l’82% verrà dalla parte atlantica degli Usa. Philip Verleger, uno stimato analista energetico, sostiene che, entro il 2023, il 50° anniversario del «Progetto Indipendenza» di Nixon, gli Stati Uniti saranno energeticamente autonomi, nel senso che esporteranno più energia di quanta ne importeranno. Verleger sostiene che l’indipendenza energetica «potrebbe rendere questo il Nuovo Secolo Americano, creando un ambiente economico in cui gli Stati Uniti godono di un accesso a forniture energetiche ad un costo molto più basso rispetto ad altre parti del mondo». Già ora gli europei e gli asiatici pagano per il gas naturale 4-6 volte di più degli americani. Che cosa è successo? La tecnologia della perforazione orizzontale e della fratturazione idraulica, grazie a cui gli scisti e le altre formazioni rocciose pressate a grandi profondità sono bombardate con acqua e prodotti chimici, ha dato accesso a importanti nuove forniture sia di gas naturale che di petrolio. L’industria del gas naturale in America è cresciuta del 45% all’anno dal 2005 al 2010, e la quota di gas naturale rispetto alla produzione globale di gas degli Stati Uniti è cresciuta dal 4% al 24%. Anche se molti altri Paesi hanno un considerevole potenziale di gas naturale, i problemi non mancano, incluse la scarsità d’acqua in Cina, la sicurezza degli investimenti in Argentina, e le restrizioni ambientali in diverse nazioni europee. L’economia americana trarrà beneficio in molti modi dal suo cambiamento di approvvigionamento energetico. Centinaia di migliaia di posti di lavoro sono già stati creati, alcuni in regioni remote e precedentemente in stagnazione. Questa attività economica aggiuntiva aumenterà la crescita complessiva del Pil, con nuove importanti entrate fiscali. Inoltre il minor tasso di energia d’importazione abbasserà il deficit commerciale degli Stati Uniti e migliorerà la sua bilancia dei pagamenti. Alcune industrie Usa, come quelle della chimica e della plastica, otterranno un significativo vantaggio comparativo dei costi di produzione. Infatti, l’Agenzia internazionale per l’energia stima che le precauzioni supplementari necessarie per garantire la sicurezza ambientale dei pozzi di gas naturale, tra cui la particolare attenzione alle condizioni sismiche, condotti di estrazione debitamente sigillati e un’adeguata gestione delle acque reflue - aggiungano solo il 7% del costo. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, tuttavia, gli effetti di una maggiore dipendenza dal gas naturale sono diversi. Poiché la combustione del gas naturale produce meno gas a effetto serra rispetto ad altri idrocarburi, come il carbone o il petrolio, può essere un ponte verso un futuro a minore impatto di carbonio. Ma il basso prezzo del gas impedirà lo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili se non accompagnate da sussidi o tasse sul carbonio. In questa fase, si possono solo fare congetture circa gli effetti geopolitici. Chiaramente, il rafforzamento dell’economia statunitense rafforzerebbe il potere economico americano uno scenario che va contro la moda attuale di rappresentare gli Stati Uniti in declino. Ma non si deve saltare alle conclusioni. Un equilibrio d’importazioni ed esportazioni energetiche è solo una prima approssimazione di indipendenza. Come ho sostenuto nel mio libro The Future of Power (Il futuro del potere), l’interdipendenza globale implica sensibilità e vulnerabilità. Gli Stati Uniti potrebbero essere meno vulnerabili nel lungo periodo se s’importa meno energia, ma il petrolio è un bene sostituibile, e l’economia americana rimarrà sensibile agli sbalzi dei repentini mutamenti dei prezzi mondiali. In altre parole, una rivoluzione in Arabia Saudita o il blocco dello Stretto di Hormuz potrebbero comunque danneggiare gli Stati Uniti e i suoi alleati. Quindi, anche se l’America non avesse altri interessi in Medio Oriente, come Israele o la non proliferazione nucleare, l’equilibrio tra l’importazione e l’esportazione di energia probabilmente non libererebbe gli Stati Uniti dalle spese militari - che alcuni esperti stimano siano attorno ai 50 miliardi di dollari all’anno - per proteggere le rotte del petrolio nella regione. Allo stesso tempo, la posizione contrattuale degli Stati Uniti nella politica mondiale ne uscirebbe rafforzata. Il potere deriva dalle asimmetrie nell’interdipendenza. Io e te possiamo dipendere l’uno dall’altro, ma se dipendo da te meno di quanto tu dipenda da me, il mio potere contrattuale è aumentato. Per decenni gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno avuto un equilibrio di asimmetrie nel quale noi dipendevamo da loro come oscillante produttore di petrolio, e loro dipendevano da noi per la massima sicurezza militare. Ora le trattative saranno condotte in termini un po’ migliori dal punto di vista dell’America. Allo stesso modo, la Russia ha esercitato il suo ascendente sull’Europa e i suoi vicini di piccole dimensioni attraverso il controllo delle forniture di gas naturale e degli oleodotti. Quando il Nord America diventerà autosufficiente per il gas, ne verranno liberate grandi quantità da altre regioni che potranno fornire fonti alternative all’Europa, diminuendo così la pressione della Russia. Nell’Asia orientale, che è diventata il centro della politica estera degli Stati Uniti, la Cina si troverà sempre più dipendente dal petrolio del Medio Oriente. Gli sforzi americani per convincere la Cina a svolgere un ruolo più importante nei dispositivi di sicurezza regionali potranno essere rafforzati, e la consapevolezza della Cina della vulnerabilità delle sue vie di rifornimento per un blocco navale statunitense nell’improbabile caso di un conflitto potrebbe avere anche un sottile effetto sul potere contrattuale di ciascuna parte. L’equilibrio tra importazioni ed esportazioni di energia non produce l’indipendenza pura ma muta i rapporti di potere coinvolti nell’interdipendenza energetica. Nixon aveva visto giusto. *EX ASSISTENTE SEGRETARIO ALLA DIFESA, È PROFESSORE ALLA HARVARD UNIVERSITY E AUTORE DI THE FUTURE OF POWER. Copyright: Project Syndicate, 2012. http://www.project-syndicate.org/Traduzione di Carla Reschia da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10390
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 26, 2012, 03:46:21 pm » |
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18/9/2012 Cina-Giappone il dialogo da ritrovare JOSEPH S. NYE* Scoppierà la guerra sui mari dell’Asia orientale? Dopo che i nazionalisti cinesi e giapponesi hanno fatto a gara per occupare le lande desolate che la Cina chiama isole Diaoyu e il Giappone isole Senkaku, dei manifestanti rabbiosi nella città sud-occidentale cinese di Chengdu hanno scandito: «Dobbiamo uccidere tutti i giapponesi». Allo stesso modo, una situazione di stallo tra le navi cinesi e filippine alla secca di Scarborough nel Mar Cinese Meridionale ha suscitato proteste a Manila. E un grande passo in avanti nel progetto di cooperazione tra Corea del Sud e Giappone è stato silurato quando il primo ministro sudcoreano ha visitato l’isola deserta che la Corea chiama Dokdo, il Giappone chiama Takeshima e gli Stati Uniti Liancourt Rocks. Non bisognerebbe fare dell’allarmismo. Gli Stati Uniti hanno dichiarato che le isole Senkaku (amministrate dalla Prefettura di Okinawa da quando sono tornate al Giappone nel 1972) sono tutelate dal trattato di sicurezza nippo-americano. Nel frattempo la situazione di stallo alla secca di Scarborough si è sciolta, e, anche se il Giappone ha richiamato il suo ambasciatore dalla Corea del Sud per l’incidente di Dokdo, è improbabile che i due Paesi passino dalle parole ai fatti. Ma vale la pena ricordare che la Cina ha usato la forza delle armi per espellere i vietnamiti delle isole Paracel nel 1974 e nel 1988. E la Cina ha avuto la meglio sull’ospite cambogiano al summit dell’Asean di quest’anno per bloccare un comunicato finale che avrebbe richiesto un codice di condotta nel Mar Cinese Meridionale - la prima volta nella storia quarantennale dei dieci membri dell’Associazione che non sono mai riusciti a emettere un comunicato. La rinascita dell’ultranazionalismo in Asia orientale è allo stesso tempo preoccupante e comprensibile. In Europa, mentre i greci possono lamentarsi sui termini del sostegno tedesco per il finanziamento di emergenza, il periodo dalla Seconda Guerra Mondiale ha visto enormi progressi nel l’integrazione tra le nazioni . Nulla di simile è accaduto in Asia e le questioni risalenti agli Anni 30 e 40 rimangono vive, un problema aggravato da libri di testo distorti e dalle politiche governative. Il Partito Comunista Cinese non è più davvero comunista. Fonda invece la sua legittimità su una rapida crescita economica e sul nazionalismo etnico Han. Il ricordo della guerra sino-giapponese del 1894-1895 e l’aggressione giapponese negli Anni 30 sono utili politicamente e s’inquadrano all’interno di un tema più ampio della vittimizzazione cinese da parte delle forze imperialiste. Alcuni analisti americani della difesa interpretano la strategia marittima della Cina come chiaramente aggressiva. Sottolineano le sempre maggiori spese per la difesa e lo sviluppo della tecnologia missilistica e sottomarina progettata per proteggere i mari che si estendono dalla costa della Cina alla «prima catena di isole» di Taiwan e del Giappone. Altri, tuttavia, vedono una strategia cinese confusa, contraddittoria e paralizzata da interessi burocratici concorrenti. Essi evidenziano i risultati negativi delle politiche più assertive della Cina dopo la crisi economica del 2008. In effetti, le politiche della Cina hanno danneggiato le sue relazioni con quasi tutti i suoi vicini. Si consideri l’incidente di Senkaku nel 2010, quando, dopo che il Giappone aveva arrestato l’equipaggio di un peschereccio cinese che aveva speronato una nave della guardia costiera giapponese, la Cina ha intensificato le sue rappresaglie economiche. Il risultato, come ha commentato un analista giapponese, è stato che «la Cina ha segnato un autogol», invertendo immediatamente la tendenza positiva per le relazioni bilaterali con il partito democratico del Giappone. Più in generale, mentre la Cina spende miliardi di renminbi nel tentativo di aumentare la propria forza diplomatica in Asia, il suo comportamento nel Mar Cinese Meridionale contraddice il suo messaggio. Ho chiesto ad alcuni amici cinesi e a funzionari perché la Cina segua una strategia così controproducente. La prima risposta formale è che la Cina ha ereditato storiche rivendicazioni territoriali, tra cui una mappa del periodo nazionalista che disegna una «linea di nove punti», che comprende praticamente l’intero Mar Cinese Meridionale. Oggi, con la tecnologia che rende le risorse subacquea e ittiche più sfruttabili nell’area, è impossibile abbandonare questo patrimonio. Nel 2009-2010, alcuni funzionari di medio rango e commentatori si riferivano al Mar Cinese Meridionale come a un «interesse nazionale irrinunciabile», come Taiwan o il Tibet. Ma i leader cinesi non sono mai stati chiari circa la posizione esatta della «linea di nove punti», o sul fatto che le loro richieste si riferiscano solo a determinate caratteristiche del terreno, o anche alle più estese piattaforme continentali e ai mari. Quando è stato chiesto il motivo per cui non chiariscono le loro rivendicazioni, i miei interlocutori cinesi talvolta dicono che questo implicherebbe difficili compromessi politici e burocratici che potrebbero urtare i nazionalisti. Altre volte aggiungono di non voler rinunciare prematuramente a una merce di scambio. Nel 1995, e di nuovo nel 2010, gli Stati Uniti hanno dichiarato che le acque del Mar Cinese Meridionale dovrebbero ricadere sotto la legge del Trattato dei mari stipulato dalle Nazioni Unite nel 1982 (che, ironia della sorte, gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato), ma che gli Usa non prendono posizione sulle rivendicazioni territoriali. Al contrario, gli Stati Uniti hanno sollecitato a risolvere attraverso una negoziazione le rivendicazioni. Nel 2002 la Cina e l’Asean hanno concordato un codice di condotta giuridicamente non vincolante per la gestione di tali controversie, ma, come grande potenza, la Cina ritiene che guadagnerà di più in un bilaterale piuttosto che attraverso negoziati multilaterali con i paesi di piccole dimensioni. C’era questa convinzione dietro la pressione della Cina sulla Cambogia per bloccare comunicato finale dell’Asean quest’estate. Ma è una strategia sbagliata. In quanto grande potenza la Cina avrà grande peso in ogni circostanza e può ridurre il danno che si è auto-inflitta accettando un codice di condotta. Per quanto riguarda le isole Senkaku/Diaoyu la proposta migliore viene dal «The Economist». La Cina dovrebbe astenersi dall’inviare navi ufficiali nelle acque giapponesi e utilizzare una linea diretta con il Giappone per gestire le crisi generate dai «cowboys» nazionalisti. Allo stesso tempo, i due Paesi dovrebbero far rivivere l’accordo quadro del 2008 per lo sviluppo congiunto dei giacimenti di gas contestati nel Mar Cinese Orientale e il governo centrale del Giappone dovrebbe acquistare le isole deserte dai loro proprietari privati e dichiararle zona marittima internazionale protetta. E’ tempo che tutti i Paesi dell’Asia orientale ricordino il famoso consiglio di Winston Churchill: «Dibattere è meglio che combattere». (*) Joseph S. Nye è Professore universitario ad Harvard e autore di«The Future of Power». Copyright: Project Syndicate, 2012. Traduzione di Carla Reschia da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10541
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