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Autore Discussione: BERNARD-HENRI LÉVY. Aleppo come Bengasi, l'Occidente intervenga  (Letto 2164 volte)
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« inserito:: Agosto 16, 2012, 07:11:34 pm »

La fine di Assad

Aleppo come Bengasi, l'Occidente intervenga

No fly zone e aree cuscinetto per favorire la caduta di Assad


La tragedia siriana (la demenza senza scampo che si è impossessata di Bashar al Assad, l'interminabile martirio dei civili bombardati dai suoi assassini) suscita parecchi tipi di domande che la tregua estiva non deve evitare di porre.

I dittatori non prendono vacanze!

1. Bisogna intervenire?
E la «responsabilità di proteggere», che è la versione Onu dell'antica teoria della guerra giusta, si può applicare alla situazione?
La risposta è sì.
Incondizionatamente sì. O, per essere più precisi, non può essere che sì per coloro che, l'anno scorso, reputavano si applicasse al caso libico. La causa è giusta. L'intenzione è onesta. Sono i siriani stessi che - parametro essenziale - chiedono aiuto. I ricorsi politici e diplomatici, i tentativi di mediazione, sono tutti andati a vuoto. E i danni causati da un'operazione di salvataggio dei civili saranno, qualunque cosa succeda, minori dei danni causati dai cannoni a lunga portata che uccidono le città insorte. La Aleppo di oggi è la Bengasi di ieri.
I crimini che vi si perpetrano sono gli stessi che Gheddafi minacciava di compiere nella capitale della Cirenaica. E nessuno capirebbe se quanto è stato fatto in Libia per impedire un crimine annunciato, si rifiutasse di farlo in Siria, non più per impedirlo, ma per fermarlo, dal momento che è già cominciato... È una questione di coerenza. Cioè di logica. Cioè è questione di politica e di morale. La Libia lo impone.

2. Come intervenire? E come, in particolare, trattare il veto russo e cinese? La risposta non è così complicata come pretende chi ha deciso, in anticipo, di non fare nulla. È quella che l'11 marzo 2011 diede il presidente francese Sarkozy ai rappresentanti del Consiglio nazionale di transizione che chiedevano cosa sarebbe successo se la Francia non avesse ottenuto l'adesione del Consiglio di Sicurezza: «Sarebbe una grande disgrazia; e bisognerebbe far di tutto per evitare di arrivare a quel punto; ma se non ci riusciamo, allora sarà bene mettere in piedi, con le organizzazioni regionali interessate (Lega araba, Unione africana) una istanza di inquadramento sostitutiva che permetterà comunque di agire». Poi, è la risposta indicata, il 30 maggio 2012, stavolta a proposito della Siria, dall'ambasciatrice degli Stati Uniti presso il Consiglio di Sicurezza, Susan Rice, esprimendosi dopo un'audizione di Jean-Marie Guéhenno, vice di Kofi Annan: «La comunità internazionale rischia di non aver presto altra scelta se non quella di prevedere un'azione al di fuori del piano di Kofi Annan e dell'autorità del Consiglio». Al di fuori dell'autorità del Consiglio! Proprio l'ambasciatrice americana! È una questione di diritto, stavolta. Di un emendamento del Diritto quando le sue forme positive contravvengono all'esigenza del diritto naturale e della giustizia. Il veto russo e cinese non è un argomento, è un alibi.
È l'alibi di chi, segretamente, conta sul fatto che Assad sia abbastanza forte per annientare l'insurrezione e per farci sentire privi di rimorsi. A lui, il bagno di sangue. A noi, le lacrime di coccodrillo.


3. Che tipo di intervento? E quale «scopo» - nel duplice senso che ha questa parola secondo Clausewitz: scopo della guerra (Ziel) e scopi politici (Zweck) - attribuire alla missione di protezione dei civili siriani? Essendo la malafede, in questo dibattito, manifestamente senza limiti, molti fanno finta di credere che si tratti di spedire in guerra, come in Afghanistan, battaglioni di soldati di fanteria. La realtà non è questa. La realtà è, innanzitutto, una no fly zone installata nelle basi della Nato a Izmir e a Incirlik, in Turchia, e che impedisca agli aerei di Assad di bombardare le donne e i bambini di Aleppo. È, in seguito, una no drive zone che vieti, sempre per via aerea, alle sue divisioni di blindati di spostarsi di città in città e di disseminarvi anch'esse il terrore. È la proposta del Qatar di instaurare no kill zones , «santuarizzate» attraverso elementi dell'esercito siriano libero, equipaggiate di armi difensive. Ed è l'idea turca, infine, di buffer zones a nord del Paese, che offrano un rifugio ai civili in fuga dai combattimenti. Una gamma scaglionata di misure che facciano capire al dittatore che il mondo non tollera più questa carneficina. Uno scenario abbastanza vicino, in fondo, a quello che fu immaginato, nelle prime settimane, dalla coalizione anti Gheddafi, e che solo l'oltranzismo suicida della «Guida» fece debordare dai suoi obiettivi iniziali.

Che Assad sia folle come Gheddafi, che sia pronto, come lui, ad arrivare fino al viva la muerte , è una possibilità, certo - ma non è l'ipotesi più plausibile ed è la ragione per cui questo piano in diverse tappe, questa azione graduata, dosata, e attenta a non arrivare subito agli estremi, potrebbero far cedere il regime. Assad è una tigre di carta. È forte della nostra debolezza. Che gli amici del popolo siriano mostrino la loro risolutezza, che diano segni tangibili della loro capacità di colpire ed egli preferirà - possiamo scommetterlo - l'esilio al suicidio.


4. Chi per questo intervento? E concretamente, quale forza? È qui che le situazioni siriana e libica differiscono: ma non nel senso che in genere si crede. Gheddafi, contrariamente a quanto è stato spesso scritto, disponeva di solidi appoggi nella regione. E la stessa Lega araba che fu, certo, la prima a evocare la necessità di una no fly zone , lo fece a fior di labbra e non senza dare l'impressione, molto presto, di essere spaventata dalla propria audacia. Assad, invece, è stato messo al bando dal mondo arabo. È stato molto presto sospeso dalle sue istituzioni e organizzazioni. È detestato in Africa. Temuto in Israele. Soprattutto, ad Ankara, ha un nemico dichiarato, dotato di un'armata possente, essa stessa integrata alla Nato; un nemico che ha due ragioni, almeno, di voler farla finita con lui: l'ancestrale rivalità turca con l'Iran che, invece, sostiene Assad; e il timore di vedere questa guerra, prolungandosi, nutrire le velleità secessioniste della propria minoranza curda che, in maniera del tutto naturale, si ispirerebbe ai curdi siriani impegnati, dall'altro lato della frontiera, a conquistare, armi in pugno, un'autonomia di fatto... Assad è più isolato di quanto lo fosse Gheddafi. E la coalizione che venisse in soccorso delle sue vittime sarebbe al tempo stesso più numerosa, più facile da installare e appena meno potente di quella che componevano, quasi da soli, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia.


5. Quale ruolo ha la Francia in tale contesto? E, al di là della Francia, l'Europa? Quello dell'iniziatore, del facilitatore, dell'architetto. La voce della Francia è ascoltata. La Francia gode, nella regione, del prestigio che la sua azione in Libia le ha dato. Ha legami storici con il Paese del Giardino sull'Oronte e con quello che una volta era chiamato il Levante. E per una coincidenza di calendario ha la presidenza di turno del Consiglio di Sicurezza Onu. Si avrebbe difficoltà a capire, in queste condizioni, se il successore di Sarkozy, oltretutto appena eletto e che quindi gode di una libertà di manovra che probabilmente non ha il presidente Obama, paralizzato dal proprio calendario elettorale, non utilizzasse in pieno le risorse che la situazione gli offre. E sarebbe increscioso se non si facesse di tutto per accelerare la formazione di questa grande alleanza che, da sola, farà andar via colui che il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha più volte qualificato come carnefice del proprio popolo. Catalizzare le energie, federare le volontà convergenti ma diverse, incoraggiare chi esita, scoraggiare i disfattisti e invocare la coscienza di ciascuno e del mondo a partire dalla tribuna unica che sarebbe, ancora una volta, un Consiglio di Sicurezza convocato d'urgenza e a livello dei ministri.

6. C'è il rischio di un incendio esteso alla zona circostante? E l'implicazione crescente dell'Iran nel dossier non costituisce un elemento di pericolosità supplementare, che non esisteva con la Libia? Sì, probabilmente. Ma il ragionamento può essere invertito. E quel che scopriamo, in effetti, della forza del legame fra Assad e Ahmadinejad, quello che supponevamo ma che si svela, ora, in piena luce, del carattere vitale di questo asse, dovrebbe ispirare due sentimenti. Innanzitutto lo spavento, all'idea che questa rivolta anti regime sarebbe potuta sopravvenire uno, due, cinque anni più tardi, in un mondo in cui l'alleato iraniano avrebbe raggiunto la famosa soglia nucleare che è il suo obiettivo: il massimo del ricatto, allora; presa in ostaggio, senza replica, dell'intera comunità internazionale; e, peggio dell'incendio, la possibilità dell'apocalisse. E poi la determinazione ad approfittare della situazione per tentare di indebolire, se non di spezzare, nel suo elemento debole, l'arco che, partendo da Teheran, va fino agli iranosauri di Hezbollah passando per Damasco e, in minor misura, per Bagdad: intervenire ad Aleppo significherà bloccare - ed è l'essenziale - una guerra contro i civili che ha già fatto più di 20 mila morti.
L'interesse ben chiaro delle nazioni che una volta tanto vanno d'accordo preoccupandosi dell'umanità e dei crimini commessi contro di essa, significherebbe anche colpire al cuore, prima che sia troppo tardi, il triangolo dell'odio che minaccia la regione e, al di là della regione, il mondo. Non l'incendio, ma il raffreddamento della centrifuga dove si preparano le guerre di domani.

7. E il dopo Assad, infine? E la sorte delle minoranze, in particolare cristiane, che il vecchio regime manipola e di cui vorrebbe far credere che fu il protettore storico? La questione è capitale. Tutto è possibile - anche il peggio... - in un Paese in rovina, reso incandescente dalla violenza e dove ogni giorno porta con sé la sua parte di desolazioni, di rabbie impotenti, di ricerca di capri espiatori e, quindi, di regolamenti di conti. Ma la comunità internazionale, come prima cosa, non è priva di risorse davanti a situazioni di questo tipo e si può benissimo immaginare, per la Siria del dopo carneficina, una formula paragonabile a quella che, nel Kosovo, impedì che i serbi rimasti sul posto fossero presi di mira e che, qui, incaricherebbe una forza dell'Onu, o soltanto araba, di vegliare alla ricostruzione civica del Paese. Inoltre, nulla impedisce ai capifila della coalizione che invierà gli aerei della libertà a salvare Homs, Houla o Aleppo di abbinare alla loro iniziativa richieste di garanzie sulla natura del futuro Stato e dello statuto che sarà riservato alle minoranze confessionali. Tali garanzie non sono mai assicurazioni, naturalmente. Ma il precedente libico, anche qui, fa giurisprudenza e fede. Infatti, abbiamo visto come un Occidente amico, caritatevole, liberatore, abbia avuto voce in capitolo nei dibattiti del dopo Gheddafi. Il rifiuto del terrorismo, la riduzione della tentazione integralista islamica, la vittoria elettorale dei moderati, il fatto, infine, di aver evitato la vendetta generalizzata sono il segno di un popolo maturo che la dura esperienza dei combattimenti ha innalzato, nobilitato, liberato di una parte dei suoi cattivi demoni, illuminato. Ma sono anche, in Libia, il frutto di una fratellanza di armi inedita fra la gioventù araba e gli aviatori e i responsabili europei e americani che, per la prima volta, apparivano come gli amici, non dei tiranni, ma dei popoli. Il desiderio di questa fratellanza sarebbe, se necessario, un'altra ragione di applicare al più presto il dovere di protezione dei civili siriani.

(traduzione di Daniela Maggioni)

BERNARD-HENRI LÉVY

15 agosto 2012 | 18:03 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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