LA-U dell'OLIVO
Ottobre 30, 2024, 01:09:33 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Viviana Mazza. Donne inseguite da fantasmi.  (Letto 2319 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Luglio 30, 2012, 09:33:05 am »


SIRIA

Donne inseguite da fantasmi.

Sono vittime degli spettri, shabiha, miliziani pro-regime che hanno fatto irruzione nelle loro case, di notte, per uccidere.

Madri e sorelle di uomini trucidati (o nascosti) raccontano ciò che hanno visto. E ciò che conta oggi: sopravvivere

di Viviana Mazza - 24 luglio 2012

Nel centro di Damasco, le bombe dei ribelli scrivono una nuova storia di sangue fin dentro i palazzi del potere: l'Esercito Libero punta direttamente al cuore del regime di Assad. Ma le periferie povere della capitale raccontano i drammi dei profughi, gente comune, soprattutto donne, madri, mogli e sorelle che hanno perso i loro uomini e hanno visto l'orrore della guerra civile.
Le prime che incontriamo sono in una stanza spoglia, nella zona povera della capitale. Stanno accovacciate sul pavimento, le loro valigie ammonticchiate in un angolo. Quattro generazioni: la matriarca di 55 anni in vestaglia lilla, le tre figlie trentenni, due nipoti adolescenti, una delle quali già madre, e tre bambine. Siedono tra le pareti corrose dall'umidità, ai piedi di un unico letto su cui giacciono addormentati due neonati e di un'unica mensola su cui sta appoggiato un piccolo specchio. Servono generosi bicchieri di succo d'arancia, come se aggrappandosi ai rituali dell'ospitalità ritrovassero un barlume della dignità negata dagli eventi. Raccontano d'essere fuggite a un massacro a Karm Zeitun, quartiere sunnita nella città di Homs. «Era notte, dormivamo, hanno bussato alla porta. Un uomo ci ha detto: arrivano gli shabiha. Siamo scappate. Tre famiglie sono state uccise, le nostre case bruciate». Accusano i miliziani proregime, detti shabiha, fantasmi. Il governo dà la colpa ai "terroristi", ma le donne replicano: «Riconosciamo gli shabiha. Erano i nostri vicini. L'hanno fatto perché i ribelli dell'Esercito Libero avevano ucciso uno dei loro. Ma noi che c'entravamo?».

Omm Mohammed, 32 anni, è l'unica a rivelare il suo nome. Dice di aver partorito sotto le bombe, scortata in ospedale dai ribelli. Prende uno dei neonati e se lo mette sulle gambe. Dove sono gli uomini? «Mio marito faceva il fabbro, è morto» dice la matriarca. «Un attacco di cuore». Sono vaghe sui morti e ancor più sui vivi. «I nostri uomini hanno manifestato contro il regime, ma non hanno combattuto. Al massimo hanno aiutato l'Esercito Libero». Molte delle profughe rifugiate a Damasco sono fuggite insieme ai figli da città colpite dagli scontri tra il regime e i ribelli. Vivono nell'incertezza, con la carità di benefattori e della Mezzaluna Rossa. Ormai sentono le esplosioni anche nella capitale. «Ma non abbiamo un altro posto dove andare ». Nei loro occhi però non leggi la disperazione. E se qualcuna scoppia in singhiozzi improvvisi, subito torna a guardarti con gli occhi asciutti. È più urgente sopravvivere, anche per i figli, che ascoltano senza censure le storie di massacri e di stupri.

In un altro appartamento, nel nord della capitale, la tv è accesa, la famiglia riunita in salotto, anche se quella non è casa loro. Sono damasceni che si nascondono perché alcuni degli uomini sono ricercati. La figlia di 8 anni è preparata: «Se vengono da me gli dirò: non usate il coltello, sparatemi, è più facile». Il fratellino cicciottello gioca col papà. «Vuoi la libertà?» chiede, mentre schiaffeggia il genitore fingendo d'essere un agente dell'intelligence. Alcune profughe sono piene d'odio. «Non potremo mai più vivere insieme agli alauiti» dice Omm Bilal, ventitreenne, figlia di un imam sunnita di Homs, rifugiatasi nel quartiere di Sayida Zainab col marito che ora le siede accanto, silenzioso. Parla del gruppo religioso cui appartiene la famiglia del presidente Assad. Ed estende il risentimento all'intera comunità, minoritaria in Siria. «Gli agenti della sicurezza entravano nelle case cercando gli uomini e stupravano le donne: prendevano di mira le ragazze velate. È successo a una mia vicina. Poi gli altri hanno fatto lo stesso con i nemici». Quando un amico del marito entra in casa, corre a mettersi un velo che le copre i capelli e il petto.

Non tutte le profughe restano in un angolo ad aspettare. «Sono stata tra gli ultimi a fuggire da Duma» racconta una donna davanti a un tavolino colmo di medicine, nella casa del fratello. La sua città, contesa, è a dieci chilometri da Damasco e lei dice di portare cibo e farmaci alle poche famiglie rimaste in centro e ai ribelli nelle campagne. «Sulla strada ci sono quattro cecchini. Ieri l'ho percorsa tre volte, un proiettile mi è passato davanti». Alta, in un lungo cappotto marrone, ha le mani grandi, da uomo, e il volto incorniciato da un velo nero. La probabilità di morire? «Il cento per cento. Come quella di sopravvivere. Ma se muori, muori da eroe» spiega. «Ho sempre lavorato duro, ma ho fatto una vita di stenti. Dopo le rivolte in Tunisia e in Egitto abbiamo cominciato a pensare che la colpa fosse del regime. A Duma anche noi donne abbiamo manifestato. E quando le proteste sono state represse, ho aiutato i feriti. L'ha fatto anche il fratello di mio marito, e l'hanno ammazzato davanti casa. L'Esercito Libero a Duma è composto per lo più di civili, perché da noi c'è una tradizione: se ti uccidono un familiare, tu cerchi vendetta». Parla e accarezza un gattino rosso: «Era rimasto a Duma per giorni, senza cibo. Ne avevamo un altro che è morto di fame, lui è sopravvissuto».

RULA JEBREAL: "LA GUERRA FA ORRORE MA IL CAMBIAMENTO È NECESSARIO"
Quando ha scritto il romanzo autobiografico La strada dei fiori di Miral nel 2003, la palestinese Rula Jebreal voleva raccontare cosa significasse essere donna in una zona di guerra. Oggi Rula, 39 anni, doppia cittadinanza israeliana e italiana, lavora per Newsweek e per la tv americana Msnbc. A giugno è stata per 48 orea Idlib, nel nord della Siria, entrando senza visto giornalistico. Ed è scioccata da ciò che ha visto.
Da donna araba, qual è la sua impressione?
Le scene di guerra sono tutte uguali e sempre scioccanti, che siano in Siria, in Afghanistan o altrove. Non c'entra l'essere araba, ma l'essere "umana", sensibile. L'odore della polvere da sparo, l'odore dei morti... è stato uno choc. Sembrava Beirut ai tempi del conflitto, con i muri dei palazzi bucati dai proiettili e la gente, dentro, costretta ad accendere i fuochi per cucinare. Ma sono anche una donna araba che crede nei cambiamenti. In Egitto, nel 2008 si diceva che la situazione non sarebbe mai mutata. Tre anni dopo c'era la rivoluzione. Credo nella volontà del popolo di ribaltare il sistema. Anche in Siria succederà, ma con la violenza.
Questa guerra dove porterà la Siria?
L'intero Stato sta crollando, non solo il regime. In America si ha molta paura del "dopo", ma tra l'opposizione locale ho incontrato leader istruiti e moderni. Sanno che l'Occidente non interverrà, hanno perso le speranze da un pezzo. Ma non immaginavo quanto fossero organizzati: non sono un'armata Brancaleone. Parliamo sempre dei 15 mila civili morti, ma non delle migliaia di soldati uccisi: come in tutte le guerre, anche in questa le vittime sono da entrambe le parti. Uno degli oppositori mi ha detto: «La rivoluzione deve essere sia morale che fisica, perché i governi non cedono mai senza che il popolo lo esiga». La chiamano la battaglia per il futuro.

RIMA DALI: "LE MIE MANIFESTAZIONI RAPIDE, PACIFICHE E SILENZIOSE"
«Noi non vogliamo che la rivoluzione sia violenta. Il problema è che, purtroppo, non c'è spazio per i metodi non violenti ».Una trentatreenne bruna e minuta, dalle labbra carnose, beve una birra libanese nell'afa serale di un locale di Beirut. Rima Dali è un'attivista siriana. Laureata in Legge, ha lavorato per agenzie Onu e organizzazioni non governative prima di diventare un simbolo delle proteste pacifiche contro il regime. Ad aprile Rima era scesa in strada a Damasco, sola, davanti al Parlamento, con un vestito rosso e uno striscione color sangue che diceva: "Fermate le uccisioni". È finita in prigione per alcuni giorni. Il locale è un luogo di ritrovo per giovani siriani pieni di nostalgia per il Paese da cui sono fuggiti: alcuni sono ricercati e c'è chi dice «Noi siamo la resistenza ». Ma Rima, che è a Beirut solo per pochi giorni, spiega che la sua resistenza è restare in Siria a tutti i costi, continuando a manifestare in modo pacifico, nonostante tutti gli ostacoli e i rischi di un conflitto sempre più militarizzato».
Quando è scesa in strada sapeva che sarebbe stata arrestata?
Sì ma non mi importava. Preferivo la prigione all'immobilità alla quale mi sentivo costretta. Sono stata depressa per un mese: avevamo tentato di organizzare manifestazioni pacifiche ma non funzionavano. Il regime aveva ucciso oltre cento persone in un giorno mentre l'Esercito Libero aveva preso la guida della rivoluzione. E la violenza aumentava. I disertori dell'Esercito Libero sono coraggiosi, rifiutano di farsi usare dalle forze governative. Ma la nostra via non è la guerra.
La via della protesta pacifica in Siria è ancora praticabile?
In Siria la violenza è sempre stata il linguaggio del regime. Impediscono i raduni in strada, due persone sono state uccise solo per aver scritto sui muri. Il regime ha spinto la gente a reagire con aggressività e questo gli fa gioco con i media internazionali, gli ha dato una ragione per uccidere. Abbiamo un futuro oscuro, conosciamo solo l'oggi e il domani ma non riusciamo a vedere oltre. Però mi creda, c'è sempre speranza. Da quando ho manifestato al Parlamento, la gente ha capito che ci sono ancora cose che possiamo dire e fare.
Perché, che cosa potete fare?
Se i media internazionali vedono la rivoluzione come islamica, noi dobbiamo mostrare l'altra faccia. È nata una società civile: questo è il primo valore della rivoluzione. E le manifestazioni continuano. Ne abbiamo fatta una alla Cittadella, nel cuore di Damasco, chiedendo il rilascio dei detenuti e la fine delle uccisioni: eravamo una ventina, con gli striscioni. Siamo stati lì tre minuti, abbiamo cantato l'inno nazionale e poi siamo rimasti in silenzio: se avessimo gridato avremmo rischiato aggressioni. Tra i passanti, c'era chi si mostrava d'accordo. Ma chi era contrario pensava d'avere il diritto di picchiarci. Il problema della Siria non riguarda il Parlamento o la Costituzione ma i diritti quotidiani. Si rischia di essere uccisi solo per aver espresso la propria opinione.

da - http://www.iodonna.it/attualita/primo-piano/2012/siria-guerra-civile-esercito-libero-proteste-40840455622_2.shtml
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!