Intervista a Ulrich Beck: tra società del rischio e cosmopolitismo
Abbiamo tradotto per voi un'intervista rilasciata dal sociologo tedesco alla rivista francese Philosophie Magazine, nella quale affronta l'analisi di alcuni dei suoi contributi teorici più noti
[11/06/2008]
Uno dei passaggi fondamentali della teoria della società del rischio è che "la paura crea la sua propria realtà". Che cosa significa?
Ulrich Beck Paradossalmente, la paura può creare un legame sociale attraverso una nuova forma di opinione pubblica. Prendiamo l’uragano Katrina: i reportages dedicati dai media internazionali alla Nouvelle-Orléans hanno diffuso in tutto il mondo terrore davanti alla povertà e al razzismo degli Stati Uniti.
L’Altro “escluso” è subito onnipresente e focalizza allo stesso tempo l’interesse nazionale dei paesi occidentali. I rischi globali ci costringono dunque a tenere in contro gli altri, i culturalmente altri, nelle nostre valutazioni del mondo. Ciò si ritrova nell’esempio dello tsunami nel Sud Est asiatico.
Dall’onnipresenza del rischio si genera quindi una forza di coesione sociale.
Perché il suo interesse si concentra oggi sulla “società mondiale del rischio”?
U. B. La mia teoria, esposta già nel 1986, si basa su una semplice constatazione: la produzione di ricchezza è ormai intimamente legata alla produzione dei rischi, come dimostra l’esempio dell’energia nucleare. Ciò pone un problema di giustizia sociale. Se una parte solamente della società profitta di certe ricchezze, la depredazione dell’ambiente – una nube tossica radioattiva o un mare inquinato da petrolio – colpisce tutte le classi sociali e supera ogni confine. Vent’anni fa, ragionavo ancora molto in termini nazionali. All’epoca, la mondializzazione del rischio non era ancora percettibile. Perciò ho voluto riformulare la mia teoria, identificando le diverse categorie del rischio, nuove e transnazionali: le catastrofi naturali, come il cambiamento climatico e le sue conseguenze; i grandi rischi tecnici generatisi dalle nanotecnologie o dalle tecnologie dell’informazione; e, infine, una diversa forma di rischio, il terrorismo.
In tutti questi casi, la questione consiste nel prevenire le conseguenze delle catastrofi, rendendo l’azione politica necessaria.
Secondo le sue teorie, siamo entrati nella «seconda modernità »…
U. B. La modernità è un movimento iniziato con il Rinascimento, che si è affermato in Europa sotto i Lumi, permettendo un rapido sviluppo delle scienze e della tecnica. La modernità è legata al successo della razionalità, ma, allo stesso tempo, al progressismo e al positivismo. Ha dato il là alla rivoluzione industriale. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo abbandonato l’idea del progresso e siamo entrati in una fase di incertezza profonda, sia nel dominio delle scienze con il relativismo, sia nel dominio della tecnica con l’emergere di nuove minacce, quali la bomba atomica, sia in quello dei costumi con l’indebolimento dei punti di riferimento tradizionali.
Per questo filosofi come Lyotard impiegano il termine di “postmodernità”: noi saremmo entrati nel “post”, in una fase di critica e di dubbio. Per quel che mi riguarda ho un’altra visione del mondo attuale. Credo che siamo entrati in una seconda modernità riflessiva, ossia dove il rapido sviluppo delle scienze e della tecnica prosegue, ma il suo processo di crescita non può più essere ingenuo.
Ci obbliga continuamente a interrogarci, sia a un livello individuale che collettivo, su ciò che stiamo facendo e sperimentando. Dobbiamo gestire i rischi inerenti al dominio umano, come dimostra il problema cruciale del riscaldamento climatico.
Perché l’Europa è diventata l’ultima utopia attiva politicamente?
U. B. Perché non ne vedo altre! L’Europa interessa agli Europei. Anche le posizioni contrarie di francesi e olandesi alla Costituzione seguitano ad avere una visione dell’Europa. Non hanno detto «no» all’Europa, ma al modello europeo che a loro era stato proposto come troppo liberale. Se le persone discutono così tanto di Europa, ciò dimostra che è un’utopia reale, effettiva.
Per quel che mi riguarda, auspico la nascita di un’Europa cosmopolitica (“cosmopolitique” in originale nel testo). Non tanto un dispositivo istituzionale, intendo con ciò un insieme all’interno dei confini nei quali la diversità è riconosciuta. Nel cosmopolitismo, è importante riconoscere il fardello e la dignità dell’Altro. Fardello nel senso che ogni minoranza e ciascun gruppo, all’interno come all’esterno dell’Europa, porta il peso del suo passato – le popolazioni migranti, le minoranze religiose, le donne, gli omossessuali, etc. Qui risiede il centro della mia concezione del cosmopolitismo: una forma particolare di gestione sociale dell’alterità culturale.
In che cosa il cosmopolitismo come l’ha descritto si differenzia dal multiculturalismo?
U. B. Il multiculturalismo, come lo si può osservare in Gran Bretagna, è un monoculturalismo plurale. Ad esempio, un pakistano-britannico non è definito che attraverso questa doppia etichetta. Questa definizione è discriminante perché non si interessa che a un solo aspetto della sua identità. Forse quest’uomo è un ornitologo o un colto conoscitore della letteratura inglese, per quel che ne so tutti abbiamo diverse identità. Ma, all’interno del multiculturalismo, conta solo l’appartenenza a un gruppo omogeneo. Il cosmopolitismo è aperto all’ambiguità, alla pluralità delle appartenenze – ad esempio si può essere allo stesso tempo un ecologista militante, impiegato nel terziario, omosessuale e di origine vietnamita.
Sempre meno le persone accettano di rientrare in una categoria. L’individualismo si accentua. Individualismo e cosmopolitismo si incoraggiano a vicenda.
Perché ha scelto come titolo della sua ultima opera “Per un impero europeo”? Il termine “impero” è una risposta alla critica dell’imperialismo sviluppata da Toni Negri e Michel Hardt nel loro ultimo libro “Impero”?
U. B. L’Europa è un impero della seconda modernità. Si tratta di un impero radicalmente nuovo poiché composto di Stati che non hanno affatto vocazione a essere dissolti. E’ un sistema politico che non è mai esistito nella storia. Come Toni Negri, pure io penso che lo stato-nazione debba essere superato. Ma la sua filosofia marxista non fa alcuna differenza entro l’Europa e gli Stati Uniti: secondo lui, sono entrambi due imperi capitalisti. Ora, l’impero americano è un vecchio impero, fondato sul potere militare, mentre l’Europa incarna una nuova forma di impero post-egemonico, appoggiandosi sul diritto e il consenso. Questo impero non è meno potente poiché l’Europa si pone allo stesso livello degli Stati Uniti e, nell’avvenire, sfiderà l’impero americano con il suo modello politico.
Il sistema di un impero fondato sul consenso tra differenti popoli potrebbe propagarsi in differenti regioni del mondo: in Giappone, in Corea… L’impero cosmopolitico può diventare una risposta all’unilateralismo degli Stati Uniti e al neo-nazionalismo.
Perché rimprovera agli intellettuali di fuggire la complessità del mondo?
U. B. Ritengo che gli intellettuali europei, in particolare i francesi, siano disinformati e troppo scettici. Comprendo questa resistenza francese al cosmopolitismo. La nazione francese, laica, ideale, profondamente legata alla repubblica è un modello affascinante.
La mia concezione d’Europa cosmopolitica d’altra parte ha delle affinità con la coscienza nazionale francese. Ma il riconoscimento della diversità è più forte del bisogno di unità. In questo si oppone all’universalismo francese. Resto comunque sorpreso che il dibattito sulla globalizzazione e sul cosmopolitismo non sia davvero ancora stato accettato in Francia.
Alcuni intellettuali europei, come Zygmunt Barman, hanno anche loro tracciato i contorni di una “società mondiale del rischio”, ma puntando sulla precarietà e l’ossessione di sicurezza generatesi dalla globalizzazione. Come giudica la loro reazione?
U. B. Zygmunt Bauman non è soltanto un amico, è anche uno dei più grandi sociologi della nostra modernità e, di certo, uno degli intellettuali più pessimisti che si possa incontrare. La sua posizione è seducente ma falsa. I rischi attuali sono imprevedibili e ambivalenti: se da una parte generano catastrofi, dall’altra creano nuove aperture nel mondo.
Guardi, noi lavoriamo qui a Monaco con l’Istituto di Storia del Rinascimento ed è molto interessante comparare la nostra epoca con quella del XVI e XVII secolo, all’indomani delle guerre di religione. Poiché il pensiero metafisico era un tutt’uno con quello religioso e la guerra aveva distrutto qualsiasi speranza, regnava tra gli intellettuali europei un profondo pessimismo, come nei nostri giorni. I pensatori, in particolare i tedeschi, affermavano che non poteva nascere più nulla. E tuttavia, a partire dal XVIII e dal XIX secolo un nuovo ordine moderno è apparso, abbiamo inventato la democrazia moderna, tanto naturale per noi oggi. In tutti i tempi ci sono stati degli intellettuali che annunciavano la fine del mondo, ma quella non ha mai avuto luogo!
Per lei il primo atto cosmopolitico è il processo di Norimberga. I Tedeschi hanno più bisogno di altri di un’Europa cosmopolitica per fuggire dai demoni del nazismo?
U. B. E’ vero che l’identità europea attira fortemente i Tedeschi. Nonostante questo, il cosmopolitismo non è un’invenzione tedesca del dopoguerra. Credo piuttosto che la principale risposta al nazismo sia stata la democrazia nazionale. E’ in Gran Bretagna che la mia riflessione sul cosmopolitismo è stata accolta con maggiore entusiasmo. Senza dubbio a causa del legame che i britannici hanno con le loro antiche colonie.
Intervista originale in francese rilasciata a Oriane Jeancourt-Galignani da Ulrich Beck per il sito Philosophie Magazine e tradotta per Tesionline.it da Manuel Antonini.
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http://sociologia.tesionline.it/sociologia/intervista.jsp?id=2359