Sulla crescita passare ai fatti
di Giuliano Amato
1 aprile 2012
È venuto a trovarmi in questi giorni un mio amico greco, un professore molto stimato in patria e fuori, che ha dato vita ad Atene ad una eccellente istituzione di formazione e di ricerca, con ramificazioni in diversi paesi, soprattutto dell'est europeo. Preciso queste cose per sottolineare che non si tratta né di uno sprovveduto, né del greco delle vignette mitteleuropee, disteso pigramente al sole in attesa che qualche tedesco paghi il conto delle sue spese.
Ebbene, mi ha fatto un quadro del suo paese davvero sconfortante, descrivendomi un assetto istituzionale e amministrativo, nel quale - parole sue - «nessuno fa niente», ed una società nella quale dominano ormai la sfiducia, la passività, il rinchiudersi in una vita sempre più piccola e sempre più povera. Naturalmente si chiede come salvare i suoi figli dal desolante futuro che così si prefigura. Vorrebbe mandandoli a crescere e a studiare altrove, sempre che la morsa della crescente tassazione gli lasci i soldi per farlo.
In Grecia dunque, al di sotto e al di là di una vicenda finanziaria della quale si parla sui mercati come di un relativo successo - si è evitato il fallimento e il paese è ancora nell'euro - è davvero cominciato il grande freddo. Ed è cominciato con tutte le caratteristiche che i manuali di economia attribuiscono alle recessioni gravi, nelle quali si crea un circolo vizioso senza vie d'uscita. Gli imprenditori non investono, perché le loro aspettative nel futuro non vedono nulla di buono, i pochi che lo farebbero non trovano i capitali necessari, perché le banche sono dominate loro stesse dal timore di aumentare soltanto le già cospicue sofferenze, i consumatori non comprano, perché il poco che hanno se lo tengono per affrontare una vita sempre più piena di incertezze e di bollette e tasse da pagare. Quando i governi sono partecipi dello stesso clima e incapaci di introdurre in quel contesto antidoti efficaci, il circolo vizioso è completo.
Se la Grecia ci si trova dentro - conveniva il mio amico - è certo colpa dell'unilateralità delle politiche europee, che di sicuro non si sono mai preoccupate di verificare se il malato sarebbe sopravvissuto alla cura. Ma la ragione principale - aggiungeva con inattesa cattiveria mitteleuropea - è che la Grecia è abitata dai greci, rimasti fondamentalmente statalisti e sprovvisti di quell'attitudine a reagire e di quell'arte di fare possibilmente da sé, che ha sempre caratterizzato gli italiani nella loro lunghissima storia.
Mi confortava, da italiano, sentirgli dire queste cose. E mentre lo ascoltavo misuravo la distanza che c'è tuttora fra l'Italia e la Grecia. L'organismo economico italiano continua ad avere zone di forte vitalità, a partire dalle sue imprese esportatrici che in più casi hanno chiuso il 2011 meglio di quanto avessero fatto nel 2010. I consumi sono fortemente diminuiti, ma siamo ancora lontani dal deserto greco. Abbiamo uno stato che, con tutti i suoi difetti, funziona ancora e c'è in esso un governo che gode del maggioritario consenso dei suoi cittadini e che è riuscito a riassestare il debito pubblico, non con un concordato al ribasso con i suoi creditori, ma ridando fiducia sui mercati ai titoli italiani.
Viva l'Italia, dunque, ma fino a un certo punto, perché non siamo malati come la Grecia, ma i primi sintomi si stanno affacciando anche da noi e allora tutto ciò che abbiamo di meglio, a partire dal nostro Governo, lo dobbiamo mettere subito a frutto, per fermarli finché siamo in tempo. I fatti preoccupanti che hanno preso ad accadere anche in Italia li conosciamo tutti e i numeri ne sono soltanto una parte, si tratti di quelli sulla caduta della produzione industriale, sul «marzo orribile» di cui ha parlato Sergio Marchionne, sugli esercizi commerciali e sulle piccole imprese che muoiono e su quelle che hanno cessato di nascere, sui giovani senza lavoro. Al di là dei numeri, c'è il pericolo, sempre più reale, che prenda piede il pessimismo e che questo porti con sé lo scoramento, la rinuncia a impegnarsi in nuovi tentativi, l'appagamento cercato più che nella realizzazione di sé, nella recriminazione contro gli altri. Ed anche di tutto questo cogliamo, nella nostra esperienza quotidiana, segni crescenti.
È su questo fronte, allora, che dobbiamo far valere le migliori armi di cui rispetto ad altri disponiamo. E se la prima è il nostro governo, è giusto che si sia subito dedicato ai temi più strutturali dai quali dipende la nostra crescita nel medio termine, ma è bene che ora abbassi lo sguardo anche al presente e ne contrasti l'avvitamento. Qui il capitolo che si apre non è quello delle grandi riforme, è quello delle soluzioni pratiche che portano l'ossigeno laddove questo è urgentemente richiesto. Pensiamo all'ossigeno finanziario di cui hanno bisogno le imprese ancora pronte ad investire ( e ancora mosse - per nostra fortuna - da aspettative positive) e alla stretta in cui molte di loro si trovano da mesi, chiuse fra i crediti di cui lo Stato ritarda o nega loro il pagamento e i prestiti che non riescono a ricevere dalle banche.
Il governo può ammettere a compensazione crediti e tributi, può organizzare con le banche - e vedo che comincia sia pure con circospezione a farlo - una sorta di factoring per l'acquisto da parte loro dei crediti delle imprese nei suoi confronti, può avere un ruolo nell'evitare quel credit crunch (paralisi dei crediti) che le banche negano, ma di cui le imprese hanno cominciato a fornire testimonianze quotidiane. E poi ci sono le opere pubbliche, i progetti già cantierabili, i lavori locali con i quali comuni e province hanno tenuto su per anni le loro economie e che ora il governo, almeno per la parte in cui li ha lasciati sopravvivere alla stretta finanziaria, ha interesse più a benedire che a contrastare
Non sto proponendo nulla di nuovo. Sono cose di cui si parla da tempo e di cui ha parlato più volte lo stesso ministro Corrado Passera. Qualche banca, del resto, si è già data meritoriamente una mossa e reclamizza ora i suoi progetti per l'Italia.. È bene allora che le cose dette diventino per tutti cose che si fanno. Il paese oggi apprezza giustamente il governo, ma se dovesse dilagare fra gli italiani la sfiducia di ciascuno nel proprio futuro, se il peso (destinato ad aumentare) di imposte e bollette generasse un crescente malessere sociale al fianco di quello già visibile di chi perde il lavoro o sta finendo fra i cosiddetti esodati, questo stesso apprezzamento inevitabilmente cadrebbe. E il grande freddo arriverebbe anche da noi.
Non ce lo possiamo permettere. È vero - direbbe il mio amico - che l'Italia è abitata dagli italiani e non dai greci, ma c'è un limite anche alla nostra arte di fare da soli e ce lo insegna la nostra storia. A periodi di grande crescita, addirittura di autentico splendore, sono seguiti non solo decenni, ma a volte secoli di desolante declino. Proviamoci subito ad invertire la china.
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