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Autore Discussione: L'intervista: Il successore di Arafat incontra a Ramallah Monti ...  (Letto 2195 volte)
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« inserito:: Aprile 08, 2012, 05:28:43 pm »

L'intervista Il successore di Arafat incontra a Ramallah il capo del governo di Roma

«Il premier in Palestina è un buon segno»

Se si negozia, gli israeliani devono smettere di costruire sulla nostra terra Abu Mazen: vogliamo che l'Italia sia equa e leale


Dal nostro inviato  FRANCESCO BATTISTINI

RAMALLAH (Cisgiordania) - I nuovi uffici non sono ancora pronti. «Peccato, volevo ricevere lì Mario Monti, è da molto tempo che un primo ministro italiano non viene alla Muqata: lo considero un buon segno...». Abu Mazen e il Professore s'incontrano oggi e il presidente dell'Autorità palestinese, di fianco alla stanza che fu d'Arafat («a proposito, ho visto che Suha, la vedova, vorrebbe tornare a Ramallah: può farlo quando vuole, è la benvenuta, le daremo protezione...»), si concede una sigaretta e un pò di curiosità.

Berlusconi sulla stampa israeliana invita a non cambiare la politica italiana in Medioriente? Non c'è stupore: «Non vogliamo che l'Italia cambi la sua politica. Ma solo che sia equa e leale. Siete nostri amici e allo stesso tempo siete amici d'Israele? Berlusconi è stato un grande tifoso d'Israele, a volte ha avuto posizioni singolari? Non importa, ci va bene quest'abilità italiana d'essere amici d'entrambi, perché può fare molto. Ma ora si dovrebbe guardare dov'è la giustizia. Vi chiedo: siete d'accordo o no con quel che fanno i coloni nei Territori? Siete per il diritto dei palestinesi a costruire un loro Stato? Siete con Israele nel suo sforzo per mantenere la sicurezza? Vi siete sempre pronunciati per il ritorno ai confini del '67? Okay: come potete mettere in pratica questi slogan? A chi ha torto, ora bisogna dire che ha torto. Sarei stato felice se qualcuno, Berlusconi o qualcun altro, m'avesse detto: Mr Abu Mazen, stai sbagliando. Nessuno l'ha mai fatto. Obama non mi ha mai rimproverato un solo errore. E allora bisogna essere leali. Non nell'interesse mio, ma della pace, della regione e anche d'Israele. Perché se c'è pace, c'è salvezza anche per Israele».

Se si vuole la pace, però, ci si deve anche confrontare. Quando siederà di nuovo a un tavolo con Netanyahu?
«La correggo: noi non vogliamo alcun confronto con Israele. Vogliamo parlarci. Un incontro con Netanyahu è in agenda...».

Quando?
«In queste ore, ho mandato una lettera al primo ministro e ad altre due personalità israeliane, la prima dopo tanto tempo, per vedere se c'è almeno una reazione su quel che possiamo fare. Ma la mia è un'Autorità senza autorità, una sagoma vuota, perché non si vuole trovare alcuna soluzione. Tutto è in stallo. Nulla si muove. Noi vogliamo andare al negoziato, ma su basi autentiche e legali. Niente di più.
Non vogliamo inventarci altre basi, rispetto a quelle fissate dalla legittimazione internazionale. Che sono il ritorno ai confini del '67 e uno scambio concordato. E' molto semplice. E se si negozia, gl'israeliani devono smettere di costruire sulla nostra terra. Loro la considerano terra contesa? Ok, stiamo fermi finché non troviamo una soluzione - dov'è la nostra terra, dov'è la vostra - e poi tracciamo una riga.
Loro, invece, ogni giorno loro hanno progetti, costruzioni dappertutto. E non vogliono riconoscere la soluzione dei due Stati».

Israele dice che basterebbe riconosceste l'ebraicità del loro Stato...
«Dice questo e altro. Pone precondizioni. Dalla pace di Oslo, e fino a due anni fa, nessuno aveva mai fatto cenno a questa cosa dello Stato ebraico. Adesso non fanno che ripeterla. Dal '93, riconosciamo Israele e il suo diritto d'esistere. Ora loro cambiano il tavolo della trattativa. Se vogliono cambiare nome, natura, qualunque altra cosa, non è affar nostro. Che significa, poi, Stato ebraico? E chi è più israeliano? Un ebreo che vive all'estero da sempre, in un Paese lontano, o un arabo o un druso che vive da decenni in Israele?».

Non sembra che Netanyahu si preoccupi molto delle vostre posizioni. Il suo problema adesso è l'Iran. Per vicinanza geografica, è anche un problema vostro...
«Noi siamo contrari al nucleare di chiunque, in questa regione. Se poi America e Israele vogliono attaccare Teheran, non è affar nostro.
Abbiamo altre cose cui pensare».

Quindi, continuerete con la vostra intifada diplomatica per il riconoscimento all'Onu?
«Ma perché parla d'intifada? Non abbiamo dichiarato guerra a nessuno e finché io sarò qui, non si parlerà più di un'intifada con le armi.
La cooperazione per la sicurezza con gl'israeliani si manterrà. Il nostro è un tentativo diplomatico. Se devo lamentarmi, lo faccio con Dio o con la più grande istituzione del mondo, l'Onu. Vogliamo solo dire al mondo che siamo sotto occupazione, unico Paese al mondo, e vogliamo uscirne. Se all'America questo non piace, non è affar mio: ci hanno chiesto una pausa fino a fine anno, ma noi non possiamo stare paralizzati. Se continueremo su questa via, e spero che l'Italia all'Onu ci sostenga col suo voto, dipende solo dagl'israeliani. Prenda Gerusalemme: perché gli arabi e i musulmani non possono visitarla? Se si va avanti così, questa città diventerà solo un posto per ebrei e questo dovrebbe preoccupare sia i musulmani che i cristiani...».

I cristiani sono preoccupati dalla vostra decisione di dichiarare Betlemme «patrimonio culturale palestinese»: quello è un luogo che appartiene al mondo...
«La questione che abbiamo posto all'Unesco non riguarda la Basilica della Natività. Quella è dei cristiani. Ma tutto quello che c'è intorno, la città, è un patrimonio nostro».

Il vostro deficit statale è drammatico: che spazio di manovra avete, sulla scena internazionale?
«Il momento è molto critico. Finché restiamo sotto occupazione, abbiamo bisogno d'assistenza. Ogni mese, gl'israeliani minacciano di sequestrare le nostre entrate fiscali. Soldi nostri che si tengono loro. E' chiaro: se i donatori internazionali smettono d'aiutarci, rischiamo il collasso già dal prossimo mese. L'America, l'Europa. Ma anche i Paesi arabi: alcuni ci aiutano, altri sono riluttanti. Un esempio? Il nostro caro amico Gheddafi. Parlava sempre di solidarietà, ma non ci ha mai dato un penny. E anche i nuovi governanti libici hanno fatto promesse, ma finora nemmeno loro hanno dato un penny».

Le primavere arabe vi cambieranno la vita?
«Forse. Ma ci vorrà tempo per raggiungere la stabilità. Io ammiravo Mubarak, ci ha aiutato molto. Poi il popolo ha deciso di cambiarlo, ne aveva il diritto, e io non ho più chiamato l'ex presidente, anche se avevamo ottime relazioni, perché non voglio interferire negli affari interni egiziani. Però sono appena stato a Baghdad e al Cairo. E l'Egitto, penso, rischia di diventare ancora più instabile dell'Iraq. Anche per Hamas le cose forse cambieranno, ora che hanno tagliato il loro legame critico con la Siria: ho concluso un accordo con loro, un anno fa, e sto ancora aspettando che tolgano le restrizioni elettorali, aggiornino le liste degli elettori con 250mila palestinesi che non sono registrati, ci consentano d'organizzare nuove elezioni... Appena lo faranno, il giorno dopo sarò il primo ad andare a Gaza. Noi siamo qui, non possiamo far altro che vedere se Europa e America vogliono creare questo Stato palestinese. Ma adesso. Perché le cose in futuro possono cambiare dappertutto. Chi può dire che una primavera araba non arriverà anche qui?».

E lei ci sarà?
«Se e quando ci saranno le elezioni, io non correrò. Tornerò a casa mia. La stessa casa che avevo prima di diventare presidente.
E' a meno d'un chilometro dalla Muqata: guardi, si vede da qui».

Chi erediterà la sua poltrona?
«L'eredità bisogna meritarsela».

Francesco Battistini

8 aprile 2012 | 9:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/12_aprile_08/premier-in-palestina-francesco-battistini_b21311e8-8145-11e1-9393-421c9ec39659.shtml
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