Cultura
06/11/2011 -
Vietti: "Vi racconto la fatica dei giusti"
Intervista al vicepresidente del Consiglio Superiore della MagistraturaALAIN ELKANN
Torino
Michele Vietti, lei che è vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha appena pubblicato per l'Università Bocconi Editori «La fatica dei giusti (come la giustizia può funzionare)».
Chi sono i giusti?
«Chi crede nella giustizia con la G maiuscola come ideale di una convivenza ordinata e nella giustizia con la g minuscola intesa come macchina da far funzionare ogni giorno. Perciò sono giusti sia gli operatori che amministrano con scrupolo la giustizia, sia i cittadini che attendono con fiducia una risposta alle loro domande di giustizia».
Lei, nel suo libro, ammette che la nostra giustizia non funziona bene, rispetto ad altri Paesi Ocse. Quali sono le principali pecche del sistema?
«Nel primo anno di mandato, girando per il mondo, ho avuto la conferma dell'apprezzamento di cui godono i magistrati italiani all'estero, i più richiesti per le missioni nei Paesi in cui si combatte la criminalità organizzata o si impiantano nuovi sistemi giudiziari. Anche la loro produttività non è inferiore alla media europea».
E allora che cos'è che non va?
«Secondo me le macro-cause sono due: la prima è l'eccessiva litigiosità. Sembra quasi che a uno scarso senso dell'etica pubblica corrisponda l'esigenza di scaricare sul sistema giudiziario tutte le attese di giustizia. Da noi la tentazione di non rispettare le regole è tanto forte quanto quella di pretendere che le rispettino gli altri. La seconda è un sistema processuale troppo farraginoso. Tre gradi di giudizio sempre e comunque sono un lusso che non possiamo più permetterci, soprattutto di fronte al pressing dell'Europa e del sistema economico che ci chiedono risposte tempestive».
Per esempio?
«Ho appena incontrato il Presidente della Corte Suprema americana John G. Roberts e il giudice anziano Antonin Scalia: la Corte Suprema americana, che corrisponde nelle sue funzioni sia alla nostra Corte Costituzionale che alla Corte di Cassazione, decide in un anno 80 casi. Da noi la sola Cassazione è inondata ogni anno di 30 mila ricorsi civili e 50 mila ricorsi penali e gravata da un arretrato di oltre 100 mila ricorsi».
Come è possibile tale differenza?
«Là, negli Stati Uniti, la scelta è totalmente discrezionale; da noi c'è un diritto alla decisione che non ha filtri».
Qual è il suo ruolo e quello del Csm?
«La Costituzione ha voluto un governo dei magistrati del tutto autonomo dal potere politico e lo ha affidato a un organismo composto da 16 magistrati eletti dai loro colleghi e da otto avvocati e professori universitari eletti dal Parlamento. Tra gli otto viene eletto il vicepresidente. Sono membri di diritto il Primo Presidente e il Procuratore Generale di Cassazione. Il Presidente è il Capo dello Stato che delega al vicepresidente le funzioni esecutive».
Quali sono i vostri compiti?
«Il Consiglio gestisce tutta la vita del magistrato da quando entra in carriera alle valutazioni di professionalità fatte ogni quattro anni, ai trasferimenti di sede, alle nomine, agli uffici direttivi, alle sanzioni disciplinari, fino al pensionamento a 75 anni».
Quest'organo funziona come lei vorrebbe?
«La scelta dei capi degli uffici dovrebbe avvenire senza lasciare i posti scoperti troppo a lungo. Però ho trovato al Consiglio persone preparate e scrupolose che fanno con grande dedizione il loro mestiere».
Si parla molto di giustizia politicizzata, strapotere dei magistrati, separazione delle carriere.
«La separazione della carriera di pubblico ministero e giudice è un falso problema. Già oggi per cambiare funzione bisogna cambiare regione, il che riduce i casi a qualche decina all'anno. In ogni modo mi preoccuperebbe molto un gruppo di pubblici ministeri a vita, autoreferenziale e ancora più corporativo».
Ma per quanto riguarda la politica?
«Non credo alle tesi complottiste perché la magistratura è un potere diffuso e addirittura frantumato, anche se non possono negarsi iniziative estemporanee. Lo stesso Presidente della Repubblica ha censurato l'uso eccessivo della carcerazione preventiva. Ma è paradossale che i governi di qualunque colore e i parlamentari di qualunque maggioranza pensino di risolvere i problemi socio-economici introducendo nuovi reati, anziché depenalizzare quelli esistenti, che sono già troppi. In un Paese come il nostro, ad azione penale obbligatoria, ciò innesca un meccanismo che dall'iniziativa del pubblico ministero porta fino al processo penale, salvo non riuscire a celebrarlo perché l'eccessivo numero spesso lo fa prescrivere».
Ma il nostro Paese è in forte sofferenza?
«Sul fronte della giustizia urge fare le riforme strutturali che garantiscano tempestività e prevedibilità della risposta. Abbiamo un codice civile che, salvo per le società commerciali che ho avuto l'onore di riformare all'inizio degli anni Duemila quando ero sottosegretario alla Giustizia, risale al 1942».
Ma il vero responsabile oggi in Italia, in Europa e nel mondo è la politica?
«La politica sembra incapace di decidere a tutti i livelli e priva di una visione di ampio respiro. In questa assenza proliferano gli interessi particolari e gli egoismi di gruppo. Più la politica è debole, più ci si allontana dalla possibilità di fare sintesi nell'interesse generale. Le istituzioni vanno servite e difese e non delegittimate. Devono rappresentare l'equilibrio complessivo dello Stato».
Ma in tutto questo come interpreta e come svolge il suo ruolo?
«Il mio compito è di garantire l'equilibrio del Consiglio, un organo collegiale in cui sono presenti diverse sensibilità e che fino ad oggi ha sempre parlato con una voce sola. La mia aspirazione è interpretare questa funzione con il senso istituzionale che mi viene dalla cultura sabauda, che ha fornito tanti servitori allo Stato».
Ha rimpianti per la politica?
«Sono compensati da un supplemento di passione per la politica giudiziaria».
da -
http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/428404/