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Autore Discussione: Andrea ZANZOTTO -  (Letto 4440 volte)
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« inserito:: Ottobre 03, 2011, 11:16:50 am »

Andrea Zanzotto (1921)
      
   
Un caso letterario per molti e diversi motivi, di Andrea Zanzotto, a sorprendere è innanzitutto la inossidabile prolificità: i suoi esordi letterari risalgono al finire degli anni Trenta ed il suo ultimo libro è stato pubblicato nel 2001. Nell’arco di questi quasi settant’anni ha scritto e pubblicato decine di opere. È sorprendente questa longevità soprattutto se rapportata alla coerenza tematica che contraddistingue la sua poesia: è costante in lui un lavoro di ricerca e sperimentazione sul linguaggio, pur nella fedeltà ai suoi temi ed ai suoi paesaggi.

Nato a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, il 10 Ottobre 1921, Andrea Zanzotto è sempre rimasto intensamente attaccato alla sua terra, allontanandosene di rado: le frequentazioni universitarie, il servizio militare e la successiva partecipazione alla guerra di resistenza, una parentesi di lavoro in Austria ed i pochi viaggi per rispondere agli obblighi del suo lavoro di letterato. Se si presenta come apparentemente scarna la biografia, ampia invece è la produzione poetica che assieme ad un mai interrotto lavoro di saggistica ed a qualche prova di narrativa, copre un arco di tempo che va dall’immediato dopoguerra fino ai giorni nostri.

Anagraficamente Andrea Zanzotto rientra in quella «prima generazione postbellica» che risponde ad una «insolitamente vasta chiamata alla poesia», «nel clima di generico, ma intenso e fortemente partecipato, risveglio culturale e di fervida ripresa della parola» (come si premunirà egli stesso di illustrarci in un suo Intervento apparso in «Poesia Italiana Contemporanea» di Giacinto Spagnoletti).

La poesia di Zanzotto comincia a circolare nell’ambiente letterario intorno agli anni ’50, e pur premiata dall’avallo di una giuria straordinaria che gli assegnò proprio in quell’anno il premio San Babila (formata da Ungaretti, Montale, Quasimodo, Sinisgalli e Sereni ), le sue prime opere (Dietro il paesaggio pubblicata nel 1951 da Mondadori, Elegia ed altri versi nel 1954 da La Meridiana, e Vocativo pubblicato nel 1957 sempre da Mondadori) vennero apparentemente ignorate da critica e pubblico. Zanzotto appariva come un isolato, prezioso continuatore del verbo ermetico, e la sua poesia come strettamente legata alle poetiche dell’anteguerra, se non addirittura ad istanze tardo-romantiche e decadendistiche. Leggendo i versi tratti dalle sue prime opere, si comprende bene per quale motivo all’apparire delle tre raccolte sopracitate vennero rivolte a Zanzotto, da più parti, in un clima letterario contraddistinto dall’affermazione del neorealismo, varie critiche di astrattezza, e soprattutto di avere atteso ad una poesia contenutisticamente fuori dalla storia, non engagèe, e formalmente arretrata.

L’insorgere d’una nevrosi nei primi anni cinquanta, le crisi di insonnia ed il ricorrere dell’idea della morte, oltre naturalmente l’ambiente di nascita appartato delle colline dell’alto Veneto, da soli non bastano comunque a giustificare questa posizione iniziale di apparente ritardo in Zanzotto; bensì più complesse motivazioni culturali si intrecciano ad una naturale predisposizione alla poesia come «parola» lanciata oltre, come momento «eroico», e del poeta come «legislatore, sacerdote, agnello da sacrificio», come ha giustamente sottolineato Fortini.

L’epilogo del suo scontro con l’allora imperante neorealismo si ebbe nel 1954 al convegno letterario di San Pellegrino, dove era previsto che nove autori affermati presentassero nove esordienti, Zanzotto venne presentato da Ungaretti; e nella serata finale si rese protagonista in un acceso dibattito sulle prospettive della letteratura con Calvino: quest’ultimo su posizioni di ortodossia militante, l’altro su posizioni esistenzialiste.

E’ innegabile effettivamente nelle prime opere di Zanzotto un costante tentativo di rimuovere la contingenza storica, e difatti egli stesso affermerà: «Nei miei primi libri, io avevo addirittura cancellato la presenza umana, per una forma di “fastidio” causato dagli eventi storici; volevo solo parlare di paesaggi, ritornare a una natura in cui l’uomo non avesse operato. Era un riflesso psicologico alle devastazioni della guerra. Non avrei potuto più guardare le colline che mi erano familiari come qualcosa di bello e di dolce, sapendo che là erano stati massacrati tanti ragazzi innocenti.»

Questo fastidio per la storia, più che al trauma della guerra o ad un disinteresse per l'istoriale corrente (come scriverà nelle Ecloghe), è in realtà anche dovuto ad una convinta e particolare visione della letteratura come testimone e direttrice di un mondo autre, come potere che non associandosi col Potere ne denuncia le contraddizioni. E per questo la sua ricerca si dirigerà verso una poesia forte del «coraggio di guardare in faccia il vero anche se con infinite difficoltà e col pericolo di aggirarsi in un labirinto» e che abbia in questo «il suo onore».

Il discorso metalinguistico e metapoetico ampiamente presente nelle prime opere di Zanzotto assume a partire dalla raccolta IX Ecloghe del 1962 (ed. Mondadori) una connotazione consapevolmente autoironica, che porta il poeta a prendere le distanze dalla realtà percepita come inautentica, dal vissuto soggettivo e dalla stessa tensione lirica, considerati definitivamente contaminati e menzogneri. Da una posizione privilegiata, interna ma allo stesso tempo il più possibile distaccata ed obiettiva, disincantata, egli considera l’attualità della poesia, in quanto tale, nel mondo moderno, a contatto quindi con l’alienazione del vivere, con le rivoluzioni tecnologiche, e con le più attuali formulazioni epistemologiche.

Il disincanto e la distanza critica comportano la rottura programmatica dell’orizzonte di letterarietà, il paesaggio letterario, al quale s’affidava ancora quasi interamente la lingua di Zanzotto, e l’apertura di questa ad inserti storici, di registro scientifico tecnologico (mucillagini, geyser, radar, macromolecola), e medico (cariocinesi, anancasma), i quali convivono con arcaismi, recuperi letterari e danteschi, latinismi e spezzoni di linguaggio canzonistico o pubblicitario. Una ricerca formale che sembra sempre sul punto di far esplodere la lingua poetica, pur mantenendo altissima l’attenzione sulla stessa.

Siamo orami alle soglie d’una piena maturazione letteraria e umana, e gli anni a seguire segneranno un’accrescimento generale dell’interesse nei confronti di questo poeta, ed un sempre maggiore e più consapevole approfondimento della sua ricerca poetica.

Il 1959 porta a Zanzotto, oltre al matrimonio, il premio Cino Del Duca (giuria presieduta da Montale); nel 1960 inizia a collaborare con «Il Caffè» di Vicari (rivista che riunirà alcuni tra i più interessanti scrittori italiani: Arbasino, Calvino, Volponi), e nel 1961 al Congresso Internazionale Silver Caffè conosce Tristan Tzara, padre fondatore del movimento dadaista. Nel 1964 Zanzotto ha l’occasione di incontrare il filosofo tedesco Ernst Bloch, e nello stesso anno esce la raccolta di racconti e prose per le edizioni Neri Pozza Sull’altopiano.

Nel 1968 presso Mondadori viene pubblicata La Beltà, opera che renderà manifeste le conquiste di questo autore nel campo del linguaggio, e che sarà da molti accolta come la sua più importante prova poetica.

Il linguaggio poetico destrutturato psicanalitico e magmatico è protagonista dell’edizione semiclandestina Gli Sguardi i Fatti e Senhal, pubblicata a spese dell’autore in poche preziosissime copie nella stamperia della sua Pieve di Soligo. Il tema che fa da sfondo a questo polifonico poemetto è la conquista della luna da parte dell’uomo, vista come violazione e violenza del mito e dell’aura poetica.

Gli ultimi anni sessanta ed i primi settanta sono anni di intense collaborazioni, viaggi letterari e preziosi incontri, e vedono il valore del poeta finalmente riconosciuto ed apprezzato.

Nel 1970 l’editore Scheiwiller stampa un volumetto di poesie giovanili di Zanzotto con il titolo A che valse?.

Nel 1973 viene pubblica, ancora per Mondadori, Pasque, e la prima fortunata antologia Poesie (1938-1972) a cura di Stefano Agosti. Importantissimo l’incontro che avviene nel 1976 con Federico Fellini, e che inaugura una feconda collaborazione tra i due: Zanzotto sarà cosceneggiatore del Casanova, de La città delle donne e de E la nave va.

Il poeta trarrà da quest’esperienza l’ispirazione per la sua composizione dialettale Filò, pubblicata nello stesso 1976 dalle edizioni del Ruzante di Venezia (corredata da cinque disegni di Fellini).

Il Galateo in bosco (ed. Mondadori), nel 1978 dà inizio alla pseudotrilogia, che proseguirà con Fosfemi nel 1983 e che vedrà compimento nel 1986 con Idioma.

Il Galateo in Bosco vince il premio Viareggio nel 1979 e Fosfeni vince il premio Librex-Montale nel 1983.

Zanzotto è ormai ampiamente riconosciuto e tradotto in varie lingue, e raccoglie nel 1991 i suoi interventi critici apparsi precedentemente su quotidiani e riviste nel volume edito da Mondadori con il titolo di Fantasie di Avvicinamento, seguito nel 1994 da Aure e disincanti del Novecento letterario.

Nel 1996 esce presso Donzelli, dopo dieci anni dall’ultima pubblicazione poetica, Meteo, e nel 2001 ancora una volta per Mondadori Sovrimpressioni.

Il lavoro letterario di Andrea Zanzotto sembra racchiudere in sé le più importanti riflessioni sull’esperienza poetica formulate nel ‘900, e apre le porte a un modo nuovo di poetare nell’Italia contemporanea. Che le sue motivazioni iniziali siano state di carattere etico esistenziale più che ideologico, non ha significato né comportato da parte sua, se non forse apparentemente, una chiusura totale nei confronti della storia, né un venir meno di quella tensione etica che spinge verso un cambiamento nel divenire della stessa. Se alcuni in quegli anni lavoravano sui contenuti, con motivazioni storiografiche o pedagogiche, con dichiarati e militanti intenti progressivi, Zanzotto agiva ad una diversa profondità, partiva da una posizione che metteva in primo piano la parola, come unico mezzo dato all’uomo per conoscere e dare senso alla realtà. Sentiva la necessità di ristabilire un rapporto di comunicazione con la realtà circostante ed era mosso dalla volontà di restituire all’atto poetico una sua validità sociale.

Naturalmente mettere in discussione la capacità di reale e autentica significazione del linguaggio pone inquietanti interrogativi non solo circa la comunicazione intersoggettiva delle esperienze individuali, ma anche riguardo al senso stesso dell'esperienza e alla conoscibilità del mondo.

In una intervista Zanzotto dichiarava a proposito della poesia : «Per quanto mi riguarda ho il sospetto che la poesia non sia affatto scrivere; il poeta non è scrittore nel senso corrente della parola; direi anzi che arriva ad odiare lo scrivere forse perché si sente in qualche modo costretto al suo gesto [...] si tratta di scalfire, scalpellare, graffiare la lingua o di sprofondarvi più che di usarla [...]. Nella poesia qualcosa è al di là e al di fuori dello scrivere [...]. Forse l’autentico grado zero, o il grado infinito della scrittura, è quello che traduce nella poesia, è quello che spaventa attraverso la poesia, anche quando essa può sembrare più connessa alla gioia, alla felicità dello scrivere[...]. E tutto ciò non esclude la compresenza di un meticoloso atteggiamento artigianale, a tempo strapieno.»

Ed è appunto questo atteggiamento che il nostro poeta ha assunto in tutti questi anni, impegnandosi a ricreare nel proprio laboratorio una lingua rinnovata ed autentica, una parola intesa come assoluta, fondo incrollabile dell’essere, ed è proprio in questo più che nello stile il suo ermetismo.

Ma se è vero che Andrea Zanzotto esce dalla storia per mezzo d’un linguaggio astratto ed allusivo, iperletterario, che nella prima opera si configura come paesaggio dietro al quale rifugiarsi, è anche vero che è sempre per mezzo del linguaggio che vi rientra dopo un lungo percorso di ricerca e sperimentazione, dopo avere restituito alla parola una piena, o se non altro, più autentica capacità di significazione e comunicazione.

L'oscurità che deriva da questo modo di intendere la poesia non ha nulla di gratuito, poiché la poesia per Zanzotto è un viaggio nell'oscurità alla ricerca dell'illuminazione, è un aggirarsi nei vari labirinti dell'esistenza (labirinti psichici, linguistici, storici, culturali), alla ricerca di una via per uscirne. Questa assume allora una funzione del tutto particolare di investigazione del caos, del labirinto, e di ricerca dei possibili barlumi di significato che consentano l'auspicata inversione di tendenza.

Naturalmente la poesia di Zanzotto non è soltanto questo, ma anche nei momenti di maggiore astrattezza, difficoltà, chiusura formale, presenta una sottile, sotterranea musicalità che avvince; così come quando più grande si fa la rottura, la distanza dalla norma, e lo sperimentalismo, sempre sembra resistere in essa un flebile canto elegiaco.

Appare fuori luogo un consuntivo dell’opera di questo autore, essendo egli vivo ed in attività. È tuttavia importante chiarire come il metodo, la ricerca, gli esiti formali ed i nuclei tematici, l’opera tutta zanzottiana, siano momenti poetici e personali di una teoria della letteratura e dell’uomo d’oggi, che vede questa come principio di resistenza alla disgregazione ed all'ottenebramento che sembra tutto involgere e coinvolgere.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 12 gennaio 2005
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Cultura

10/10/2011 - INTERVISTA

Andrea Zanzotto "Che imbroglio la Padania"


Andrea Zanzotto è nato a Pieve di Soligo (Tv) il 10 ottobre del 1921. I suoi versi sono stati tradotti in tutto il mondo

Il più padano dei poeti italiani compie oggi novant'anni e non rinuncia all'indignazione: "I leghisti fabbricano spettri"

MARCO ALFIERI
INVIATO A PIEVE DI SOLIGO

Qui nell’alta marca trevigiana ci sono piccole zone incontaminate che resistono. Posti dimenticati come Refrontolo che hanno una felicità in sé e conservano un loro incanto. Ma ormai non si può più nemmeno pensarlo, il vecchio Veneto. In giro c’è una ferocia tale che si esprime in un impulso alla velocità, alla fretta…» dice il poeta Andrea Zanzotto. Oggi compie 90 anni e per l’occasione verrà presentato un libro celebrativo intitolato Nessun consuntivo con un saggio di Carlo Ossola, contenente una lettera del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Da Pieve di Soligo, da quel mondo collinare che ha fatto da fondale ai quadri eterni di Giorgione, Tiziano e Tintoretto, poi devastato dall’industrializzazione selvaggia e dai capannoni del mitico Nord Est, il più cosmopolita dei nostri poeti continua a guardare alle cose del mondo e a tutti noi. Non senza rovelli e nuovi spettri. Zanzotto, a casa sua, è seduto al centro di un piccolo divano, coperto da un berretto rosso e un plaid marrone. Il suo viso è scavato dall’età e dagli acciacchi, ma gli occhi si muovono vispi. La testa mobile e curiosa, da indignato cronico.

È vero che segue da vicino la crisi finanziaria mondiale?
«Questa modernità cannibale mi ossessiona. La stoltezza che circola si palpa come un vento».

«In questo progresso scorsoio, non so se vengo ingoiato o se ingoio…», scrisse qualche tempo fa. Aveva forse previsto tutto?
«La mia cultura è soprattutto letteraria. Per questo mi trovo a inseguire delle realtà con il dubbio di non raggiungere nessuna e benché minima formulazione di un quadro attendibile. C’è qualcosa di azzardato e di friabile in questo nostro presente che sento di non poter controllare».

Se per questo anche gli economisti non hanno previsto nulla. Zanzotto lei è in buona compagnia…
«Questo è vero. In alcuni momenti credo di poter formulare qualcosa di abbastanza stabile. Forse è soltanto il potere della poesia a far sì che riesca a mantenere un contatto con il mondo nonostante il senso di disappartenenza in cui mi trovo costretto a vivere, anzi a sopravvivere. Ma poi mi accorgo che anche questa è un’illusione. Tutto è pressappoco e ci si trova con il fumo nelle mani…».

Lei parla di illusioni. Però le sue battaglie contro la cementificazione selvaggia che si sta mangiando mezza pianura del Piave, sono fatti molto concreti. Qui a Pieve di Soligo si ricordano tutti quella, vinta, a difesa del prato di via delle Mura. Doveva nascere un mega palazzetto, lei è riuscito a fermare le ruspe…
«La mia non è una battaglia antimoderna ma un fatto di identità e civiltà. La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi. I boschi, i cieli, la campagna sono stati la mia ispirazione poetica fin dall’infanzia. Ne ho sempre ricevuto una forza di bellezza e tranquillità. Ecco perché la distruzione del paesaggio è per me un lutto terribile. Bisogna indignarsi e fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come un’area da edificare».

Un’altra battaglia che combatte da anni è quella contro l’imbroglio della cultura leghista…
«Mi ha fatto molto piacere sentire il Capo dello stato riaffermare l’unità d’Italia e liquidare certi giochi di parole che negli anni avevano creato un imbroglio. La Padania non esiste, il popolo padano neppure. Questa è una storia più che ventennale di equivoci e spettri. La riaffermazione di Napolitano potrà darci il senso di una tregua. E sono convinto che piano piano questo fantasma sparirà».

Eppure nei comuni qui attorno, in questi luoghi del quartiere del Piave sacro alla patria – Moriago e Nervesa della Battaglia, il Montello degli ossari dove correva la linea del fronte della Grande Guerra, l’isola dei morti dove il 26 ottobre 1918 gli arditi sfondarono le linee austriache - la Lega e la sua retorica anti italiana fanno il pieno di voti da anni, com’è possibile?
«Perché esiste una contraddizione molto forte tra la tradizione dell’Italia una e indivisibile e un paese reale diviso dal punto di vista economico. Questo dualismo lasciato marcire per anni ha confuso i piani producendo l’imbroglio di due paesi altri tra loro. Arrivando all’equivoco padanico».

Invece riaffermare nel corso del suo 150esimo anniversario l’unità d’Italia è stato come un urlo liberatorio. Come se Napolitano avesse gridato: “il re è nudo”, sgonfiando d'incanto la retorica secessionista.
«Il viaggio in Italia di Napolitano in occasione del 150° anniversario dell’unità ha come riscoperto un patriottismo sopito. In precedenza si era sottostimato quel che era il bisogno di proclamazione unitaria».

In effetti anche l’ex sindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, al dunque si rimette in testa il cappello da alpino e sventola il tricolore. Il sindaco di Verona Flavio Tosi pure. Continua però l’abuso del dialetto, strumentalizzato a fini politici dai dirigenti leghisti…
«La riaffermazione di Napolitano spero dipani anche questo grande equivoco identitario. Come ci ricorda Gian Luigi Beccaria nel suo splendido libretto Mia lingua italiana , per prima è venuta la lingua. Non è stata una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il desiderio e il progetto di una nazione italiana. A partire da Dante, Petrarca e Boccaccio. Naturalmente ci sono mancanze e ritardi in un processo forse non del tutto riuscito che ha portato all’Italia unita».

In che senso?
«Storicamente le lingue erano frazionate, c’era una radicalità di dialetti, questo è vero. I mille sbarcati in Sicilia non si capivano, Cavour e la classe colta piemontese parlavano francese. Pittoreschi contrasti che però convergevano verso l’unità del paese, perché la lingua e la nostra tradizione letteraria ci hanno insegnato cosa significasse essere italiani e non soltanto fiorentini, lombardi, veneti, piemontesi o siciliani...». Una lezione che i novant’anni di Andrea Zanzotto, veneto di Pieve di Soligo, la vandea leghista, ricordano a tutti a futura memoria.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/424049/
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 18, 2011, 04:53:30 pm »

ADDIO A ANDREA ZANZOTTO

La natura, l'inganno, la peste le meditazioni di un poeta

Ripubblichiamo l'intervista del dicembre 2009 al poeta scomparso oggi

di FRANCO MARCOALDI

PIEVE DI SOLIGO (Treviso) - Questo breve viaggio volto a suggerire un "lessico necessario" utile ad affrontare i nostri giorni confusi e concitati, si conclude incontrando un poeta: ovvero chi ricerca la massima precisione della lingua, in ogni sfumatura, sonorità, dettaglio. A un poeta dunque, l'ultima parola. E tra i poeti la scelta non poteva cadere che su Andrea Zanzotto: un indiscusso maestro, oltre che un amico. Era più di un anno che non venivo a trovarlo nella sua casa di Pieve di Soligo. E con grande gioia lo ritrovo in buona salute, fisica e mentale. Ha appena compiuto ottantotto anni e il suo volto si è fatto simile allo schizzo di un pittore: il naso rapace è ancora più rapace. Le labbra si sono ulteriormente affilate. Gli occhi sono diventati due fessure da cui traspare una luce maliziosa, che guarda lontano. Sempre più lontano. Sulla testa, infine, l'immancabile "bareta", questa volta di color rosso cardinale. La nostra conversazione parte dal suo recentissimo libro di versi, Conglomerati (Mondadori), che riconferma tutta la sua grandezza. E ci invita a riflettere sulla forza diagnostica di una forma espressiva, la poesia, che proprio nel tenace balbettio pare acquisire un peso nuovo e imprevedibile. Tanto più, di fronte al ciarliero collasso di un discorso pubblico affannato e incapace di afferrare il turbinoso fluire delle cose.

Dunque, Zanzotto, da quale parola cominciamo?
"La prima che vorrei suggerire è proprio "conglomerati". L'ho scelta come titolo del libro dopo vari tentennamenti e la vorrei riproporre qui perché segnala un indispensabile contatto con la "terra", parola ad essa intimamente collegata. Amo molto, ancora oggi, fare dei giri qui intorno a casa mia. In particolare in un'area, a tre o quattro chilometri dal centro del paese, dove c' è un insieme di colline che non sono colline e di torrenti che non sono torrenti: un tenebroso e inquietante labirinto, appunto, di conglomerati pietrosi; le crode del Pedré. Ebbene, se sono tornato a parlare di questo posto, dove si andava in gita scolastica quando ero bambino,è perché in quel luogo fisico c' è una volontà di resistere, anche se contraddetta da pulsazioni opposte e oscure, che è omologa alla terra e all'uomo. Il che mi riconferma nella convinzione che nel mio caso le principali suggestioni derivano dalla geologia, prima che dalla storia; e dalla scienza, prima che dalla letteratura".

Da quanto dice sembrerebbe che una linea poetica cominciata con "Dietro il paesaggio", che è del 1951, non si sia mai interrotta. Malgrado tutto è proprio nella "magna mater", nella grande madre, che possiamo e dobbiamo cercare conforto. Anche quando il suo volto appare, come in queste ultime poesie, sfigurato da "sfondamenti di orizzonti", "funebri viali di future "imprese"", "grulle gru", "cento capannoni puzzolenti".
"E' proprio così. Anche se calpestato, squartato, tumefatto, ustionato, ulcerato, il "paesaggio" esercita ancora un continuo richiamo. Attraverso il fischio di anonimi uccelletti o grazie a venti improvvisi e furiosi. Sempre e comunque, il paesaggio, nella sua duplice veste di incanto e gabbia, induce quel sentimento di immanità che percorre strade tutte sue. A volte ce lo indica ammutolendo, altre invece cantando in modo anche stonato. Non per caso, nelle mie poesie più recenti, la stonatura è sempre in agguato. Voluta e non voluta". Senza nominarla esplicitamente, abbiamo indicato così la terza parola: "paesaggio".

Che introduce, mi par di capire, a una sorta di religione della natura.
"Religione della natura che in me si accompagna, almeno a tratti, a vere e proprie meditazioni teologiche. E a mille impulsi, i più diversi e contrastanti. Perché come qualunque altro individuo, anch' io riconosco che tutto ciò che è umano mi riguarda". La parola "paesaggio" si porta appresso, inevitabilmente, la parola "clima". E su questo fronte, anche i più recenti incontri internazionali dimostrano come le più funeree previsioni non producano mai scelte politiche conseguenti. "Può essere, molto semplicemente, che non si voglia credere alla catastrofe, già ampiamente provata, perché è più comodo ingannarsi, illudersi. Oggi sembrano tutti sopraffatti dal fascino dell'autoinganno. E finiscono per voler lucrare anche sul proprio funerale".

E' anche per questo che di recente lei utilizza sempre più spesso la parola "peste"?
"Nella vita quotidiana a un bambino un po' inquieto si dice: "sei una peste". Senza che lui neanche capisca a cosa si sta alludendo. Anche a me questa parola è uscita di bocca così, con leggerezza, quando l'ho utilizzata riferendomi alla Lega. Pensavo alla figura di un bambolo un po' tonto. Invece i leghisti l'hanno presa sul serio, e cioè in modo drammatico. Ma è un bene che le parole vengano spiazzate, che il senso si mobiliti, e di un vocabolo escano fuori significati che abitualmente restano impliciti, sotto traccia. In fin dei conti, è una delle gioie più tipiche della poesia".

E nel caso specifico, qual era l'elemento implicito della parola "peste" che è saltato fuori all'improvviso?
"Penso ad esempio al comportamento assurdo di chi vorrebbe imporre l'insegnamento scolastico del dialetto, che si può apprendere solo in famiglia, nell'infanzia, e poi se ne infischia della totale distruzione dei luoghi in cui quella lingua materna trova l'indispensabile nutrimento. Ma cosa ci si può aspettare da chi vaneggia di dialetto e nulla sa di storia e filologia romanza?".

Mi permetto di suggerire io l'ultima parola: "poesia". Perché proprio quel suo verseggiare tambureggiante e allarmato, quel tentativo di cogliere per frammenti qualche barlume di senso, mi ha indotto a pensare che forse la poesia finisce per assumere una nuova centralità, del tutto inaspettata.
"Sì, finiamo con "poesia". Proprio da lì, dal "fiat" della poesia, si potrebbe e dovrebbe ripartire. Dalla sua costitutiva povertà e semplicità. Ma si tratta di farlo con modestia e assieme con tenacia. Ascoltando innanzitutto la potenza del genius loci. Almeno, questo è quanto io ho sempre fatto. Non per caso non mi sono mai potuto allontanare più di tanto dal mio paesello, perché senza il canto dialettale di osteria si produceva in me un veroe proprio blocco della creatività. E così si torna all'inizio della nostra conversazione: a quei "conglomerati" di cui parlavo in precedenza. La poesia, molto umilmente, deve "raspar su" tutti i materiali che trova a disposizione. I più inusitati, i più eterogenei. A partire da quelli che salgono dall'inconscio, da quella forza interiore inarrestabile e incontrollabile che poi si trascina appresso il carretto dei versi. Ricordo, ad esempio, che quando Dario Fo vinse il Nobel, mi dissi: bene così, in fondo Fo è un signore che ha creato dei valori letterari. Ma subito dopo l'inconscio decise al posto mioe fece affiorare un epigramma che non ho potuto fermare: "Di Fo che me ne fo. Fo fu". E' stato il puro impulso della sillaba a generare quell'epigramma".
 

(18 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/10/18/news/meditazioni_zanzotto-23426318/?ref=HRERO-1
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 18, 2011, 04:55:10 pm »

ADDIO AD ANDREA ZANZOTTO

Zanzotto: "Le mie notti con Fellini quando sognavamo il cinema"

L'intervista ad Andrea Zanzotto - tratta dal libro 'Il cinema brucia e illumina' di Luciano De Giusti - e pubblicata da Repubblica, il 13 settembre 2011. Qui il poeta, scomparso oggi pochi giorni dopo aver compiuto 90 anni,  parlava della sua amicizia con Federico Fellini

Il Casanova segna l'inizio di un duraturo rapporto di collaborazione con Fellini. Com'è avvenuto?
"Su ispirazione di Nico Naldini, che in molti casi era suo assistente, Fellini decise di chiedermi una consulenza per la mia conoscenza del dialetto veneto. E io l'avvertii come una grande occasione anche di tentare tutto un campo di espressione, quello del dialetto, che stavo allora sperimentando legandolo all'esperienza del cinema. L'amicizia con Fellini e con il suo mondo, che era un mondo profondamente dialettale, riguardava la nostalgia del parlare primitivo, in particolare quello romagnolo, ma spesso c'erano dei lacerti anche di altri dialetti ".
 
La collaborazione con Fellini è continuata per molti anni. Anche se non risulta dai credits è stato rilevante l'apporto sotterraneo alla Città delle donne.
"Sì, ho scritto anche un saggetto ".
 
Nel quale ipotizza l'identificazione tra donna, caverna e cinema.
"È un tuffo verso profondità nuove. In quel film venne coinvolto anche Claudio Magris, come consulente per certe battute in dialetto triestino. Con lui, in viaggio verso Trieste di ritorno da Torino dove allora insegnava, ci siamo incontrati qualche volta alla stazione di Mestre, insieme a Fellini".
 
A quel punto la collaborazione professionale era sfociata in amicizia.
"Il rapporto era diventato qualcosa di molto più forte. Si affacciano i ricordi di un'amicizia. Per molti anni, ogni volta che mi recavo a Roma, andavo a trovare Fellini con mia moglie Marisa che era amica di Giulietta Masina. E nel periodo del premio Comisso Federico e Giulietta venivano da me e in quel caso si girava per le colline. Ricordo che una volta Federico mi disse: 'Certi punti delle tue colline hanno in sé un'aria di aldilà': Ed è proprio vero. Certi punti defilati, in cui si passa da una valle all'altra, delle vallette, per esempio, potevano proprio dare l'impressione di un possibile spostamento...".
 
 
A proposito di aldilà: la collaborazione con Fellini ha toccato anche Il viaggio di G. Mastorna, il leggendario progetto di film che non fu mai realizzato.
"Il Mastorna è un fantasma che ha perseguitato Fellini per  tanti anni. Io ne ho anche scritto. Mastorna mi sembrava la deformazione di mai/torna, un film sulla morte, insomma, fondato sui principi d'esistenza di un mondo dell'oltrevita. Ciò che mi stupiva nel grande regista era l'estrema fiducia che riponeva in quel visionario, suo amico, che consultava spesso... Rol. Era uno degli ultrafanici, come li chiamano loro. Me ne parlava spesso e voleva condurre anche me da lui, ma io gli ho detto: 'Già siamo pieni di misteri senza andare a bussare a quelle porte in cui l'imbroglio convive con la ricerca. Lasciamo stare'. Credo che negli ultimi anni non muovesse dito senza consultarlo".

Come gliene parlava?
"Me lo presentava come uno che interagiva con un mondo diverso. Ma io non sono granché entusiasta di quella che si chiama parapsicologia. Credo che certi fenomeni siano possibili, ma che occorra un lungo viaggio mentale per giustificare la loro esistenza. Mentre Fellini ci credeva profondamente".

Con Fellini ci fu anche il progetto di un film su Venezia.
"Sì. Mi pare che se qualcosa è mancato nella parabola di Fellini siano i film su Venezia e sulla morte. Ma allo stesso tempo c'era il progetto su Mastorna che incombeva e che egli fu sempre timoroso di fare perché portava iella".

C'è stato anche un altro progetto di film non realizzato, quello su una vita di Lorenzo Da Ponte per la televisione.
"In tempi recenti, rovistando tra vecchie scartoffie, ho ritrovato quel lavoro. Era tutto pronto, ma la Tv tagliò i finanziamenti. Era anche un bel progetto. Avrebbe significato rendere a Da Ponte quel che era dovuto. La sua grande fortuna fu quella di essere stato chiamato a dar corpo di strofe ai lavori musicali di grandi autori come Mozart. La freschezza di scrittura del nostro poeta lo mostra veramente dotato ".

Come avveniva la vostra collaborazione?
"Lettere, non moltissime. Soprattutto telefono, a volte di sera, fino a notte tarda. Federico mi telefonava per avere qualche indicazione o suggerimento per i titoli. Per esempio, nel caso di E la nave va, sono stato io a proporgli 'Gloria N.' per il nome della nave".

Per questo film lei stette anche un paio di giorni sul set.
"Sì, Fellini faceva ripetere le scene anche dieci volte. Si aveva la sensazione che non esistesse alcun ordine prestabilito. Le immagini che egli creava non erano illustrazioni di una storia preesistente nella sceneggiatura, ma sgorgavano l'una dall'altra. Come se si lasciasse spingere da un'immagine che poi faceva posto a un'altra e così si creava la trama. Si vedeva bene quando si era sul set".

Le sembra che questo abbia qualche somiglianza con la poesia?
"Sì, quando si scrive una poesia è frequente la serendipità: miri a conquistare le Indie e raggiungi l'America".

Qual è l'ultimo ricordo di Fellini?
"Mi ha telefonato dalla clinica, aveva già avuto l'ictus e sentivo che qualcosa non funzionava in quello che mi diceva. Sono rimasto molto addolorato. Di quei momenti felliniani ultimi, io credo di avere anche degli scritti. Perché l'ultimo film di Fellini è stata la sua morte. A Roma c'era continua attenzione a quel che capitava in ospedale mentre lui stava morendo. Quella era proprio un'appendice reale dell'opera di Fellini".

(18 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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