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« inserito:: Giugno 30, 2007, 07:38:47 pm » |
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FISCO / LA GUERRA DELLE IMPOSTE
Professione evasore di Paola Pilati
Ristoratori. Coiffeur. Negozianti... Tutti contro Visco e le sue tasse. Siamo andati a fare i conti alla piccola impresa. Pochi onesti. E tanti truffatori Alle cinque della sera del mercoledì il rito dello spriz trasforma il centro di Padova in un paradiso fiscale: 3 mila ragazzi si riversano nei bar del centro storico, dove fino a mezzanotte si servono bicchieroni di vino bianco colorati con Aperol. A spanne, con un solo spriz a testa già si fa un fatturato di 15 mila euro. Quasi tutto in nero. "Sparite le fatture per l'acquisto dell'Aperol, diventa impossibile stimare quanto se ne consuma. Così si può evitare anche di emettere lo scontrino", dicono all'Ufficio delle entrate. È allora che 'la squadra' passa all'azione. Un gruppo di finanzieri in borghese si mischia ai giovani e annuncia al padrone del locale: "Stiamo con voi fino alla mezzanotte". Poi si mette a contare. Il volume degli scontrini a quel punto vola, raddoppia, quadruplica anche, con un effetto sicuro: il gioco degli spriz in nero sarà d'ora in poi troppo rischioso, e il giro d'affari del bar da confessare al fisco al momento della dichiarazione dei redditi diventerà più vicino al vero.
Questa tecnica gli uffici tributari del Veneto la chiamano pressing: non è né una vera indagine né un accertamento, ma un far sentire il fiato sul collo. E funziona benissimo usata anche il venerdì pomeriggio nei saloni di parrucchiere per signore, dove le clienti salgono improvvisamente da quattro a 20, dai barbieri, dai veterinari oppure nelle discoteche. Ovunque si ottengono straordinari effetti moltiplicatori sui ricavi. E si dimostra quello che il popolo degli artigiani e dei commercianti non ama sentirsi dire: che nella piccola impresa si annida ancora una bella porzione di evasione fiscale su cui l'Italia vanta numeri record. Cento miliardi di euro, il 7 per cento del Pil, secondo la più recente stima del ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa, il doppio di quella che si registra in Gran Bretagna, Francia e Germania, quattro volte l'Olanda, l'Austria e l'Irlanda. Di questa vergogna nazionale artigiani e commercianti non si curano. Anzi, proprio da loro parte la rivolta contro il governo che sta animando le piazze del Nord, dove si lamenta l'ignobile tartassamento perpetrato dal responsabile delle Finanze Vincenzo Visco, colpevole di avere deciso di stringere le maglie della rete attraverso cui passano i comportamenti scorretti. Cioè di avere reso un po' più difficile far sparire quote di reddito, insomma evadere.
Il terreno su cui si è infiammata la battaglia tra fisco e autonomi è quello degli studi di settore, che sono la griglia attraverso cui il singolo imprenditore, in quel settore e in quel territorio, può stimare il suo ricavo statisticamente più probabile. Il sistema serve a indurre chi ha la coda di paglia ad adeguarsi, mentre chi invece ha sufficienti motivi per non rientrarci, può tranquillamente denunciare le sue difficoltà. In questo caso gli uffici vorranno vederci chiaro, ma ciò non dovrebbe fare paura. Comunque, il sistema è costruito "non per fare dichiarare tutto", come ammette Giampietro Brunello, amministratore delegato della Sose, la società che costruisce gli studi di settore, ma per non evadere troppo. Quindi, gli studi di settore tendono di fatto a sottostimare la realtà. Nonostante ciò, dalla loro introduzione gli studi hanno fatto emergere una parte del giro d'affari che prima si svolgeva al riparo dale tasse. Nel caso dei parrucchieri, su cui è stata fatta una indagine, se prima denunciavano un terzo dei ricavi reali, oggi sono arrivati al 50 per cento, ma è ragionevole che una cifra simile riguardi tutte le attività dei servizi alla persona, dagli idraulici ai tappezzieri.
Nella parte degli agnellini azzannati dall'erario i tre milioni di contribuenti degli studi di settore non appaiono quindi credibili. E non lo sono neanche quando protestano contro l'intervento di Visco. Cosa ha fatto il viceministro? Visto che gli studi di settore non venivano aggiornati da tempo, e che comunque la loro applicazione aveva messo in evidenza qualche magagna, ha introdotto lo scorso marzo i cosiddetti indici di normalità da applicare subito, sui redditi del 2006 su cui si stanno facendo ora le dichiarazioni. Si tratta in pratica di parametri per valutare meglio la verosimiglianza dei costi vantati dai contribuenti: voce fondamentale, perché è quella che riduce i ricavi su cui si pagano alla fine le imposte. Per esempio, i tempi di rotazione delle scorte (per i bar 71 giorni, 50 per i ristoranti) devono essere credibili, e altrettanto il valore aggiunto prodotto da un dipendente (almeno 15 mila 800 euro l'anno per quello di un albergo; almeno 16 mila per quello di un bar, peraltro ridotti alla metà rispetto a quelli stimati dalla contabilità nazionale). L'effetto, tanto per fare un esempio, sarà quello di rendere più difficile a un pescivendolo di portare in detrazione scorte di pesce fresco per otto mesi. O a quel venditore di tappeti di dichiarare rimanenze di magazzino superiori a quelle di inizio anno: vuol dire che ha venduto in nero, non pagando l'Iva, ma andando in credito per questa imposta. Credito con cui può compensare anche altre tasse, dall'Irpef all'Ici. Con un effetto di evasione a catena. O, ancora, di attirare l'occhio del fisco su quel commerciante di abbigliamento che, pur dichiarando un ricavo assolutamente in linea con la 'normalità economica', sotto sotto taroccava i costi facendo scomparire il reddito. Tutti casi veri, truffe da manuale scovate dal fisco in cui non si può non scorgere lo zampino dei signori commercialisti.
Tutti costoro, e quanti, pur non essendo stati scoperti, usano gli stessi metodi, al fisco appariranno improvvisamente più ricchi. È giusto o sbagliato? Ma è accettabile che all'appuntamento con le tasse di quest'anno siano solo i lavoratori dipendenti a soffrire di più dell'anno passato?
Invece, apriti cielo. E la protesta ha trovato orecchie anche in Parlamento, dove non solo l'opposizione, ma anche la maggioranza, hanno perorato la rivolta contro i famigerati indicatori. Minando in questo modo l'introito che si attendeva da questa voce della lotta all'evasione, e mettendo in cattiva luce anche la prossima revisione degli studi di settore, che Visco ha promesso per il 2008. Risultato disastroso in termini di equità.
Eppure qualche esempio di come vanno effettivamente le cose sul fronte della piccola impresa al governo non manca. Basta fare una ricognizione presso gli uffici periferici dell'agenzia delle Entrate per ottenere una galleria di situazioni emblematiche.
Il ristorante in collina Nei dintorni di Soave, tra i vigneti famosi di questa cittadina del veronese, c'è una bella villa antica molto nota a chi vuole organizzare pranzi di nozze. Quando la tributaria è arrivata, il fatturato dichiarato di 920 mila euro non era poi male, anche se poi di tutto questo ai tre soci restavano solo 30 mila euro di reddito da dividersi. Ma l'elemento che ha fatto rizzare le antenne al fisco è stato l'indice di produttività per addetto. I 16 dipendenti più i soci producevano solo 29 mila euro l'anno, contro un valore che per quel tipo di attività e collocazione non poteva essere inferiore ai 44 mila euro. Ma la vera puzza di bruciato veniva dai prezzi del menù dichiarati al fisco. Il lussuoso ristorante di una delle zone più ricche d'Italia confessava un ricarico neanche da tavola calda: meno del doppio dei costi. Passato attraverso la lente della verifica, il ricavo accertato è salito a un milione e 337 mila euro.
Frutta e verdura a Dolo All'inizio del 2005 gli uffici tributari mettono nel mirino un bel negozio di frutta e verdura al dettaglio con ben cinque dipendenti sulla Riviera del Brenta. La verifica era partita perché in base allo studio di settore c'era qualcosa che non tornava. I ricavi, un milione di euro, era in realtà perfettamente congruo con lo studio, che segnalava per quel tipo di attività un milione e 50 mila euro. Un discostamento minimo, che avrebbe dovuto mettere l'imprenditore al riparo dagli occhi del fisco. Ma era la produttività per addetto a non convincere. Caso strano, poco prima si era verificato un furto: alla denuncia i proprietari hanno aggiunto, una volta entrata in ufficio la finanza, la scomparsa dei libri contabili. La verifica ha portato all'accertamento di ulteriori ricavi per 140 mila euro, e di 70 mila euro di costi fittizi. Il contenzioso è ancora in piedi.
Mattoni a Vicenza Da un po' di tempo le società immobiliari sono nel mirino. I segugi del fisco fanno finta di voler comprare, e chiedono i prezzi. Poi incrociano il tutto con le dichiarazioni fatte dalla società, e scoprono se il giro d'affari rispecchia la realtà oppure no. In due verifiche fresche fresche, compiute all'inizio del 2007, nella tagliola del fisco hanno lasciato lo zampino due immobiliari del vicentino. La tecnica è quella di farsi pagare in contanti il 30 per cento del prezzo, e con questo denaro liquido pagare, naturalmente in nero, idraulici e pavimentisti. Al fisco si denunciano poi le vendite sottocosto. Questa tecnica non resta impigliata nelle maglie dello studio di settore: in un caso il ricavo dichiarato è stato di un milione e 356 mila euro, vicinissimo a quello previsto dallo studio, pari a un milione e 359 mila; nel secondo caso il ricavo è stato di 3 milioni e 240 mila, contro quello stimato dallo studio di tre milioni e 243 mila. Questo a dimostrazione che gli studi non sono poi particolarmente 'cattivi'. Ma con quegli incredibili prezzi di vendita delle case in saldo, i finanzieri hanno fatto partire anche le indagini sui conti bancari dei titolari dell'impresa. E lì è scattata la trappola: la verifica in entrambi i casi ha rintracciato più di un milione di ricavi non dichiarati, evaporati, su cui c'è stata anche evasione dell'Iva. Peccato che queste indagini bancarie si stiano facendo più difficili: mentre si va verso l'anagrafe dei conti, che renderà più facile individuare subito dove risiede il tesoretto del contribuente, alcuni cercano vie di fuga consentite dalle frontiere europee. In Veneto l'austriaca Sparkasse fa la pubblicità con un pesciolino rosso che, si dichiara, è più muto di quello svizzero. Ma un'altra destinazione che attende a braccia aperte i soldi italiani per toglierli dal controllo del fisco è la Slovenia.
Riciclare rifiuti rende L'impresetta familiare, in provincia di Padova, non dava nell'occhio. Il titolare, due dipendenti, qualche automezzo. Attività: trasporto di cose per conto terzi e recupero rifiuti per il riciclaggio. Ricavo dichiarato: 3 mila euro, ben lontano dai 13 mila euro stimati dallo studio di settore. Poteva apparire quindi come un imprenditore marginale, uno che campava a stento. Ma gli uffici fiscali hanno voluto vederci chiaro. E alla verifica la realtà è apparsa alquanto diversa: 284 mila euro di ricavi.
I ricarichi di Portofino Mai pagato un conto nel posto più chic della Riviera ligure, la Portofino delle ville delle grandi famiglie industriali? Anche per un inesperto, che un ristorante sul lungomare si accontenti di raddoppiare nel menù i costi sopportati, appare una bella favola. La stessa cosa che hanno pensato gli uomini delle imposte, per nulla convinti da un giro d'affari di 428 mila euro, peraltro superiore a quello richiesto dallo studio di settore, che si fermava a 415. La verifica ha aumentato i ricavi del 27 per cento, a 528 mila euro: la pratica si è chiusa con l'adesione del contribuente a 507 mila.
Leggi o dormi? In qualche caso scoprire la frode in base allo studio di settore è quasi impossibile. È il caso di un venditore di materassi a Padova. Normale, insospettabile. Una sola stranezza. Vantava verso il fisco un credito molto consistente dell'Iva. Come mai? Con somma sorpresa, l'indagine ha portato alla luce un'altra verità. La vendita di materassi come allegato di un prodotto editoriale. Una pubblicazione stampata ad hoc portava un prezzo di copertina incredibile: 2 mila euro. Come omaggio, invece di un disco o un video, aveva il materasso. Il vantaggio? Che in questo modo il commerciante rientrava sotto il regime privilegiato dell'editoria, che prevede una aliquota Iva ridotta dal 20 al 4 per cento, e per di più solo sul 30 per cento delle copie.
Il commercialista furioso "Non si combatte l'evasione dicendo che chi è onesto deve dichiarare di più perché sono cambiati i parametri e ora il mio modello è diverso". Paolo ha 38 anni, fa il commercialista in una grande città del Nord, e se gli si chiede perché la sua categoria è tanto furiosa con Vincenzo Visco, diventa un fiume in piena. "Nel mio studio non facciamo un centesimo di nero, abbiamo ricavi stabili, ma con i nuovi studi di settore retroattivi non siamo 'congrui' di 80 mila euro", si sfoga con 'L'espresso'. Come i suoi clienti, se non si alzano da soli l'imponibile, rischiano un accertamento. "Hanno un bel dire che non ci hanno alzato le aliquote, cambiando i parametri degli studi di settore è come se ci avessero aumentato le tasse", gli fa eco un collega più anziano che lavora in uno dei maggiori studi di Milano. E secondo le prime stime che arrivano dai commercialisti, la media dei lavoratori autonomi che in questi giorni si sta scoprendo fuori linea oscilla tra il 50 e il 60 per cento. "Se oltre metà dei contribuenti risulta improvvisamente fuori parametro, significa che la formula matematica ha qualche difettuccio...", ironizza il padovano Michele Testa, presidente dell'Unione giovani commercialisti.
Lo scontro tra i commercialisti e il ministero delle Finanze è esploso la scorsa settimana con una forza imprevista. Le organizzazioni dei professionisti hanno comprato intere pagine di giornale per denunciare la totale mancanza di dialogo con l'amministrazione finanziaria e hanno minacciato di bloccare l'invio telematico delle dichiarazioni, trasformando la protesta in un incubo di fax. Non solo, sul piatto hanno buttato anche il ritardo nel mandare i modelli degli studi di settore. L'Agenzia delle Entrate ha tacciato i commercialisti di 'sedizione' e questi si sono arrabbiati ancor di più, perché sostengono che l'invio di quei dati non rileva ai fini del pagamento delle imposte, ma avrebbe meri fini di monitoraggio. Insomma, nessuna legge violata, ma solo "una civile e legittima protesta". A quel punto il ministero ha abbozzato, ma ha fatto uscire i dati sugli accertamenti per convincere gli autonomi che adeguarsi ai nuovi indici conviene, visto che chi subisce un accertamento ordinario finisce mediamente per pagare tre volte di più. La partita, al di là delle schermaglie, si gioca proprio sull'accertamento. A impensierire il governo c'è il rischio che i commercialisti di tutt'Italia invitino i propri clienti 'non congrui' a sfidare il Fisco e ad aspettare le verifiche. È vero che così facendo si rischia di subire una contestazione, di dover pagare subito il 30 per cento della somma contestata e poi, in caso di vittoria, di vedersela restituita non prima di cinque anni. Ma è anche vero che lo Stato non ha i mezzi e gli uomini per fare centinaia di migliaia di verifiche. L'anno scorso, su una platea di 2,6 milioni di contribuenti che aderiscono agli studi di settore, sono stati effettuati solo 59 mila controlli. E se partisse la protesta dei 'non congrui', alla fine anche la giustizia tributaria verrebbe intasata. Ora è possibile che sugli studi di settore il centro-sinistra inneschi una mezza marcia indietro, ma non è detto che basti a placare gli animi del popolo delle partite Iva. E di chi li assiste. Martino, che ha 35 anni di professione sulle spalle, dice che le novità sugli studi di settore sono state solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso: "In un anno, Visco non ne ha azzeccata una, toccando e ritoccando continuamente le norme".
L'effetto, secondo il presidente dei commercialisti milanesi, è quello di un consistente aggravio di lavoro. Un suo collega del centro Italia, con clientela medio-piccola, ha fatto due conti e spiega che dovrebbe quasi raddoppiare le parcelle. Ma non può farlo perché il suo studio resterebbe deserto: "Oggi ho lavorato più di otto ore per una persona abituata a pagare meno di mille euro. In base alla mia tariffa oraria dovrei chiedergli quasi 1.500 euro, ma ovviamente non scaricherò su di lui il costo di questo caos crescente". Chi pagherà non è dato sapere. Anche se Martino un'idea ce l'ha: "paga l'intera nazione, in termini di ricchezza distrutta per l'immane perdita di tempo alla quale siamo costretti tutti, contribuenti, professionisti e Amministrazione".
Francesco Bonazzi Obiettivo: evasione al 10 per cento "Sugli studi di settore c'è un grande equivoco: la percezione è che servano per pagare in modo forfettario, invece servono solo all'amministrazione finanziaria per valutare se la dichiarazione è veritiera. I contribuenti pagano sempre in base al loro vero reddito". Maria Cecilia Guerra è direttore del Dipartimento di Economia Politica dell'Università di Modena ed è grande esperta di fisco. Difende gli studi di settore e gli indici di coerenza che tanto fanno arrabbiare i contribuenti. "Gli indici aiutano il fisco a capire la realtà senza andare a controllare tutti i contribuenti. Faccio un esempio: se io dico che non ho beni d'investimento, ma poi porto in detrazione delle rate di ammortamento, cosa faccio? Imbroglio. Per scovare questi imbrogli gli indici erano già stati previsti: ora sono diventati operativi. E poiché mettono in evidenza la distanza tra quanto dichiarato e la realtà, molti hanno avuto paura di dover pagare molte tasse in più".
Potrebbe esserci una alternativa agli studi di settore?
"Dovrebbe dirlo chi protesta cosa vuole al loro posto. Ma bisognerebbe far capire che chi evade l'Iva al 20 per cento, fa concorrenza sleale agli altri, perché può vendere a prezzi più bassi. Rendere visibile la lotta all'evasione darebbe benefici a tutti, è importante".
Gli interessati si lamentano dell'effetto retroattivo degli indici sui redditi 2006.
"Le dichiarazioni dei contribuenti dipendono dai costi veri: non ci sono tasse retroattive, non c'è variazione di aliquote. Si stanno solo affinando gli strumenti per vedere se hai mentito".
Eppure anche nel centro-sinistra, in Parlamento, si cerca di andare incontro alle richieste degli autonomi...
"È più comodo dare spazio a certe richieste piuttosto che tenere fede all'evasione fiscale. Ma se noi screditiamo gli studi di settore, li depotenziamo".
Per molti appiattirsi dentro lo studio di settore è un modo di sentirsi al sicuro.
Le sembra giusto?
"Osserviamo l'altra metà del fenomeno: il 50 per cento dei contribuenti non si adegua allo studio di settore. Vuol dire che non ne è terrorizzato, e che ritiene di poter dimostrare la sua posizione".
Nella lotta all'evasione non sarebbe più efficace creare dei meccanismi di conflitto di interessi tra i contribuenti?
"È una favola. Per convincere lei che le conviene farsi dare la ricevuta da un idraulico, il fisco dovrebbe concedere una agevolazione fiscale così alta,
da annullare il recupero di qualsiasi imposta. Poiché l'Iva è al 20 per cento, se non do una detrazione del 20, ho comunque interesse a evadere".
A proposito di evasione: c'è ancora molto da raschiare nel fondo del barile?
"Qui non si tratta di un fondo: è quasi un quinto del Pil. Siamo pieni di casi di partite Iva che aprono e chiudono, e nel frattempo truffano l'Iva, che io pago e loro no. Per non parlare delle frodi carosello su più paesi. Sarebbe già un successo arrivare a un'evasione del 10 per cento. Sotto è difficile". da espressonline
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