20/9/2011
Torna la paura della Tbc
EUGENIA TOGNOTTI
L’ allarme suscitato dai casi d’infezione tubercolare nel reparto di Neonatologia del Gemelli, ha provocato, anche in un Paese a bassa incidenza come l’Italia, un risveglio dell’attenzione verso quell’antico morbo - chiamato un tempo «mal sottile» - che dopo una spettacolare regressione epidemiologica dagli Anni Cinquanta, ha conosciuto negli ultimi decenni un’inversione di tendenza. A favorirne la diffusione, in particolare nelle grandi capitali europee e nei Paesi in via di sviluppo, ha contribuito, anche l’aumento d’individui con compromissione dell’immunità dovuta all’infezione da Hiv/Aids, nonché l’uso indiscriminato di antibiotici, che ha provocato la selezione e la disseminazione nel mondo di batteri multi-farmaco resistenti. Ma non è meno importante il ruolo svolto dall’eziologia sociale, per riprendere una definizione cara agli igienisti dell’Ottocento; la ricomparsa della malattia sembra essere legata alla povertà dei gruppi di popolazione «a rischio», tra cui i migranti, che sperimentano condizioni, quali miseria, sovraffollamento degli alloggi, fatica, carenze nutritive, marginalità urbana, che nel XIX secolo favorivano la diffusione della tubercolosi negli insalubri quartieri delle grandi città in crescita sotto la spinta dell’industrializzazione.
Così, la tubercolosi sembra riprendersi, prepotentemente, il ruolo di malattia-metafora che aveva nell’Ottocento, quando dopo la dimostrazione d’infettività e contagiosità per via aerea si trasforma da malattia costituzionale, individualizzante, propria di esistenze elette (artisti, poeti, musicisti) in «fenomeno morboso di massa», socialmente discriminante: il romantico tisico lascia il posto al pericoloso disseminatore di mortali bacilli, che, tossendo o sputando, contamina lo spazio pubblico (strade, uffici, carrozze ferroviarie, teatri, ecc.). Perché il tubercolotico non era un malato qualunque, costretto a letto per quasi tutto il periodo della malattia, caratterizzata da un decorso prolungato: «il morbo lento» la chiama Alessandro Manzoni, che di quella malattia vede morire nel 1856, all’età di venticinque anni, sua figlia Matilde.
Una malattia unica, dunque, con caratteri speciali rispetto ad altre malattie infettive: l’agente causale, il Mycobacterium tubercolosis, è un batterio trasmesso da persona a persona principalmente attraverso l’inalazione di goccioline di secrezioni respiratorie («aerosol»), prodotte a seguito di colpi di tosse, starnuti o attraverso il semplice eloquio. Nella maggior parte dei casi, l’infezione si localizza nelle basse vie respiratorie e viene contenuta dal sistema immunitario, non producendo sintomi o segni clinici di malattia. Lo stato d’infezione può essere evidenziato mediante test cutanei o sierologici, come nel caso dei bambini ricoverati all’ospedale «Gemelli». In caso di compromissione permanente o temporanea del sistema immunitario, al momento dell’infezione o in un periodo successivo all’acquisizione dell’infezione, i micobatteri possono diffondersi e «attaccare» le strutture polmonari. La malattia tubercolare («tubercolosi») si verifica, quindi, più spesso nei polmoni, ma può anche interessare i linfonodi superficiali («scrofola»), il sistema scheletrico, l’intestino, il cervello e le meningi, i reni e altri organi. I «gruppi a rischio» nel nostro mondo (senzatetto, tossicodipendenti, carcerati, migranti, anziani, soggetti con infezione da Hiv/Aids, ecc.), che condividono la condizione di una più o meno grave compromissione immunitaria, hanno in comune con i gruppi di popolazione nelle città ottocentesche la povertà, e, di conseguenza, la sua capacità di favorire la caduta del sistema immunitario. Ma, tra XIX e XX secolo, in un periodo critico di crisi economica, d’instabilità politica, paure e ansietà sociali, la risposta in Italia, e quasi ovunque in Europa, non fu quella di sollevare i salari e di diminuire le ore di lavoro. Ma di allontanare e isolare i disseminatori di bacilli, identificati come «il nemico», scatenando, nel contempo, la guerra al bacillo, con una crociata antisputo che porterà a riempire uffici pubblici, scuole e fabbriche di sputacchiere e cartelli con la scritta «non sputare».
Oggi come ieri, si ritrova - quasi senza meraviglia -, l’esortazione a combattere la screanzata abitudine di sputare, a sottoporre a visita medica gli immigrati che provengono dai Paesi a rischio, e la polemica per un’Europa diventata un «setaccio» che accoglie gruppi d’immigrati-untori che portano nei nostri Paesi malattie gravi dai loro Paesi d’origine. A conferma dell’immutato potere di quella sfuggente patologia di far emergere paure, conflitti, ansie per il futuro e stigma sociale.
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