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Autore Discussione: Emanuele Filiberto, il vincitore di San Quintino (1557) ... Indietro Savoia!  (Letto 3128 volte)
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« inserito:: Settembre 05, 2007, 04:30:08 pm »

5/9/2007 (8:26) - SPLENDORI E MISERIE

Indietro Savoia!
 
Emanuele Filiberto, il vincitore di San Quintino (1557)

Una dinastia in crisi già nell’800, i secoli d’oro sono ’600 e ’700

ALBERTO PAPUZZI


La dinastia dei Savoia presenta tradizionalmente due facce: quella gloriosa dell'epopea risorgimentale, carica di successi sia dipolomatici sia militari, con le guerre d'indipendenza, l'impresa dei Mille e l'unificazione dell'Italia, e quella decadente dei fallimenti novecenteschi: l’incapacità di fronteggiare Mussolini, l'indecorosa fuga a Brindisi e le vicende non esemplari dei principi nella seconda metà del secolo. Ma adesso arriva nelle librerie un volume - I Savoia, Einaudi, pp. 245, e34, a cura di Walter Barberis, storico dell'Università di Torino, già autore di Le armi del Principe, sull'esercito sabaudo - che smonta anche l'immagine risorgimentale e vede l'Ottocento come la fase in cui la dinastia entra nella sua parabola discendente, mostra le crepe della propria azione ed esprime figure piuttosto modeste. La fase in cui è già andata a carte quarantotto. E non ci fosse Cavour, chissà come andrebbe a finire.

Per frequentare i momenti della fortuna sabauda, quelli in cui la dinastia si conquista e merita l'ingresso a pieno titolo sulla scena europea, bisogna rovesciare il suo proverbiale incitamento bellico e gridare invece «Indietro Savoia!». Indietro fino al Seicento e al Settecento, veri «secoli d'oro» della casata.

In realtà siamo di fronte a un eccezionale episodio storico: «Una dinastia che riesce a durare quasi mille anni, una famiglia che tiene Stato e territorio per dieci secoli - osserva Barberis - sono un caso quasi unico». E questi lunghi mille anni hanno la particolarità di essere densi non soltanto di strategie per la scalata al potere fino alla conquista del titolo regale, ma di accumulare una messe di materiali simbolici. È come se i Savoia avessero integrato le loro politiche di organizzazione dello Stato e di sistemazione in Europa con una costante azione di propaganda e pubblicità in un gioco di specchi che, secondo Barberis, ha dato il giusto risalto a tappe importanti ma spesso ha anche mascherato realtà modeste. Il volume einaudiano scava in questo millennio sabaudo con una serie di saggi sui vari aspetti della storia della dinastia (di Christopher Storrs, Geoffrey Symcox, Andrea Merlotti, Paola Bianchi, Alberto Conte e Livia Giacardi, oltre a un contributo sull'iconografia dinastica di Clara Goria) per ripristinare l'ordito originale, fuori dalle incrostazioni encomiastiche. Ma la tesi polemica attorno cui il libro è costruito è esposta nel saggio introduttivo del curatore: «I Savoia. Quattro storie per una dinastia». Perché e quali quattro storie?

La prima è quella aurorale, di fondazione. Siamo nel Mille, quando Umberto Biancamano (insieme con i suoi successori) intesse rapporti parentali e diplomatici che trasformano una piccola contea alpina (che però controlla valichi importanti e vie di transito) nell'archetipo del futuro Stato sabaudo. Il segreto è l'equilibrio fra potere centrale e decentramento amministrativo. Decisivo il ruolo della corte come spazio del potere effettivo e della sua rappresentazione.

La seconda è la storia della costruzione dello Stato, la fase che giustifica che i Savoia si montino la testa e aspirino a diventare re, con uomini di grande spirito riformatore: Emanuele Filiberto o Vittorio Amedeo II. Qui il segreto è la riforma dell'esercito, che diventa il luogo di elezione di una aristocrazia che ne trae privilegi (dal diritto di portare armi all'immunità per vari delitti), mentre la borghesia ne finanzia le spese: forse i denari non tornavano, ma ci si assicurava un credito coi reali.

In questo rinnovamento, le basi dello Stato diventano in realtà le basi dell'intera società piemontese. L'assetto militare prepara quello industriale. Vedi il rapporto tra studi scientifici e tecnologie dell'artiglieria. È in tale contesto che si affaccia alla modernità la Torino della Fiat.

Poi si volta pagina. La terza storia è quella risorgimentale, imbevuta nella retorica patriottica. Nel cuore del processo di unificazione nazionale, nel passaggio chiave dal trono di Sardegna a quello d'Italia, la dinastia si ritrova a corto di potere, strategie e fascino. Sono altri i personaggi egemoni: Cavour e Garibaldi sopra tutti. Vittorio Emanuele II, il padre della patria e il re galantuomo, magari simpatico per la bonarietà, non amava il mestiere di re se non per fare la guerra: «Non aveva grandi capacità di governo né particolare pensiero politico».

L'ultima storia è quella del naufragio: Bava Beccaris, la grande guerra e il compromesso con il fascismo, rispecchiati nella personalità meschina e scontrosa di Vittorio Emanuele III, il re soldato, di cui Barberis ricorda la natura indecisa e superficiale e la piccola statura morale: «Certamente non dimostrerà mai di avere la stoffa del condottiero né i requisiti culturali dell'uomo di Stato». Così, fra Ottocento e Novecento, in poco più di un secolo, i Savoia disperdono «un cospicuo patrimonio di potere reale insieme con un notevole riflesso di immagine».

da lastampa.it
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