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Autore Discussione: ERNESTO FERRERO - I difficili conti con il nostro passato  (Letto 2426 volte)
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« inserito:: Maggio 12, 2011, 10:57:40 am »

12/5/2011

I difficili conti con il nostro passato

ERNESTO FERRERO*

Viviamo ormai da anni un curioso paradosso: siamo assistiti da memorie digitali sempre più estese e potenti, eppure viviamo appiattiti su un presente tra l’ansioso e il rassegnato, incapaci di guardarci indietro e di progettare, come se la sovrabbondanza di archivi sempre disponibili ci dispensasse dal frequentarli davvero.

Eppure mai come oggi dobbiamo fare (seriamente) i conti con il nostro passato per capire dove e come indirizzare il nostro futuro. Proprio questo sarà il motivo conduttore del XXIV Salone del libro che si apre giovedì al Lingotto, ospiti d’onore due Paesi che vivono tutti i giorni conti difficili con la loro drammatica storia: la Russia e la Palestina.

In casa nostra, da una lunga stagione in cui il Risorgimento è stato avvolto nelle retorica celebrativa siamo passati a un revisionismo revanscista che cerca motivi di scontro, invece di tentare sintesi nuove. Eppure basta sfogliare quell’album di famiglia che è la mostra «l’Italia dei libri» ospitata all’Oval e fulcro del Salone 2011 per capire come e quanto opere e autori di questi 150 anni abbiano concorso a creare una cultura condivisa che costituisce il vero valore fondativo della nostra identità collettiva. E quel che la cultura ha unito, nessun uomo potrà mai dividere.

Questo valore che sembra fragile e volatile ha un’anima d’acciaio. Quando parliamo di memoria, ci si impone un’immagine drammatica e sublime che ha per protagonista un grande poeta russo, Osip Mandel’stam, morto in un gulag staliniano. Per sottrarsi alle vessazioni e ai sequestri della polizia politica (l’ordine di Stalin è: tenerlo in vita ma isolarlo), al poeta e a sua moglie Nadezda non resta altro che nascondere i versi nella memoria, unico luogo non raggiungibile dagli sgherri di quello che in una memorabile poesia lui aveva chiamato "il montanaro del Cremlino" dalle "tozze dita grasse come vermi" e dagli "occhi di blatta". Così miracolosamente conservati, quei versi sono potuti arrivare fino a noi, inverando quel meraviglioso modo di dire francese per cui mandare a memoria è imparare par coeur: con il cuore e per il cuore.

Perché accade questo: che i regimi crollano e alla fine vincono loro: i piccoli, febbrili, inermi, tormentati uomini della poesia. Mandel’stam ardeva letteralmente d’amore per Dante, come ha detto la Achmatova, anche perché si riconosceva nel suo destino di esule, di eterno disadattato, nelle sue goffaggini di viandante che non sa mai bene quale contegno tenere. Con loro e in loro, la miseria dell’uomo sottoposto a inauditi tormenti fisici e morali si ribalta in grandezza umana e letteraria, diventa patrimonio dell’umanità.

Un loro fratello era anche Josif Brodskij, che nel maggio 1988, fresco di Nobel, tenne la prolusione inaugurale del primo Salone del libro. Al Teatro Regio, Brodskij spiegava che quel che distingue l’arte dalla vita sta nel suo saper resistere ai cliché, ai luoghi comuni, alle frasi fatte, alla banalità del male. E rivendicava alla poesia il suo essere la forma suprema della locuzione umana, il modo più conciso, più denso, più economico di trasmettere la nostra esperienza di uomini: "Più si legge poesia, meno si tollera ogni sorta di verbosità, nei discorsi politici o filosofici, come nella storia, nella sociologia o nella prosa". Per lui la letteratura non è un surrogato della storia o della realtà, è un’alternativa radicale. Crea un mondo parallelo di simboli e di metafore, di intuizioni poetiche che sono in anticipo rispetto alla realtà del proprio tempo, e in qualche modo concorrono a trasformarla. Quanto più ricca sarà l’esperienza estetica di un cittadino, tanto più sarà refrattario agli slogan della demagogia e agli inganni del potere, tanto più nette le sue scelte morali e tanto più libero lui stesso.

La storia del Novecento è stata un susseguirsi di tragedie e di orrori e il primo decennio del nuovo millennio non è andato molto meglio. Viviamo tempi di regressione tribale e di opposti estremismi. La «zona grigia» del compromesso e dell’abitudine al peggio guadagna terreno. Per fortuna ci sono ancora, ovunque, piccoli poeti impacciati come Dante e Mandel’stam che si ingegnano a resistere non solo alle violenze dei regimi ma anche e soprattutto all’indifferenza, al cinismo, all’atonia morale dei loro contemporanei. Che anche quando non rischiano la vita sperimentano la solitudine e l’incomprensione, la marginalità, eppure continuano a lavorare per coloro che verranno. Il Salone del libro li ricorda e li onora, perché la saldatura tra passato e futuro continua a passare nelle loro mani.

*Direttore del Salone del libro

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