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Autore Discussione: Niall Ferguson. Attenti alle rivoluzioni degli altri  (Letto 2583 volte)
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« inserito:: Marzo 03, 2011, 12:34:24 pm »

Attenti alle rivoluzioni degli altri

Niall Ferguson

Questo articolo è stato pubblicato il 03 marzo 2011 alle ore 06:40.

Gli americani amano la rivoluzione. Dato che la loro grande nazione è nata da una dichiarazione rivoluzionaria e forgiata da una guerra rivoluzionaria, istintivamente si schierano con i rivoluzionari di altri paesi e altre terre, a prescindere dalle differenti circostanze nelle quali quei paesi si trovano e da quanto disastrosi possano esserne gli esiti. Questa cronica riluttanza a trarre i debiti insegnamenti dalla storia potrebbe comportare un prezzo alquanto oneroso da pagare, se l'ondata rivoluzionaria che sta spazzando l'Africa del Nord e il Medio Oriente si dovesse infrangere con lo stesso impatto devastante della maggior parte delle ondate rivoluzionarie.

Benjamin Franklin e Thomas Jefferson plaudirono alla rivoluzione francese. Il primo scrisse che «i francesi avevano fatto pratica di libertà in questo paese, e ... adesso l'hanno procurata a loro stessi». Jefferson arrivò a difendere i giacobini, responsabili del sanguinario Regno del Terrore. «La libertà della terra intera dipendeva dalla riuscita di questa sfida - scrisse nel 1793 - ma si è mai vinto un premio senza pagare un prezzo così esiguo in termini di sangue degli innocenti? Avrei preferito vedere desolata metà della terra, che fallita la rivoluzione».

Il giornalista John Reed ne I dieci giorni che sconvolsero il mondo - libro per il quale lo stesso Lenin (il «grande Lenin», secondo Reed) scrisse un'appassionante prefazione - si espresse con ugual entusiasmo sulla rivoluzione russa del 1917. La controparte di Reed per la rivoluzione comunista cinese fu Edgar Snow, la cui descrizione di Mao - «Aveva la semplicità e la naturalezza di un contadino cinese, con un brillante senso dell'umorismo e una vera passione per le risate schiette» - oggi ci fa gelare il sangue nelle vene.

Più e più volte nel corso della storia gli americani hanno plaudito alle rivoluzioni, per poi tacere bruscamente e inspiegabilmente, non appena quelle stesse rivoluzioni si apprestavano a divorare non i loro figli soltanto, ma anche quelli altrui. In ogni caso, il conto delle vittime è sempre stato nell'ordine dei milioni.

Pertanto, oggi che assistiamo alle rivoluzioni che dilagano nel mondo arabo (e in teoria anche oltre), sarà bene tenere a mente queste tre caratteristiche delle rivoluzioni non americane:

1. Per le rivoluzioni occorrono anni: forse nel 1789, nel 1917 e nel 1949 l'alba promise una mattina tranquilla e felice. A quattro anni di distanza, era ancora notte fonda in pieno giorno.

2. Le rivoluzioni iniziano allorché si sfida l'ordine politico costituito, ma quanta più violenza occorre per raggiungere quello scopo, tanto più l'iniziativa passa nelle mani di uomini violenti - Robespierre, Stalin e Mao, il "senza cuore" supremo.

3. Dal momento che i paesi confinanti si sentono esposti al pericolo della rivoluzione, alle violenze interne fanno spesso seguito quelle esterne, o perché la rivoluzione è veramente messa a repentaglio dagli stranieri (come nel caso delle rivoluzioni francese e russa), o perché torna comodo ai rivoluzionari addossare ogni responsabilità di problemi interni a una minaccia esterna (come quando la Cina intervenne nella guerra di Corea).

A quanto fin qui detto un americano potrebbe obiettare: «Sì, è vero, ma non fu altrettanto vero anche della nostra rivoluzione?».
La rivoluzione americana si trascinò: tra la Dichiarazione di indipendenza e Yorktown trascorsero cinque anni. Ci furono episodi di grande violenza. E, naturalmente, una grande opposizione all'estero. Nondimeno, il livello raggiunto dalla violenza nella rivoluzione americana rispetto agli standard di altre grandi rivoluzioni della storia fu decisamente modesto. Tra il 1792 e il 1815 morì in battaglia un numero di francesi venti volte superiore a quello degli americani morti tra il 1775 e il 1783. Oltretutto - come Maya Jasanoff illustra nel suo brillante libro appena uscito che si intitola Liberty's Exiles - gli sconfitti della rivoluzione americana non furono ghigliottinati, né epurati né lasciati morire di stenti. La maggior parte di loro lasciò le tredici colonie ribelli per dirigersi in altre zone più stabili dell'Impero britannico, dove continuò a vivere.

Esistono anche altre differenze importanti. Coloro che combatterono la rivoluzione americana erano, per gli standard del XVIII secolo, eccezionalmente benestanti e ben istruiti. Oggi in Libia la popolazione è più simile ai sanculotti delle strade malfamate di Parigi, ai "proletari straccioni" dei bassifondi di Pietrogrado, o ai contadini analfabeti che calzavano perfettamente agli standard di Mao.
Ecco spiegato perché è altamente verosimile che le violenze nel mondo arabo odierno siano di portata maggiore e più prolungate rispetto a quanto avvenne nell'America del Nord negli anni Settanta del Settecento. Sono giovani poveri e poco istruiti. E sono circa 40 milioni.
Due settimane fa ho criticato l'amministrazione Obama per non essere riuscita a prevedere questa crisi per tempo, e anche per non aver avuto alcun tipo di grandiosa strategia coerente con la quale affrontarla, dando vita così a un periodo di sfortunata confusione nella politica estera americana. Molti critici si sono chiesti come avrebbe potuto essere configurata una strategia coerente così auspicata, e la risposta è la seguente.

Per molti anni le amministrazioni americane hanno cercato di accontentare tutti in Medio Oriente, predicando i meriti della democratizzazione senza al contempo fare quasi nulla per esercitare pressioni sui despoti della regione per varare riforme, a patto che il loro pessimo comportamento rimanesse entro certi limiti tollerabili (per esempio, non invadessero Israele e il Kuwait, non acquisissero armi di distruzione di massa). L'amministrazione Bush ha messo fine a queste acrobazie verbali, e ha iniziato a intervenire, oltre che a lodare la politica della democratizzazione, utilizzando la forza per installare dei governi eletti sia in Afghanistan sia in Iraq.

L'amministrazione Obama è stata eletta da molti americani che avevano rimpianto il prezzo pagato per quella politica. Ma al posto della dottrina Bush c'è stato il nulla. L'ossequioso discorso di Obama del 2009 al Cairo ha teso una fiacca mano di amicizia al mondo musulmano. Ma a chi è stata tesa? Ai despoti? O alle popolazioni a loro asservite? A quanto pare, anche Obama sperava di accontentare tutti, dato che è arrivato a stringere la mano all'odioso Muammar Gheddafi.

La strategia giusta - che, per inciso, John McCain avrebbe attivamente perseguito qualora fosse stato eletto nel 2008 - è duplice.
Da un lato avremmo dovuto cercare di ripetere i successi del periodo pre-1989, quando in Europa centrale e orientale mettemmo in pratica ciò che avevamo predicato, dando un sostegno concreto agli individui e ai movimenti che ambivano a sostituire i regimi comunisti marionetta con altrettante democrazie.

L'aiuto degli occidentali a Charta 77 in Cecoslovacchia e a Solidarnosc? In Polonia fu concreto, e fu una delle ragioni per le quali quando nel 1989 arrivò la crisi dell'impero sovietico erano pronti dei veri democratici, pronti a subentrare nel vuoto di potere creato dalla Dottrina Sinatra di Mikhail Gorbaciov (mentre ciascun paese del Patto di Varsavia fu lasciato libero di fare le cose a modo proprio).
Uno sforzo del genere nel mondo arabo non è stato fatto. Anzi: gli sforzi in quella direzione sono andati progressivamente diminuendo.
Ne consegue che oggi non abbiamo alcuna idea di chi potrà riempire il vuoto di potere che si è venuto a creare.

Soltanto gli irrimediabilmente ingenui sono in grado di fantasticare che una trentina di dirigenti di Google possa formare la nuova leadership del mondo arabo, aiutata magari dal social network di amici su Facebook. Conseguenza di gran lunga più probabile - come nelle rivoluzioni del passato - è che il potere passi nelle mani degli elementi meglio organizzati, più radicali, più spietati della rivoluzione, che in questo caso specifico significa islamisti come i Fratelli musulmani.

D'altro lato, il secondo aspetto della nostra strategia avrebbe dovuto contemplare la possibilità di sfruttare le divisioni interne al movimento islamista. Queste divergenze sono profonde, in buona parte perché è ovvio, per esempio, che l'Iran sciita ha una visione completamente diversa del Medio Oriente islamizzato rispetto ad al Qaeda, che ha una visione più wahhabita. Gli iraniani hanno fatto la loro mossa più arrogante spedendo due loro navi da guerra attraverso il Canale di Suez nel Mediterraneo orientale anche se oggi torneranno alla base. Questa vicenda non dovrebbe mettere in apprensione soltanto Israele, ma anche il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, che sogna un impero ottomano riportato a nuovo splendore, potenza dominante di tutta la regione.

In mancanza di una strategia americana, purtroppo, la probabilità che si realizzi lo scenario peggiore prende piede sempre più, di giorno in giorno. Mi riferisco a uno scenario del tipo di quelli che si videro al potere al termine delle rivoluzioni in Francia, Russia e Cina. In un primo tempo le rivoluzioni in Africa del Nord e in Medio Oriente potrebbero diventare molto più violente, con un bilancio di morti nell'ordine delle decine o anche centinaia di migliaia. In seguito, potrebbero innescare una guerra aperta e conclamata, che provocherebbe milioni di morti. Il peggio in assoluto sarebbe se da una guerra di questo tipo emergesse un nemico tanto spaventoso quanto la Francia di Napoleone, l'Unione Sovietica di Stalin o la Cina di Mao.

Sì, gli americani amano le rivoluzioni, ma dovrebbero attenersi ad amare le proprie.

(Traduzione di Anna Bissanti)
© 2011, NEWSWEEK

IL LIBRO

Maya Jasanoff insegna alla Harvard University. Nel libro appena pubblicato, Liberty's Exiles, fa un immenso affresco della rivoluzione americana. Spiega che gli sconfitti della rivoluzione non furono ghigliottinati né epurati né lasciati morire di stenti: molti di loro abbandonarono le tredici colonie ribelli per dirigersi in altre aree più stabili dell'Impero britannico, che promettevano «la possibilità di vita, libertà e ricerca della felicità». L'analisi è considerata ambiziosa e originale, soprattutto per il concetto di diaspora verso l'Impero britannico.

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