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Autore Discussione: Savinio e Disney UN INTERVENTO DEL CURATORE DELLA MOSTRA  (Letto 2469 volte)
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« inserito:: Febbraio 27, 2011, 05:43:32 pm »

Savinio e Disney - UN INTERVENTO DEL CURATORE DELLA MOSTRA

Mickey Mouse: surrealismo e ironia di un Mercurio dei tempi moderni

Secondo Savinio, Topolino incarna una «forma di surrealismo volgarizzato, un surrealismo alla portata di tutti, un surrealismo per piccole borse»

 
Le investigazioni metafisiche di Savinio evocano la Grecia antica, recuperano eleganze rinascimentali, si appropriano di fastosità barocche. E, insieme, offrono sorprendenti aperture in direzione della contemporaneità: addirittura si potrebbero scorgere relazioni – indirette, involontarie – con il mondo dei cartoon. Si tratta di un’affinità su cui la storiografia non si è mai soffermata. Per un attimo, dimentichiamo il complesso ordito culturale sotteso all’iconografia saviniana. E guardiamo ingenuamente la madre-gallina o struzzo, il padre-giraffa, Egeo-dromedario, Ruggero-gallo, Psiche-pellicano, i centauri, poltromamma e poltrobabbo. Sono evidenti le assonanze con gli eroi che riempiono la galleria creata dal più straordinario favolista del XX secolo, Walt Disney. Una mera illazione? Rileggiamo un articolo uscito su La Stampa il 25 luglio 1934, in cui Savinio riconosce la vetta del surrealismo umanistico in Topolino. Un eroe minore che, rapidamente, è penetrato «nei costumi del cinematografo, o come dire nei costumi del popolo»: mentre si svolgono sullo schermo, le sue gesta suscitano negli spettatori reazioni di compiacimento. Mickey Mouse non è solo divertissment. Incarna una «forma di surrealismo volgarizzato, un surrealismo alla portata di tutti, un surrealismo per piccole borse», scrive Savinio, anticipando un rilievo di Dalí, il quale, in una lettera a Breton, confesserà non senza enfasi: «Sono venuto a Hollywood e ho incontrato tre grandi surrealisti americani: i fratelli Marx, Cecil B DeMille e Walt Disney». Topolino, secondo Savinio, «risveglia e rende plastico l’animismo degli oggetti», trasformando le «abituali finalità della vita». Con disinvoltura, ci fa capire che ogni cosa può essere se stessa e altro. «Addomestica gli abissi marini e quelli celesti, ravvicina i pianeti, riduce i misteri a proporzioni non solo umane, ma infantili». Sa sbaragliare «la tenebra generatrice di terrore e di superstizione», dimostrando che tra poesia e caricatura il passo è breve.

Battagliero, scapigliato, oltraggioso, elastico, trasposizione autobiografica di Disney: ecco Mickey Mouse. Quasi un Mercurio della modernità: anch’egli agile, anarchico, dinamico, vagabondo, irriducibile, proteiforme, energetico. Savinio ne fa un elogio, ricorrendo a parole che potrebbero ricordare quelle di Walter Benjamin, il quale, in un breve saggio del 1931, enuncia l’estetica di Topolino. Il suo percorso non è una corsa, ma un labirinto tortuoso, «come una pratica burocratica dentro un ufficio». Riesce a infrangere «’intera gerarchia delle creature basata sulla supremazia dell’essere umano», diventando metafora per «ritrarre, smascherare e rendere possibile la critica all’ideologia della borghesia». Vive avventure, prendendosi gioco della civiltà della tecnica e della cultura. In che modo? Ridendo. Mette sottosopra la realtà. L’esito più sorprendente è che «tutte queste meraviglie, senza trucco alcuno e del tutto improvvisate, saltano fuori dal corpo di Topolino, dei suoi compagni e dei suoi persecutori». Siamo al centro di una narrazione priva di drammaticità, che «dirige quasi ritmicamente gli spettatori di una sala intera». Grazie a Mickey Mouse, possiamo «imparare a conoscere la paura».
                       
La posizione di Savinio rispetto ai cartoon è piuttosto ambigua. Basta soffermarsi su una recensione del 1947 dedicata a Fantasia. Disney? Eccessivo. Non ha il senso della misura. È del tutto privo del «principio della sobrietà». Il suo cinema è come «un pasto composto unicamente di caramelle saccarinate»: un «misto di volgarità, stupidità, scemenza, amoralismo», annegato in un «cromatismo iridescente» che rinvia a metropoli luminosissime come New York e Los Angeles. È «l’esteta più plateale del nostro tempo»: le sue sono solo cartoline illustrate.

Sorretto dalla sua grecità, Savinio è cauto nei confronti dei cartoni animati. Ma dimostra di conoscere bene la filosofia disneyana. Ne riesce a cogliere anche aspetti poco esplorati: la carica sottilmente surrealista. In pittura, egli compie un’operazione molto vicina a quella portata avanti da Disney negli stessi anni. Tra il 1926 e il ‘27, ad esempio, recupera immagini fotografiche sbiadite dal tempo, e le ingrandisce: introduce nella fonte acquisita modifiche cromatiche, con effetti da cartelloni pubblicitari. Talvolta, preleva riproduzioni già-fatte, per realizzare collages dipinti. Contamina alto e basso: pittura e stampa popolare, riuscendo a destabilizzare i sistemi percettivi e comunicativi. In questo modo, arriva addirittura ad anticipare procedimenti che saranno sperimentati, negli anni settanta, da un artista pop come Roy Lichtenstein, celebre per le sue riscritture dalle strips.

Pur lontani per sensibilità, formazione, attitudini, cultura e intenti, Savinio e Disney sono accomunati dal bisogno di elaborare atmosfere favolistiche. Ecco cosa aveva scritto l’autore di Hermaphrodito: «L’arte porta il ricordo in sé del paradiso perduto ma insieme porta la promessa del paradiso ritrovato». Ed ecco in che maniera un regista sofisticato come Ėjzenštejn spiega la filosofia del creatore hollywoodiano: «La poetica di Disney [è] il "Paradiso Ritrovato". Proprio il Paradiso. Che non si realizza sulla terra. Concretizzato soltanto dal disegno. Non è l’assurdità del contrasto tra le concezioni infantili di un tipo vagante e la realtà degli adulti, ma l’effetto comico generato dalla loro incompatibilità. E la tristezza di sapere che l’infanzia per l’uomo, l’età dell’oro per l’umanità, sono perdute per sempre […]. Disney […] rappresenta il ritorno completo al mondo della libertà totale […], un mondo liberato dalla necessità».

Ėjzenštejn si dice entusiasta dinanzi a film che propongono rivolte «contro lo smembramento e la legalizzazione, contro la lividezza e il grigiore». L’arte di Disney è magnifica, allegra: «scintilla di forme ricercate e brilla di una purezza accecante». È consacrata alla metamorfosi, alla trasmutazione. «I personaggi passano uno nell’altro»: un po’ animali, un po’ uomini. Metafore plastiche: «forma arricchita, primitiva […] dell’interazione dei contrari». Una maniera per addentrarsi nelle corde più segrete del cuore.

Vincenzo Trione

25 febbraio 2011
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da - corriere.it/cultura/eventi

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