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Autore Discussione: FRANCESCO LA LICATA. -  (Letto 23110 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Luglio 20, 2012, 10:21:12 am »

20/7/2012

Serve unità per sanare le ferite

FRANCESCO LA LICATA


Gli anniversari, quelli in memoria di persone care che non ci sono più, sono sempre ferite che si riaprono.

Specialmente in occasione del ricordo di perdite gravi, come sono stati gli assassinii di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per questo ogni volta viene auspicata quella unità, quella coesione nazionale che servirebbe a lenire il dolore e ad aprire la strada alla speranza che il lutto possa essere risarcito col conseguimento della verità, in genere negata alle «parti lese». Non riusciamo a immaginare migliore unguento alle ferite di un fronte unico, capace di vincere la difficilissima battaglia contro le mafie, il malaffare e la corruzione.

E in questa direzione va il messaggio che, ieri, il Capo dello Stato ha voluto indirizzare ai magistrati riuniti in assemblea per commemorare il giudice Paolo Borsellino. Un segnale di grande affetto verso la signora Agnese, vedova del magistrato, e i figli che il Presidente chiama per nome, così come gli agenti della scorta uccisi con Borsellino. Un tono quasi paterno, quello di Napolitano, anche quando prende l’impegno solenne di voler porre rimedio alla «umiliazione» (per l’intera comunità) per il debito di verità delle indagini, per «quella contraffazione della verità». Ma, aggiunge il Presidente, «si sta lavorando, si deve lavorare senza sosta e senza remore per la rivelazione e sanzione di errori ed infamie che hanno inquinato la ricostruzione della strage di via D’Amelio».

Anche il tono riservato ai magistrati tradisce estrema comprensione per la loro «sofferenza sofferta nel corso degli anni, per la perdita di eminenti esemplari colleghi», e quasi una comunanza («vissi lo stesso dramma») sia per la perdita di Falcone e Borsellino, sia per la tragica fine di uomini come Terranova e La Torre. Una commozione, quella del Presidente, che non può esimerlo per il suo ruolo istituzionale - dal dovere di controllo al fine di «scongiurare sovrapposizioni nelle indagini, difetti di collaborazione tra le autorità ad esse preposte, pubblicità improprie e generatrici di confusione».

Parole che dovrebbero rasserenare, in qualche modo, il clima politico-istituzionale ed appianare le polemiche sorte intorno alla questione delle telefonate al Quirinale dell’ex ministro Nicola Mancino, della loro intercettazione da parte della Procura di Palermo (iniziativa che ha diviso insigni giuristi e costituzionalisti) fino al ricorso, da parte di Napolitano, alla Corte Costituzionale per un pronunciamento su un eventuale conflitto di attribuzione.

Una vicenda che ha avuto notevole ricaduta mediatica, come ormai accade sempre più spesso nelle vicende politico-giudiziarie italiane. «Una tempesta in un bicchier d’acqua», l’ha definita ieri il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, che, qualche giorno prima, aveva gettato acqua sul fuoco osservando come la questione fosse «in buone mani», cioè nelle mani dell’Alta Corte, e quindi non c’era che da attendere il qualificato responso.

Al di là della battuta, il parere di Grasso mette in risalto come l’aver voluto coinvolgere il Quirinale abbia sortito, alla fine, il discutibile risultato di aver fatto passare in secondo piano l’obiettivo principale (la verità sulla trattativa tra Stato e mafia) in favore di una polemica di difficile comprensione, dal momento che sono stati gli stessi magistrati di Palermo a chiarire che le telefonate intercettate non avevano «rilevanza penale» e, soprattutto, che da parte del Colle (ha chiarito con onestà il pm Ingroia) non c’era stato alcun tentativo di pressione o di incidere sull’esito dell’inchiesta.

Ma il fragore mediatico ormai sembra essere l’obiettivo della competizione politica: non è importante dibattere su argomentazioni serie e certe, perché prima di tutto, prima della ragione, basta accendere una rissa. La «temperatura alta» sembra essere diventata la condizione preferita dalla politica. E spesso ne fanno le spese i magistrati e le loro inchieste, usate come corpi contundenti prima ancora che si riesca a capire quale sia lo stesso oggetto delle indagini. Nelle prossime ore si dovrebbe giungere alle richieste per gli indagati coinvolti nell’inchiesta sulla «trattativa». Domanda: senza l’iniziativa del Quirinale sul conflitto d’attribuzione, avrebbe retto il segreto sulle telefonate «penalmente irrilevanti»?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10349
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« Risposta #31 inserito:: Luglio 25, 2012, 05:00:36 pm »

Cronache

22/05/2012 - 1992-2012 speciale Falcone e Borsellino

Grasso: "Troppe domande sono rimaste senza risposta"

Fianco a fianco al maxiprocesso Grasso conobbe Falcone durante il maxiprocesso a Cosa nostra, quando era giudice a latere

Parla il procuratore nazionale antimafia: “Le vere motivazioni restano oscure”

FRANCESCO LA LICATA

Roma

Quando il procuratore nazionale Pietro Grasso si abbandona ai ricordi, traspare tutta la confidenza che deve aver caratterizzato il suo rapporto umano e professionale con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed anche l’amore per due amici «rubati» dalla violenzamafiosa, tanto da sentirsi - ancora dopo vent’anni - «parte lesa per il danno subìto». Un danno che, stando alle semplici parole del procuratore, non è stato mai indennizzato. Neppure da quelle istituzioni che avrebbero dovuto fare di tutto «per offrire verità e giustizia ai familiari e ai cittadini, privati di un bene incalcolabile e irripetibile».

Cominciamo dai ricordi, dottor Grasso. Chi era Giovanni Falcone?
«Era soprattutto un uomo perbene, un magistrato integerrimo e un grande investigatore. Una persona speciale con un enorme senso dello Stato e del dovere: per questo forse, in vita, ha avuto più nemici che simpatizzanti e, da morto, è diventato l’oscuro oggetto del desiderio dei suoi più acerrimi nemici».

Come vi siete incontrati?
«È stato il maxiprocesso ad avvicinarci, ma già avevo avuto modo di verificare la professionalità che faceva di lui un fuoriclasse. Fu quando dal ritrovamento di una motoretta abbandonata riuscì a risalire al furto, agli autori del furto e, soprattutto, a “fare giustizia” riconsegnando al proprietario il mezzo, seppure danneggiato. Credo che in questa metafora vi sia tutto il senso del fare giustizia, fino al risarcimento della vittima, che non avviene spesso. Poi fui designato alla gestione, come giudice a latere, della “creatura” a cui Falcone teneva di più: il processone all’intera Cosa nostra. Ricordo quando andai a trovarlo per sapere di più dell’impianto processuale e lui, ironico come sempre, quasi sfottente, mi portò davanti alle ottocentomila pagine archiviate in faldoni e mi disse semplicemente: “Eccolo”. Mi sentii schiacciato da quella mole di carte ma non mi persi d’animo e, subito, rilanciai: “Bene, qual è il primo volume”? Così capì che avevo voglia di lavorare e si rassicurò. Già, voglia di lavorare, la dote che più ricercava nei collaboratori».

Dicono non fosse simpatico, Falcone.
«Era una persona seria, merce rara e spesso non amata. Ma in privato sapeva sorridere, sapeva divertirsi. Amava la vita, la libertà, lo sport, la musica, i buoni film, la buona tavola e il vino raffinato. Rappresentava un suo umorismo, tutto particolare. Per esempio la capacità di giocare col senso della morte. Alcuni siciliani, specialmente quelli che vivono a contatto col pericolo, sanno scherzare col macabro, forse per esorcizzare il pensiero dellamorte.Anche Borsellino giocava colmacabro. Giocava con Giovanni e gli diceva: “Io sto tranquillo, tanto se decidono di ammazzare qualcuno sicuramente cominciano da te”. Una volta al ristorante, sul golfo diMondello, abbiamo avuto qualche attimo di apprensione vedendo arrivare una barca che si avvicinava troppo. Poi capimmo che non c’era motivo di allarmarsi e proprio in quel momento si avvicinò il cameriere per un chiarimento sulla bistecca che aveva ordinato Falcone: “Per lei naturalmente al sangue, dottore”. Scoppiammo a ridere, davanti al cameriere sbigottito. Le stesse risate che non riuscimmo a trattenere quella volta che trovammo un’ambulanza, davanti al palazzo di giustizia, sovrastata da un cartello che diceva: “Date il vostro sangue”. “Questi li manda la mafia”, fu il commento di Falcone rivolto a Borsellino».

Riuscivate a percepire il pericolo, man mano che i due si avvicinavano al campominato delle inchieste sui piani alti dellamafia?
«L’omicidio di Salvo Lima fu il campanello d’allarme più importante. Giovanni aveva subìto ogni tipo di avversione, era stato sempre puntualmente bocciato per gli incarichi che il buonsenso gli avrebbe tranquillamente affidati. Persino la bomba all’Addaura era stata strumentalizzata contro di lui. Dissero che l’attentato se l’era fatto lui per guadagnarsi la nomina a procuratore aggiunto di Palermo. E quando accettò di andare a Roma, conMartelli, si inventarono che fuggiva per intraprendere la carriera politica. Vergognoso ciò che ha dovuto subire».

L’omicidio Lima, dunque, lo allarmò.
«Capì che erano saltati gli schemi, proprio mentre sul tappeto delle inchieste c’erano i grovigli dimafia, politica, imprenditoria e appalti. Disse: “Ora può succedere di tutto”».

E così fu. Le stragimafiose... Il ricatto allo Stato.
«Certo, la mafia, i corleonesi, Totò Riina. Ma basta questo a spiegare tutto? Passi avanti se ne sono fatti, ma ci sono domande ancora senza risposta».

Ce ne dica qualcuna, procuratore.
«Per esempio, chi e perché decise di eliminare Falcone con una scenografia di natura terroristica e politica? Fu iniziativa di Riina? Chi e per quale motivo spinse Cosa nostra ad accelerare l’esecuzione della strage di via D’Amelio, tralasciando anche i progetti, già in fase avanzata, di eliminazione di uomini politici? Faceva paura l’eventualità di Borsellino capo della Superprocura, o lo spettro di nuove indagini su mafia e appalti? Prevalevano gli interessi di Cosa nostra lanciata nel tentativo di trattare sul carcere duro e sulle condizioni della cupola, oppure il coacervo di interessi di entità esterne (massoneria, imprenditoria e servizi deviati) decisi a mantenere i loro illeciti profitti? Oppure era il tentativo di disinnescare l’effetto Tangentopoli col conseguente disfacimento del vecchio sistema politico? Devo continuare? Ame pare che basti»

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/455232/
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« Risposta #32 inserito:: Luglio 25, 2012, 05:15:28 pm »

25/7/2012

Un cammino pieno di ostacoli

FRANCESCO LA LICATA

Per la Procura di Palermo, dunque, nel 1992 - dopo il trauma del feroce assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima - lo Stato italiano scese a patti con Cosa nostra, che chiedeva un «ammorbidimento» del carcere duro in cambio della fine della strategia stragista e, in particolare, della programmata «mattanza» di uomini politici già nel mirino e sottoposti, addirittura, a controlli propedeutici al loro assassinio.

E’ un passo, grave, che i pubblici ministeri palermitani compiono certamente non a cuor leggero e per la portata delle accuse rivolte alle autoritàdeltempoeperilclimapolitico-istituzionale che accoglie la loro iniziativa, certamente non del tutto favorevole alle tesi della pubblica accusa. Tra i personaggi proposti per il rinvio a giudizio (insieme con capimafia di ampio spessore) spiccano gli ex ministri Nicola Mancino e Calogero Mannino, il cofondatore di Forza Italia sen. Marcello Dell’Utri -, tre ufficiali dei carabinieri: nomi pesanti, il cui coinvolgimento certo non alimenta il senso di credibilità nello Stato.

La storia della trattativa con la mafia ha radici antiche, anche se fino a un certo punto è stata liquidata più come «chiacchiera indimostrabile» o fantasia giornalistica che come vicenda realmente accaduta. Si pensi soltanto che Giovanni Brusca - il collaboratore che per primo parlò del «papello», la listadellerichiestediCosanostraalloStato-laconsegnò alla magistratura nel lontano 1997. E l’anno successivo se ne dibatteva alla Corte d’Assise di Firenze, senza che, poi, venisse mai presa in seria considerazione. Oggi che ritroviamo le tesi della Procura in una richiesta di rinvio a giudizio, non si può più credere sia soltanto una «chiacchiera».

I magistrati palermitani sono convinti che la trattativa sia esistita e sia stata originata dall’allarme lanciato dall’allora capo della Polizia, Vincenzo Parisi, nel lontano marzo 1992. Dopo Salvo Lima, Riina voleva uccidere Calogero Mannino, Carlo Vizzini ed altri politici «per lanciare un messaggio»epretendereun trattamento meno duro peril popolodiCosanostra.Anzi,secondoipm,sarebbe stato proprio Mannino ad intervenire presso le strutture investigative (servizi segreti e Ros) perché cercassero un contatto che potesse fermare il progettodellamafia.Unmodopersalvarsilavitae per bloccare la deriva stragista di Totò Riina.

Così l’allora col. Mori e il cap. De Donno (con la copertura del comandante del Ros Antonio Subranni) - sempre secondo i pm - cercarono e trovarono l’aggancio con l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, uno dei pochi in grado di «parlare» con la mafia corleonese. Per dirla in breve, la trattativa qualche effetto l’avrebbe avuto: Mancino prende il posto di Scotti al ministero dell’Interno, Martelli lascia la Giustizia a Conso, e al vertice delle carceri arrivano Capriotti e Di Maggio. Sostengono i magistrati che tutto il movimento produce il mancato rinnovo di 328 decreti di 41 bis per altrettanti mafiosi.

E’ una storia inquietante, questa. Soprattutto perché proprio mentre va in scena il dramma segreto descritto dai pm palermitani, alla luce del sole esplode la tragedia immensa degli attentati a Falcone e Borsellino. E’ questo, crediamo, il nodo che ha fatto esplodere la contrapposizione recente fra le istituzioni e i familiari delle vittime. Ed è, forse, questo lo stato d’animo che ha motivato il lavoro dei pm palermitani.

Ma la strada della loro inchiesta non sembra delle più facili. Non aiuta lo scontro che la Procura ha voluto intraprendere col Quirinale per la vicenda delle intercettazioni tra il sen. Mancino e il consigliere giuridico del Capo dello Stato, Loris D’Ambrosio. Una vicenda adesso ferma, in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sul conflitto d’attribuzione sollevato dal presidente Napolitano.

Non si può dire che questo groviglio non abbia avuto un peso, anche rispetto alla coesione interna del gruppo dei pm. La richiesta di rinvio a giudizio, depositata ieri, non porta la firma del Procuratore capo, Francesco Messineo. E non ha firmato neppure un altro sostituto, Paolo Guido, perché in disaccordo con le conclusioni dei colleghi. Ad indebolire la «squadra» anche il fatto che soltanto uno dei sostituti che hanno firmato, Francesco Del Bene, fa parte della Procura distrettuale antimafia. Per non parlare dell’ulteriore «complicazione» rappresentata dall’annunciata volontà di Antonio Ingroia di trasferirsi per un anno in Guatemala.

Insomma, non mancheranno ostacoli sul «cammino di verità e giustizia», per dirla con le parole del procuratore aggiunto Ingroia. Uno che viene già paventato riguarda un problema di competenza. C’è chi sostiene che il processo sia destinato ad essere trasferito a Caltanissetta o a Firenze, visto che la trattativa era un espediente per interferire in qualche modo nella strategia delle stragi mafiose. Stragi che si sono verificate e rappresentano, dunque, il reato più grave rispetto a quelli contestati ai protagonisti della trattativa. Da qui l’attribuzione della titolarità agli uffici giudiziari che si occupano delle stragi.

Un’eventuale decisione in questo senso contribuirebbe di certo ad accrescere il dolore provocato dalle stragi e alimenterebbe le perplessità di quanti non credono di poter mai ottenere verità e giustizia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10369
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« Risposta #33 inserito:: Dicembre 16, 2012, 11:56:42 pm »

Editoriali
16/12/2012

Il processo che ha cambiato l’antimafia

Francesco La Licata


Il maxiprocesso contro la mafia, di cui celebriamo oggi il venticinquesimo anniversario, ha rappresentato forse l’unico vero avvenimento rivoluzionario della nostra storia politico-giudiziaria. Il 16 dicembre del 1987 si delineò uno spartiacque netto tra il «prima di Falcone» e il «dopo». 

 

Da allora è cambiata la lotta alla mafia, anzi si può tranquillamente affermare che allora ebbe inizio l’antimafia nelle aule di giustizia. 

Già, perché prima Cosa nostra semplicemente non esisteva come organizzazione criminale unica, coesa e con un’unica direzione strategica. Si erano celebrati processi che puntualmente erano andati a naufragare fra le correnti dei singoli avvenimenti, analizzati caso per caso e perciò indecifrabili o sbrigativamente liquidati con la formula salvifica dell’insufficienza di prove. 

 

Il maxiprocesso, invece, finì per rappresentare il racconto completo di un pezzo di storia d’Italia, a partire dal dopoguerra. Ma un racconto sarebbe rimasto limitato ed esposto alle interpretazioni letterarie se non fosse stato saldamente inserito nei confini rigorosi di una sentenza giudiziaria. Per questo l’istruttoria che preludeva al «maxi» era stata osteggiata con ogni mezzo, lecito o azzardato. Lo sbarramento politico, in chiave utilitaristicamente garantista, aveva aperto le ostilità con le aggressioni a Giovanni Falcone, a Paolo Borsellino e al resto dei componenti del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo. La battaglia sul campo sarebbe stata affidata agli avvocati che, sul terreno di combattimento dell’aula bunker, avrebbero messo in atto ogni mezzo (ostruzionismo e ricerca dilatoria, soprattutto) per affossare il dibattimento. Un impegno che a qualcuno dei legali, in seguito, avrebbe procurato un riconoscimento politico tale da spalancare le porte del Parlamento, anche dopo la vittoria di Falcone: la cupola (19 boss) all’ergastolo, i picciotti condannati duramente (2665 anni di carcere) e l’«anticipo» di ciò che sarebbe avvenuto in politica col coinvolgimento giudiziario dei cugini Nino e Ignazio Salvo e di Vito Ciancimino. 

 

Ma proprio questa efferatezza dello scontro, che riguardava Cosa nostra ma non risparmiava i partiti «cresciuti» e «ingrassati» sotto l’ala mafiosa, risulterà essere il timer della bomba che esploderà negli Anni Novanta con l’aggressione stragista allo Stato e il conseguente, scellerato cedimento alla tentazione trattativista. La mafia presentava il conto accumulato durante gli anni delle «indecenti frequentazioni» della politica, e chiedeva di essere salvata dal maxiprocesso che, proprio nel 1992, trionfava in Cassazione (malgrado l’assassinio preventivo del giudice Scopelliti, designato come pm) e relegava la direzione strategica corleonese al carcere a vita. Una condizione che, di fatto, svuotava di potere l’intera organizzazione criminale. Muore l’ex sindaco di Palermo, Salvo Lima, giustiziato pubblicamente come «primo messaggio» di Cosa nostra. Il resto è storia conosciuta: Capaci, via D’Amelio, le stragi di Roma, Firenze e Milano, la mancata strage del 1994, allo stadio Olimpico. A distanza di tanti anni risulta più comprensibile l’affermazione di quanti dichiararono amaramente che «Falcone cominciò a morire il giorno in cui la Cassazione consacrava il successo del maxiprocesso». Morirà anche Paolo Borsellino e morirà la seconda volta quando verrà fuori l’intreccio della trattativa fra Stato e mafia, con le prove del depistaggio e dell’infedeltà istituzionale. Ma oggi, dopo 25 anni, il coltello è ancora affondato nella carne di Cosa nostra: le hanno tentate tutte, ma gli ergastoli stanno ancora sulle loro teste. 

da - http://www.lastampa.it/2012/12/16/cultura/opinioni/editoriali/il-processo-che-ha-cambiato-l-antimafia-WqswMOhqznufXplXAi8oGJ/pagina.html
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« Risposta #34 inserito:: Luglio 22, 2013, 06:18:31 pm »

Editoriali
17/07/2013

Il solito copione: capri espiatori nessun colpevole

Francesco La Licata


il gioco delle parti ha dato vita ad un copione vecchio e usurato, recitato sul palcoscenico del Parlamento da un ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che sembrava la copia esatta di tanti suoi predecessori, costretti, nel corso dei decenni, a trovare una «pezza» - anche a costo di sfiorare l’illogico - ogni volta che accadeva l’irreparabile. Alfano ha letto, in sostanza, la relazione approntata dal Capo della Polizia, Alessandro Pansa, quasi affidando proprio a quel testo una sorta di «certificazione» sul fatto che «l’affaire Shalabayeva» si fosse svolto a «sua insaputa». E per dare maggior peso alla relazione Pansa, con una «procedura di trasparenza» abbastanza inusuale, ha comunicato che il documento potrà essere letto da tutti sul sito del ministero. 

 

Alfano ha ribadito che tutto è avvenuto all’insaputa sua e dell’intero governo. Soprattutto la parte dell’operazione riguardante l’espulsione della signora Shalabayeva e della figlioletta, dopo la fallita cattura del marito, il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, che, però, dice il ministro, per la nostra polizia era solo un pericoloso latitante e terrorista, perché così era stato assicurato dal console kazako Adrian Yelemessov.

 

Ora, è comprensibile - anche se non giustificabile - che un’indagine amministrativa debba muoversi cercando di procurare il danno minore - ce lo insegnano decine di commissioni inutili su ogni genere di disastro istituzionale -, ma appare eccessivo che si ammetta placidamente che la nostra polizia (Interpol compresa) non sappia chi e quanti siano gli oppositori stranieri presenti a vario titolo nel nostro Paese. Forse sarebbe stata opportuna magari una telefonata ai nostri servizi o anche a qualche servizio amico, per esempio quello inglese, Paese dove la signora Alma Shalabayeva era stata ospitata prima di giungere a Roma. Ma la ragion politica (in questo caso la difesa della stabilità del governo) deve sempre prevalere e quindi passi che accettiamo di fare la figura dei poliziotti delle barzellette. L’importante è difendere la propria (del ministro e del governo) estraneità, tuonare e promettere che «tante teste cadranno» anche se poi non succederà. 

 

La vicenda, invece, avrebbe meritato ben altro svolgimento. L’ammissione del ministro («non sapevo nulla»), sorretta dall’analisi del prefetto Pansa, è istituzionalmente gravissima. L’indagine amministrativa sembra aver dimostrato che, dopo l’irruzione di uno squadrone di poliziotti a Casal Palocco e la fuga del latitante, si è inceppato il meccanismo della comunicazione tra i burocrati del Dipartimento e il gabinetto del ministro. In sostanza, dice Alfano, la vicenda fu trattata come una normale espulsione e queste pratiche, per prassi, non vengono sottoposte all’autorità politica.

 

Forse ci saremmo aspettati da Angelino Alfano, oltre alla minuziosa, burocratica ricostruzione, anche un qualche cenno sul danno prodotto all’immagine dell’Italia, additata pubblicamente come una «piccola» democrazia che si piega alle richieste del dittatore Nazarbayev. E forse, perché no?, non sarebbe stata inopportuna una qualche parola di umana «pietas» (presumibile per un cattolico come Alfano), a parziale indennizzo del dolore provocato ad Alma e alla sua bambina. Ma la politica concede poco spazio alla considerazione per il prossimo.

Cosa accadrà adesso? Il ministro una testa l’ha portata: quella del prefetto Procaccini, suo capo di gabinetto, che si dimette senza nessuna spiegazione ufficiale e senza che il governo abbia chiarito quale sia la sua «colpa». Poi ci sarà «l’avvicendamento» (a quanti avvicendamenti abbiamo assistito negli anni!) del prefetto Valeri, capo della segreteria del Dipartimento della pubblica sicurezza, prossimo ormai alla pensione. Insomma, non accadrà praticamente nulla. Anzi no, Alfano ha preannunciato, col tono del preside burbero ma non troppo, la formazione di una commissione che riorganizzi interamente il Dipartimento e in particolare la direzione generale degli uffici per l’immigrazione. Questo «studio» dovrà far sì che «non accada mai più che un ministro, un intero governo vengano tenuti all’oscuro» su iniziative così delicate.

 

Sembra di assistere ai titoli di coda di un film visto tante volte. Sempre lo stesso: prima il danno, poi il sacrificio di un capro espiatorio dato in pasto all’opinione pubblica ma senza infierire e, infine, l’immancabile commissione riparatrice. L’aereo di Ustica venne seppellito da un simile organismo che dava fiato alla tesi dell’incidente. Per non parlare delle decine di scandali istituzionali regolarmente insabbiati sotto l’autorevole parere di una relazione parlamentare. Poche storie scandalose, in Italia, si sono chiuse con la condanna dei responsabili. Si sa sempre chi esegue, ma non chi dà l’ordine. Come a Genova, per la Diaz e Bolzaneto.

 da - http://www.lastampa.it/2013/07/17/cultura/opinioni/editoriali/il-solito-copione-capri-espiatori-nessun-colpevole-e2QmTtGhvFAmjS5mMZ90DP/pagina.html
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« Risposta #35 inserito:: Aprile 13, 2014, 05:40:33 pm »

Editoriali
12/04/2014

Il film di una storia italiana
Francesco La Licata

Onestamente, c’è qualcuno che possa dirsi davvero sorpreso per l’epilogo toccato alla vicenda di Dell’Utri? Chi ha memoria e conosce, anche superficialmente, la cronaca e la storia del nostro paese non può non provare una sensazione di fastidioso «déjà-vu» di fronte alla trita sceneggiatura messa in scena dai vari protagonisti, che concorrono alla realizzazione dell’ennesima «storia italiana». 

Lo stesso Dell’Utri, per quella che è stata la lunga e annosa sua vicenda politico-giudiziaria, sembra perfettamente rispondere al più classico cliché della italianissima sceneggiata. Che l’ex senatore dovesse finire latitante ai più appariva scontato. Dopo averle tentate tutte, sempre al riparo del formidabile scudo del suo amico e protettore, Silvio Berlusconi, dopo aver «italianamente» sfidato il comune senso del pudore definendo lo stalliere Vittorio Mangano «eroe» della resistenza ai giudici, non gli rimaneva altra strada, sopraffatto da un sistema giudiziario che – seppure in grave ritardo e con mille tentennamenti – si avvia ad una conclusione non proprio favorevole a Dell’Utri, ormai privo della tutela parlamentare che lo stesso Berlusconi gli ha «dovuto» negare per non essere travolto dalla protesta anti-casta.

Non sono mancati gli indizi di ciò che Dell’Utri si apprestava ad organizzare: la villa nella Repubblica Dominicana, acquistata a conclusione di una favorevolissima trattativa intrattenuta col Cavaliere e chiusa con l’acquisizione di una notevole somma, tale da offrire qualche garanzia di serenità nell’eventualità di gravi avversità. Più di un viaggio a Santo Domingo in compagnia di una buona quantità dei suoi amati libri. E c’è da dire che, di fronte a tanta attività, la procura generale per due volte aveva chiesto alla corte d’appello un ordine d’arresto che avrebbe potuto impedire ogni velleità di fuga. Ma i giudici – che non sono dei feroci torturatori, come vanno predicando i garantisti a tassametro – hanno rigettato, evidentemente convinti che non vi fosse un reale pericolo di fuga e preferendo aspettare il definitivo pronunciamento della Cassazione, previsto per martedì prossimo.

Dura da quasi vent’anni la guerra tra la magistratura e Marcello Dell’Utri. Prima indagato con una cautela esemplare (non foss’altro che per il fatto di ritrovarsi accomunato al destino del più potente Berlusconi), poi massacrato soprattutto da una slavina di accuse rovinategli addosso da un esercito di pentiti che lo hanno descritto come l’uomo schermo fra Cosa nostra e Berlusconi, prima imprenditore che usa la protezione della mafia e poi politico che può risolvere i problemi dell’organizzazione criminale.

Anche questa guerra dei vent’anni, in fondo, risponde ai requisiti che caratterizzano le grandi storie italiane. La battaglia cruenta cominciò negli Anni Settanta (i pretori d’assalto, gli scandali dei petroli) ed ebbe lo stesso andamento di quella di questi ultimi tempi: indignazione generale e delega purificatrice alla magistratura per emendare la malapolitica, ma fino a un certo punto, perché poi tutto deve tornare come prima e quindi ritiro unilaterale della delega.

Mafia e politica meritano un posto di riguardo in questa storia cruenta che può annoverare anche vittime colpite da fuoco amico ed errori da più parti. Ma il prezzo di sangue pagato dalla comunità, dalle istituzioni, da tanti cittadini e servitori dello Stato dovrebbe far passare in secondo piano ogni singolo interesse di bottega. Non è andata esattamente così.

Ed oggi, dunque, rivediamo un film più volte visto. Persino nomi e luoghi tornati d’attualità, accendono ricordi e suggestioni del passato. Per esempio Beirut. Dell’Utri potrebbe – dicono – essersi rifugiato in quella città che è stata ed è pure crogiolo di terroristi e spioni impresentabili. Ma ha accolto anche finanzieri, imprenditori in difficoltà (il più noto è Felice Riva) e politici inseguiti dalla magistratura, come il senatore Graziano Verzotto (Dc) latitante in Libano per storie legate alla mafia, al petrolio e alla politica. Sostò a lungo a Beirut, intrattenendo amabili rapporti coi giornali italiani che lo intervistavano regolarmente, anche se ricercato. Poi si spostò a Parigi (dove sembra si stia «curando» Dell’Utri) e lì attese la liberazione da ogni accusa. Morì nella sua villa, alla periferia di Padova.

E possibile, dunque, che «Marcello» rinunci alla pace di Santo Domingo, per dirigersi in Libano? È possibile, è coerente col personaggio, se è vero che l’ex senatore, molto italianamente, abbia fatto intendere di non andare matto per il placido paesaggio dominicano: «Troppo noioso». Poi, magari, ci stupirà tutti e, nel caso di sentenza contraria, curerà le sue arterie e si presenterà ai giudici, offrendo uno strepitoso finale a sorpresa.

Da - http://lastampa.it/2014/04/12/cultura/opinioni/editoriali/il-film-di-una-storia-italiana-O3VoVJfMENqcboDzGaUbZL/pagina.html
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 12, 2014, 04:53:31 pm »

Editoriali
12/04/2014

Il film di una storia italiana
Francesco La Licata

Onestamente, c’è qualcuno che possa dirsi davvero sorpreso per l’epilogo toccato alla vicenda di Dell’Utri? Chi ha memoria e conosce, anche superficialmente, la cronaca e la storia del nostro paese non può non provare una sensazione di fastidioso «déjà-vu» di fronte alla trita sceneggiatura messa in scena dai vari protagonisti, che concorrono alla realizzazione dell’ennesima «storia italiana». 

Lo stesso Dell’Utri, per quella che è stata la lunga e annosa sua vicenda politico-giudiziaria, sembra perfettamente rispondere al più classico cliché della italianissima sceneggiata. Che l’ex senatore dovesse finire latitante ai più appariva scontato. Dopo averle tentate tutte, sempre al riparo del formidabile scudo del suo amico e protettore, Silvio Berlusconi, dopo aver «italianamente» sfidato il comune senso del pudore definendo lo stalliere Vittorio Mangano «eroe» della resistenza ai giudici, non gli rimaneva altra strada, sopraffatto da un sistema giudiziario che – seppure in grave ritardo e con mille tentennamenti – si avvia ad una conclusione non proprio favorevole a Dell’Utri, ormai privo della tutela parlamentare che lo stesso Berlusconi gli ha «dovuto» negare per non essere travolto dalla protesta anti-casta.

Non sono mancati gli indizi di ciò che Dell’Utri si apprestava ad organizzare: la villa nella Repubblica Dominicana, acquistata a conclusione di una favorevolissima trattativa intrattenuta col Cavaliere e chiusa con l’acquisizione di una notevole somma, tale da offrire qualche garanzia di serenità nell’eventualità di gravi avversità. Più di un viaggio a Santo Domingo in compagnia di una buona quantità dei suoi amati libri. E c’è da dire che, di fronte a tanta attività, la procura generale per due volte aveva chiesto alla corte d’appello un ordine d’arresto che avrebbe potuto impedire ogni velleità di fuga. Ma i giudici – che non sono dei feroci torturatori, come vanno predicando i garantisti a tassametro – hanno rigettato, evidentemente convinti che non vi fosse un reale pericolo di fuga e preferendo aspettare il definitivo pronunciamento della Cassazione, previsto per martedì prossimo.

Dura da quasi vent’anni la guerra tra la magistratura e Marcello Dell’Utri. Prima indagato con una cautela esemplare (non foss’altro che per il fatto di ritrovarsi accomunato al destino del più potente Berlusconi), poi massacrato soprattutto da una slavina di accuse rovinategli addosso da un esercito di pentiti che lo hanno descritto come l’uomo schermo fra Cosa nostra e Berlusconi, prima imprenditore che usa la protezione della mafia e poi politico che può risolvere i problemi dell’organizzazione criminale.

Anche questa guerra dei vent’anni, in fondo, risponde ai requisiti che caratterizzano le grandi storie italiane. La battaglia cruenta cominciò negli Anni Settanta (i pretori d’assalto, gli scandali dei petroli) ed ebbe lo stesso andamento di quella di questi ultimi tempi: indignazione generale e delega purificatrice alla magistratura per emendare la malapolitica, ma fino a un certo punto, perché poi tutto deve tornare come prima e quindi ritiro unilaterale della delega.

 
Mafia e politica meritano un posto di riguardo in questa storia cruenta che può annoverare anche vittime colpite da fuoco amico ed errori da più parti. Ma il prezzo di sangue pagato dalla comunità, dalle istituzioni, da tanti cittadini e servitori dello Stato dovrebbe far passare in secondo piano ogni singolo interesse di bottega. Non è andata esattamente così.

Ed oggi, dunque, rivediamo un film più volte visto. Persino nomi e luoghi tornati d’attualità, accendono ricordi e suggestioni del passato. Per esempio Beirut. Dell’Utri potrebbe – dicono – essersi rifugiato in quella città che è stata ed è pure crogiolo di terroristi e spioni impresentabili. Ma ha accolto anche finanzieri, imprenditori in difficoltà (il più noto è Felice Riva) e politici inseguiti dalla magistratura, come il senatore Graziano Verzotto (Dc) latitante in Libano per storie legate alla mafia, al petrolio e alla politica. Sostò a lungo a Beirut, intrattenendo amabili rapporti coi giornali italiani che lo intervistavano regolarmente, anche se ricercato. Poi si spostò a Parigi (dove sembra si stia «curando» Dell’Utri) e lì attese la liberazione da ogni accusa. Morì nella sua villa, alla periferia di Padova.

E possibile, dunque, che «Marcello» rinunci alla pace di Santo Domingo, per dirigersi in Libano? È possibile, è coerente col personaggio, se è vero che l’ex senatore, molto italianamente, abbia fatto intendere di non andare matto per il placido paesaggio dominicano: «Troppo noioso». Poi, magari, ci stupirà tutti e, nel caso di sentenza contraria, curerà le sue arterie e si presenterà ai giudici, offrendo uno strepitoso finale a sorpresa.

Da - http://www.lastampa.it/2014/04/12/cultura/opinioni/editoriali/il-film-di-una-storia-italiana-O3VoVJfMENqcboDzGaUbZL/pagina.html
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 09, 2014, 05:10:38 pm »

La decenza violata senza alcuna utilità sul piano giudiziario

08/10/2014
Francesco La Licata

L’istituzione più alta della Repubblica sembra ormai prigioniera di una macchina in corsa, a folle velocità e senza freni, in direzione di un traguardo che non promette nulla di buono sul piano dell’opportunità politica e della decenza. Chi ha messo in moto quella macchina non ha adesso (e non sembra dolersene) volontà alcuna di impedire la vergogna di esporre il Capo dello Stato all’affronto di una testimonianza in presenza di fior di criminali, assassini e stragisti come Totò Riina e Leoluca Bagarella. E tutto nella consapevolezza che nessun elemento nuovo, utile all’accertamento della verità, potrà venire dal «baraccone» in allestimento al Quirinale. 

La Procura di Palermo, e questo era scontato visto i precedenti, non si oppone alla presenza degli imputati - seppure in videoconferenza - durante l’escussione del teste-Napolitano. Non poteva essere diversamente, visto che già una volta i rappresentanti della pubblica accusa avevano espresso la convinzione che la testimonianza di Napolitano fosse essenziale e irrinunciabile, anche a fronte del «pateracchio istituzionale» che ne sarebbe conseguito. Se si considera, poi, che - al punto in cui è giunta adesso la «macchina impazzita» - nulla si può più fare senza mettere a rischio lo stesso processo in corso presso la Corte d’Assise palermitana, si capisce l’assenso dato ieri dai pm alla presenza in aula di Riina, Bagarella e di Nicola Mancino, alla sbarra per falsa testimonianza. Non sembrano possibili tante soluzioni: negare agli imputati, seppure alcuni mafiosi e impresentabili, il diritto a presenziare al processo (tranne il reperimento improvviso di una qualche motivazione «ipertecnica» che sfugge ai non addetti ai lavori) equivale ad assumersi il rischio di invalidare l’intero dibattimento. Ma sarà il presidente della Corte a decidere, nell’udienza di domani.

La china intrapresa, comunque, appare scivolosa e piena di pericoli. Tutti i protagonisti della vicenda sembrano in qualche modo prigionieri di un meccanismo avviato e lasciato senza controllo. Il Presidente ha già chiarito il perimetro entro il quale potrà testimoniare, spazio già delimitato anche dalla Corte costituzionale. Ha anche reso pubblica la lettera scritta, prima che fosse ucciso da un infarto, dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, chiarendo che altro non avrebbe potuto aggiungere. In questo senso si potrebbe concludere che, per l’accertamento della verità sullo svolgimento della trattativa Stato-mafia, il coinvolgimento di Napolitano non sembrava irrinunciabile, visto che nulla dice di poter produrre sui famosi «indicibili accordi» evocati da D’Ambrosio nella sua missiva. Tuttavia il Capo dello Stato si trova oggi nella scomoda posizione di dover lanciare un messaggio di rispetto verso la magistratura ma ad un prezzo certamente alto, quale sarebbe il dover condividere uno spazio processuale coi capi dell’antistato. Forse l’errore sta in alcune decisioni del passato, come quella che ha riguardato la polemica sull’iter da seguire nella distruzione delle intercettazioni dei colloqui tra Nicola Mancino e Napolitano, soggetto politico che non poteva essere intercettato.

Anche allora fu scelta la linea del coinvolgimento istituzionale della carica più alta della Repubblica, visto che il contenuto delle telefonate da distruggere sarebbe arrivato alla conoscenza delle parti, quindi agli imputati e quindi ai giornali. Il conflitto sollevato da Napolitano presso la Corte costituzionale era riuscito ad impedire l’agguato mediatico. Evidentemente non è bastato e Riina può sorridere. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/08/cultura/opinioni/editoriali/la-decenza-violata-senza-alcuna-utilit-sul-piano-giudiziario-cnIvg2TpaUwO56dKgnwtoM/pagina.html
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