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Autore Discussione: Bernard-Henri Lévy. Perché difendo comunque i Raid in Libia  (Letto 2013 volte)
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« inserito:: Marzo 22, 2011, 03:46:55 pm »

Gli arabi e l'intervento

L'ispiratore di Sarkozy

Perché difendo comunque i Raid in Libia

Questo intervento, che ha come primo scopo di proteggere i civili dai massacri, è, in ogni caso, il contrario di una spedizione coloniale

Non è un intervento di terra, con carri armati, fanteria, occupazione, green zone e così via. È il contrario, dunque, della guerra, insensata, in Iraq. Il contrario della guerra, giusta, in Afghanistan. Non so se la guerra (giusta) in Afghanistan o la guerra (insensata) in Iraq fossero guerre «neocoloniali» (è infinitamente più complicato di questo); certo è che questa guerra, questo intervento, che ha come primo scopo di «santuarizzare» i civili massacrati di Misurata, Zawia, Bengasi, questa operazione di salvataggio, secondo cui nessun soldato occidentale dovrà posare un piede sul suolo libico è, in ogni caso, il contrario di una spedizione coloniale.

Appunto, cos'è una guerra giusta? È una guerra che impedisce una guerra contro i civili. È una guerra che, per parodiare una celebre e incresciosa formula (quella di François Mitterrand che tenta di impedire, fino all'ultimo, gli attacchi aerei alle postazioni serbe sulle colline attorno a Sarajevo), sottrae la guerra alla guerra. Infine, è una guerra che, lungi dal pretendere, come in Iraq, di paracadutare, in un deserto politico, una democrazia pronta all'uso, si appoggia su un'insurrezione nascente, cioè permette, e permette soltanto, ai liberatori di fare il loro lavoro di liberatori e aiuta quindi, nella circostanza attuale, i libici a liberare la Libia.

È una guerra di iniziativa francese, ma non è una guerra francese. È una guerra in cui si son visti, fin da sabato scorso, aerei francesi volare su Bengasi e cominciare a distruggere le capacità militari di un Gheddafi allo stremo e che aveva giocato l'ultima carta facendo piovere bombe sulla città. Ma è una guerra in cui sono entrati, a fianco della Francia e degli occidentali, nella stessa coalizione, il Qatar, gli Emirati, l'Egitto, mandatari sia di se stessi, sia di una Lega araba presente, fin dall'inizio, nel cuore di questo movimento di solidarietà mondiale con un Paese messo a ferro e fuoco dal proprio dirigente, sia di un popolo già impegnato (è il caso dell'Egitto) in una sommossa di cui legittimamente vuole universalizzare i comandamenti: è una guerra, dunque, non meno araba che occidentale.

Qual è lo scopo di questa guerra? Di proteggere, davvero, soltanto, i civili di Misurata, Zawia, Bengasi? Di accontentarsi, eventualmente, di un Gheddafi che finga un atteggiamento moderato, metta via le armi e si ritiri nel suo feudo di Tripoli prima di riprendersi la rivincita fra sei mesi, un anno, o di più? Credo di no. Spero di no.

Non si può pensare che la comunità internazionale faccia lo stesso errore che fece con Saddam Hussein lasciando intatta, vent'anni fa, dopo la prima guerra del Golfo, la sua capacità di nuocere, e di agire in maniera criminale.

E non si può pensare che la risoluzione adottata giovedì scorso, con un voto storico, dalle Nazioni Unite, in cui si è saputo convincere cinesi e russi a non servirsi del loro diritto di veto, dia risultati così irrisori.Gheddafi ha commesso crimini contro l'umanità. Il primo riflesso di questo Gheddafi che, ci dicevano, era cambiato, aveva rinunciato al terrorismo ed era diventato (secondo Patrick Ollier, ministro francese - fino a quando? - dei Rapporti con il Parlamento) un fine lettore di Montesquieu, non è stato di dire, appena avuta la notizia del voto all'Onu: «Attaccate i miei aerei militari? In risposta, attaccherò i vostri aerei commerciali, punirò i vostri civili provocando una, due, tre nuove stragi come quella di Lockerbie»? Con questo Gheddafi non esistono negoziati né compromessi possibili. Al suo terrorismo senza limiti la comunità internazionale ha il dovere di rispondere, all'unisono con il popolo libico e il suo Consiglio nazionale di transizione: «Gheddafi, vattene!».

Infatti, cosa vogliono i libici liberi? Chi sono? E cos'è il Consiglio nazionale di transizione che Nicolas Sarkozy, per primo, con un gesto politico decisivo e al tempo stesso coraggioso, ha riconosciuto? Certamente, non sono degli angeli (è da lungo tempo che non credo più agli angeli...). Non sono democratici alla Churchill, nati, chissà per quale miracolo, dalla coscia del gheddafismo (di cui alcuni furono, prima di disertare, servitori e debitori). Forse, ci sono fra loro persino antisionisti, magari antisemiti mascherati da antisionisti (sebbene, in nessuno degli incontri avuti a Bengasi e poi a Parigi, con nessuno dei loro dirigenti, abbia mai omesso di dire chi sono e in cosa credo).Penso solo che questi uomini e donne, come i loro fratelli della Tunisia, dell'Egitto o del Bahrein, siano in cammino verso una democrazia di cui stanno reinventando, a grande velocità, i principi e i riflessi. E sono sicuro che questi combattenti, che hanno imparato, di fronte alle colonne infernali e ai carri armati, cosa voglia dire libertà e in quale lingua dello spirito si scriva tale parola, saranno sempre meglio di un dittatore psicopatico che dell'apocalisse aveva fatto la sua ultima religione.

Bernard-Henri Lévy

22 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA

(traduzione di Daniela Maggioni)
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