LA-U dell'OLIVO
Novembre 23, 2024, 11:17:18 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: LA LIBIA E NOI  (Letto 2949 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Febbraio 22, 2011, 03:57:19 pm »

 Internazionali  / Energia e Ambiente

LA LIBIA E NOI

di Marzio Galeotti 22.02.2011

Il prezzo del petrolio ha raggiunto ieri a Londra il valore più alto da settembre 2008. La fibrillazione dei mercati energetici, e di conseguenza dei metalli preziosi e delle materie prime, nasce dai disordini e dalle rivolte popolari che dalle coste del Mediterraneo si vanno allargando al Medio Oriente e al Golfo Persico. Ma sono soprattutto i recenti sviluppi libici a fare scorrere brividi gelidi lungo la schiena dei governanti dei paesi occidentali, dei dirigenti di molte loro imprese e degli operatori, finanziari e non, dei mercati energetici. Vale in particolare per l'Italia.

Il prezzo del petrolio ha raggiunto ieri a Londra durante le contrattazioni i 105.1 dollari a barile con un balzo di 2,6 dollari rispetto al giorno precedente. Si tratta del livello più alto del prezzo del Brent dal 25 settembre 2008. Contestualmente l’oro, classico bene rifugio, è salito a 1.400,40 dollari l’oncia al livello più elevato delle ultime sette settimane, mentre argento e palladio sono al loro picco rispettivamente da trentuno e dieci anni.

LE PRIME RIVOLTE

La fibrillazione dei mercati energetici, e di conseguenza dei metalli preziosi e delle materie prime internazionali, è il risultato dei disordini e delle rivolte popolari che dalle coste del Mediterraneo –Tunisia, Egitto, Libia – si vanno trasmettendo al Medio Oriente e al Golfo Persico – Yemen, Iran, Bahrein. Ma sono soprattutto i recenti sviluppi libici e la violentissima repressione che si sta scatenando in queste ore a fare scorrere brividi gelidi lungo la schiena dei governanti dei paesi occidentali, dei dirigenti di molte loro imprese e degli operatori, finanziari e non, dei mercati energetici. E questo vale in particolare per l’Italia.
Il malcontento era dapprima esploso in Tunisia, paese di solo 10 milioni di abitanti, ciascuno con un reddito di 3.654 dollari nel 2009, e privo di risorse energetiche. Una importante fonte di entrate sono i diritti di transito del Transmed, il gasdotto che connette l’Algeria con l’Italia. Un primo problema per l’Italia si potrebbe verificare allorché il nuovo regime tunisino decidesse di rivedere al rialzo dei diritti di passaggio, attualmente molto bassi. Il rischio potrebbe essere quello di un nuovo caso Ucraina.
L’Eni è presente in Tunisia dal 1961, nelle attività di esplorazione e produzione di idrocarburi, concentrate soprattutto nell’offshore del Mar Mediterraneo di fronte ad Hammamet e nelle aree desertiche del sud.
Il contagio aveva successivamente provocato la rivolta e il rovesciamento del regime di Mubarak in Egitto, una nazione otto volte più popolosa della Tunisia, ma con un reddito procapite addirittura inferiore (2.194 dollari), nonostante l’importanza delle attività energetiche. Paese (relativamente) povero di petrolio, ma ricco di gas naturale, al terzo posto per riserve nel continente africano (1 per cento delle riserve mondiali, vedi figure), è attivo nella raffinazione del petrolio che viene riesportato, insieme al gas.
Soprattutto unica è la collocazione strategica del paese, a cavallo tra Mar Mediterraneo e Mar Rosso tramite il Canale di Suez. Anche in questo caso, uno sciopero dei sottopagati lavoratori di Suez potrebbe causare dei blocchi temporanei dei transiti lungo il canale, così come incrementi significativi dei diritti di passaggio, magari decisi da un nuovo governo ansioso di guadagnarsi velocemente il favore popolare, potrebbero obbligare petrolio e derrate alimentari a costosi allungamenti del percorso prima di approdare ai porti europei e americani. Questi fatti potrebbero fare lievitare i prezzi di petrolio e materie prime alimentari. Mentre finora si è verificato solo un atto di sabotaggio, agli inizi del mese, che ha seriamente danneggiato il gasdotto che fornisce la Giordania e Israele di gas proveniente dall’Egitto. Una esplosione ha causato un vasto incendio nei pressi della località egiziana di el-Arich, sul braccio dell’infrastruttura diretto in Giordania. Del gasdotto si parla da tempo in Egitto, per le accuse rivolte al clan Mubarak di presunte tangenti ottenute grazie all’affare.
L'Egitto è il primo paese in cui l'Eni ha svolto il ruolo d'operatore di idrocarburi all'estero, nel 1953. È presente anche nel settore della liquefazione del gas naturale e dell'ingegneria e costruzioni. Nel 2008, Eni è stato il primo operatore internazionale di idrocarburi nel paese. Per l’attività di esplorazione, detiene nel paese 59 concessioni minerarie che interessano una superficie complessiva di 26.335 chilometri quadrati (di cui 9.741 in quota Eni). Le principali attività produttive sono condotte nella concessione di Belayim (Eni 100 per cento), nel Golfo di Suez con produzione di olio e condensati, in quelle prevalentemente a gas naturale di North Port Said (ex Port Fouad, Eni 100 per cento), di Baltim (Eni 50 per cento, operatore), di Ras el Barr (Eni 50 per cento) e di el Temsah (Eni 50 per cento, operatore).

TIMORI DALLA LIBIA

Ma è soprattutto la sanguinosa repressione della rivolta in Libia a destare grande preoccupazione, al punto che è iniziata l’evacuazione del personale diplomatico e di quello delle compagnie petrolifere occidentali là operanti. Dopo che nel 2003 e 2004 sono state tolte le sanzioni internazionali di Onu e Usa e dopo che questi ultimi hanno nel 2006 cessato di designare il paese come sponsor del terrorismo internazionale, le compagnie petrolifere internazionali come la spagnola Repsol Ypf, l’Eni, l’austriaca Omv, la francese Total e l’inglese Bp avevano ripreso le attività di esplorazione e produzione di idrocarburi. In particolare, Eni è presente in Libia nelle attività di esplorazione e produzione di petrolio e del gas naturale dal 1959. L’attività produttiva ed esplorativa è condotta nell’offshore del Mar Mediterraneo, di fronte a Tripoli e nel deserto libico. A fine 2009 Eni era presente in tredici titoli minerari, per una superficie complessiva di circa 36.374 chilometri quadrati (18.165 chilometri in quota Eni). Le attività di Eni in Libia sono regolate da contratti di Exploration and Production Sharing Agreement (Epsa) che hanno durata fino al 2042 per le produzioni a olio e al 2047 per quelle a gas. Nel 2009 Eni è il primo operatore internazionali di idrocarburi con una produzione di 522 mila barili di olio equivalente al giorno (244mila in quota Eni, di cui il 44 per cento di liquidi). Sia il settore petrolifero che quello del gas sono dominati dalla compagnia petrolifera nazionale Noc, la quale opera nel settore dell’export in joint venture con operatori occidentali. Un esempio è il Western Libyan Gas Project che al 50 per cento con Eni provvede a esportare gas verso l’Italia attraverso il gasdotto Greenstream.
Pur essendo 14 volte meno popolata (6,3 milioni) e con un reddito procapite cinque volte più alto (11.307 dollari nel 2009), è soprattutto in campo energetico che tra Egitto e Libia vi sono importantidifferenze. La (forse ex) Jamahiriya del colonnello Gheddafi, membro dell’Opec annoverato tra i falchi dell’organizzazione, possiede le maggiori riserve provate di petrolio dell’intero continente africano, seguita da Nigeria e Algeria. Con 44 miliardi di barili rappresenta il 3 per cento delle riserve mondiali, al nono posto assoluto, localizzate per l’80 per cento nel Golfo della Sirte. Sebbene ecceda la quota Opec, la produzione di petrolio è pari a 1,65 milioni di barili al giorno, di cui 1,5 milioni (derivati dal petrolio) sono esportati. Il nostro paese è il maggiore beneficiario, ricevendo il 32 per cento dell’export, seguito da Germania (14 per cento) , Cina (10 per cento) e Francia (10 per cento). La qualità del greggio libico è molto apprezzata, essendo generalmente leggera e dolce, così da farne materia prima pregiata soprattutto per la produzione di carburanti per autotrazione molto richiesti in Europa. Per riserve di gas la Libia è al quarto posto nel continente africano dopo Nigeria, Algeria ed Egitto, e solo quindicesima al mondo (1 per cento del totale). La produzione di gas è stata nel 2008 di 17,1 miliardi di metri cubi, di cui 11,2 esportati: mentre 6 sono stati liquefatti e trasportati via nave, i restanti 10,6 hanno preso la via dell’Italia e dell’Europa tramite il gasdotto Greenstream, operato in partnership con Eni, lungo 520 km, che connette Mellitah a Gela in Sicilia. Circa il 60 per cento del gas prodotto è esportato in Italia, mentre una piccola parte è liquefatto e spedito in Spagna.
Nel complesso gli idrocarburi rappresentano per i nostri dirimpettai della costa sud del Mediterraneo il 95 per cento dei ricavi delle esportazioni e l’80 per cento delle entrate fiscali. Il dato dovrebbe tranquillizzare l’Europa e in particolare l’Italia ritenendosi improbabili importanti e prolungati blocchi delle forniture di petrolio e gas ai paesi importatori. Questo non significa che scaramucce ed episodi isolati non si possano verificare. Per esempio, Al Jazeera riferiva ieri che il campo petrolifero di Nafoora aveva fermato la produzione per uno sciopero dei lavoratori. Questi fatti accrescono il supply risk e spiegano perché è stato il Brent londinese a impennarsi, mentre l’americano Wti si colloca a 95,4 dollari.

PROBLEMI PER L’ITALIA

Ma è l’Italia a trovarsi nella situazione più critica nei confronti della Libia, per tre motivi. Il primo è che il nostro paese, e il suo governo, è il più “colluso” con il regime di Gheddafi. Senza entrare in considerazioni strettamente politiche, la propagandata amicizia con il colonnello fa sì che i rischi di ritorsione da parte degli insorti nell’eventualità che questi prevalgano sono maggiori. Anche gli attestati di supporto alle legittime rivendicazioni popolari e all’instaurazione di un regime democratico non beneficerebbero di grande credibilità. Tutto questo pone a rischio le relazioni politico-diplomatiche tra i due paesi, la condizione dei nostri concittadini presenti nel paese, le sorti delle nostre imprese e dei loro ingenti investimenti, la gestione dei prevedibili flussi migratori clandestini. Il secondo motivo è strettamente collegato al precedente, e riguarda gli interessi economici che intercorrono tra Libia e Italia. La Libia è il primo azionista di Unicredit con il 7,50 per cento del capitale, possiede l’1 per cento di Eni e il 2 per cento di Finmeccanica. Attive in Libia sono alcune nostre grandi imprese, come Eni, Anas, Impregilo, Finmeccanica, Iveco. Nel complesso, l’Italia rappresenta il primo partner commerciale della Libia. La quota italiana delle importazioni libiche si è attestata nel 2009 al 17,4 per cento, nel primo semestre del 2010 le nostre esportazioni verso quel paese sono cresciute del 4 per cento. L'interscambio tra i due paesi nel primo semestre 2010 è arrivato a circa 6,8 miliardi di euro, con un incremento del 12,53 per cento rispetto all’anno precedente. Il terzo motivo per cui l’Italia si trova in maggiore difficoltà con la crisi libica è proprio quello energetico. La Libia si colloca infatti rispettivamente al primo e al terzo posto tra i nostri fornitori di petrolio e gas naturale, l’Italia è il primo acquirente del greggio libico e gli idrocarburi rappresentano circa il 99 per cento delle importazioni italiane dalla Libia.
È per tali motivi che in questo momento la cautela è d’obbligo e il fiato sospeso una condizione inevitabile.

da lavoce.info
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Marzo 03, 2011, 03:15:16 pm »

Il reportage

Sotto il fuoco dei caccia del regime

Battaglia nella città dell'oro nero

Decine di vittime. I ribelli di Bengasi chiedono l'intervento Onu


BREGA - La sensazione più spiacevole quando stai in mezzo a una battaglia è che non capisci nulla. Non è chiaro dove stiano gli uomini che ti sparano contro, da che parte corra il confine, chi stia vincendo e chi perdendo, dove sia meglio cercare rifugio. Dominano i rombi delle esplosioni, le grida, le sirene delle ambulanze. Raccontano infinite versioni diverse e non sai a chi credere. Vedi i morti, poveri fagotti di vestiti sporchi diventati cose appena spento il fiato vitale, i feriti che si lamentano, il sangue a terra. Quanti? Ho visto almeno cinque morti e una ventina di feriti, alcuni sfigurati dalle schegge. Ma dicono siano di più. Quanti? Non si sa. Tutto corre veloce, ritmato dai boati minacciosi. Questa era ieri la situazione nella cittadina di Brega, oltre 200 chilometri a ovest di Bengasi. Prevaleva la confusione della battaglia. Neppure i medici del piccolo ospedale Hillal, nel centro, erano certi che le strade attorno sarebbero state sicure con la sera, sebbene sostenessero con baldanza che i «miliziani di Gheddafi sono sconfitti e in rotta verso Tripoli».

La versione più comune è che Brega sia stata attaccata verso le sette di ieri mattina da una colonna di miliziani pro-Gheddafi, sembra accompagnati da un folto numero di mercenari africani. Il loro numero varia tra 400 e 1.100. Secondo il medico chirurgo Mohammad Alì al Jabia, avrebbero viaggiato su «oltre 70 tra camionette e jeep, seguite da due camion per la logistica e una cinquantina di mezzi corazzati su gomme, alcuni dotati di cannoni e mitragliatrici pesanti». La loro forza d'urto spazza via i pochi ragazzini armati di Kalashnikov che sorvegliano l'accesso da ovest, proprio di fronte all'entrata della grande raffineria della «Sirte». Gli ingegneri e le guardie della compagnia raccontano di gravi brutalità: «Ci sono decine di morti e feriti dal primo scontro. Ma gli uomini di Gheddafi li hanno portati via subito». In poco tempo la milizia entra nella raffineria, da qui occupa il porto industriale, l'aeroporto e si attesta nell'università.

Sembra a quel punto che Brega debba cadere da un momento all'altro. Sarebbe il successo più importante per Gheddafi dallo scoppio delle rivolte nelle regioni orientali il 15 febbraio. Ma alle undici della mattina si organizza la controffensiva da parte delle milizie rivoluzionarie. Partono colonne di rinforzi da Bengasi. Qui i comitati del governo provvisorio chiedono a Onu, Nato e Stati Uniti di imporre al più presto le no-fly zone, sul modello di quelle contro Saddam Hussein in Iraq dopo la guerra del 1991. Alcuni vorrebbero raid aerei internazionali ben mirati contro le milizie del dittatore e soprattutto il blocco degli aeroporti (specie quello di Sabha in pieno deserto) da cui Gheddafi fa confluire i suoi famigerati mercenari africani. Ci uniamo a questa sorta di armata Brancaleone, che tra slogan, urrà con scimitarre, mitra in mano e il fumo acre di vecchi motori diesel confluisce verso Brega. È subito chiaro che non esiste una vera catena di comando. Chi vuole partire e ha un'arma cerca un passaggio e va. Sembra una grande festa. Ma la situazione cambia radicalmente a Brega. Qui il fumo si alza dalla zona del campus universitario. È circondato da alti muri di cemento. Lo scontro più duro pare sia stato proprio tra le dune di sabbia fine e i cespugli bassi tutto attorno.

Tra mezzogiorno e l'una la battaglia infuria nella raffineria.

Non vengono colpiti i depositi semi-vuoti di carburante. Le milizie rivoluzionarie sostengono di averla ripresa nel primo pomeriggio. Così pure i quartieri della città vecchia e metà aeroporto. «La pista ora non potrà servire a Gheddafi per spedire via aerea i suoi assassini neri», esclama rabbioso Mohammad Adel Hadi, ventenne volontario arrivato all'ospedale accompagnando un ferito. All'interno del pronto soccorso è il caos. Le vittime giungono a ondate. Verso le quindici un pick up scarica tre morti e un moribondo. Un Mirage di Gheddafi spara alcuni razzi a cinque o sei chilometri di distanza. Alle diciassette la battaglia sembra però quietarsi. I rivoltosi sostengono di avere «liberato gran parte della città» e che gli uomini di Gheddafi starebbero tornando verso Sirte. Ma la zona dell'università è ancora in mano loro. Così sembra anche di buona parte dell'aeroporto e della via di accesso alla raffineria. Brega resta contesa.

Lorenzo Cremonesi

03 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/esteri
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #2 inserito:: Marzo 03, 2011, 04:34:10 pm »

Il reportage

"Il raìs ci bombarda ma lo faremo cadere"

Gheddafi tenta di riprendersi i pozzi della Cirenaica.

Sul fronte di guerra con i ribelli. "Abbiamo respinto l'attacco dei miliziani del Colonnello"

dal nostro inviato PIETRO DEL RE


AJDABYA - Aggrappati al rimorchio di un pickup o anche inzeppati in sei o sette nelle loro auto, i guerrieri della nuova Libia sfrecciano verso il piombo nemico intonando inni patriottici. Alcuni sono armati di vecchi kalashnikov, altri ancora soltanto del coraggio degli audaci. Si dirigono verso Brega, cittadina al confine tra la Cirenaica liberata e la Tripolitania, che ieri mattina le milizie di Gheddafi hanno tentato di riconquistare con i blindati e l'aviazione. I combattenti chiamati a difendere la rivolta del 17 febbraio sono per lo più ragazzi, pronti alla morte pur di non cedere un millimetro di terreno al "pollo morto che ancora si muove", come da qualche giorno chiamano il Colonnello. Quando attraversano il checkpoint di Ajdabya, 170 chilometri a sud di Bengasi, la folla li osanna con urla da stadio, e con qualche sventagliata di batteria contraerea.

Alle tre del pomeriggio giunge notizia che il nemico è stato respinto, che i miliziani, molti dei quali mercenari, sono stati sconfitti. Il bollettino di guerra parla di quattordici vittime tra gli insorti. Sono quasi tutti di Brega, colti di sorpresa poco dopo l'alba, quando i caccia di Tripoli hanno cominciato a bombardare le loro scarne postazioni e i blindati ad avanzare dalla spianata della Sirte verso i grossi serbatoi di greggio. Alcuni di loro li avevamo incontrati due giorni fa, a difesa di quei terminal petroliferi senza i quali la Libia liberata non potrebbe sopravvivere. Uno era un maestro elementare, un altro un autista di camion della Sirt oil company,
un altro ancora un adolescente imbronciato e taciturno che imbracciava il suo nuovissimo mitragliatore con la devozione di un oggetto di culto. Nessuno di loro, ma neanche i nuovi membri del neonato Consiglio nazionale di Bengasi, si aspettava un colpo di coda del Colonnello così improvviso e così violento.

La notizia della controffensiva di Gheddafi ha lasciato tutti di stucco. Per il popolo della rivolta, ubriacato dal proprio successo politico e militare, inaspettato quanto travolgente, è stato come un brusco risveglio. All'aeroporto militare di Bengasi ci dicevano che diversi piloti erano passati dalla loro parte con otto aerei da combattimento, ma ieri nessun caccia s'è alzato in volo per difendere le raffinerie di Brega o Ras Lanuf. E alla nuova base di reclutamento improvvisata nella scuola di Selmeny, truppe di ragazzi e di anziani riservisti si preparavano a marciare su Tripoli contando solo su vecchie mitraglie per abbattere i dodicimila uomini armati fino ai denti ancora al soldo dal Colonnello.

Martedì mattina, quando giunge la notizia dell'attacco di Gheddafi, la città è paralizzata da un traffico convulso. Al Palazzo di Giustizia, sede dei leader della rivolta, la coordinatrice della stampa internazionale, con le lacrime agli occhi, dice: "Adesso arriveranno e ci massacreranno tutti". Fuori, un vecchio mullah usa un megafono per arringare i giovani pronti al sacrificio: "Aspettate, non andate a morire inutilmente", li supplica. "La Libia ha bisogno di voi, ascoltate una sola voce, quella dei vostri comandanti". Ma a quell'ora, i loro comandanti o dormono ancora o sono anch'essi bloccati nel traffico.

Intanto, una collega francese che l'altro ieri sera s'è spinta fino a Brega, e che si trova sotto il fuoco incrociato degli insorti e dei miliziani, ci spedisce un sms per informarci che le truppe del Colonnello sparano sulla Croce rossa che carica i primi feriti.
Nel pomeriggio, incroceremo quattro ambulanze provenienti da Bengasi, scortate da cinque mitragliatrici di contraerea montate su altrettante jeep Toyota.

Verso le 10 del mattino i patrioti della Libia libera cominciano a riversarsi in massa verso Brega, che da Bengasi dista circa 240 chilometri, e lo fanno prima dei pochi carri armati e cannoncini di cui dispone il loro strampalato esercito. La strada è una fettuccia nel deserto, che percorrono anche a 180 chilometri all'ora. Quando arriviamo anche noi al checkpoint di Ajdabya, una mezza dozzina di batterie antiaeree sono state schierate a stella per proteggere un importante deposito di munizioni passato nelle mani degli insorti. In direzione di Brega, verso sud sud-ovest, sono anche puntati due o tre cannoni. Dalla vicina cittadina, anch'essa bombardata due giorni fa dai caccia di Gheddafi, sono giunti tanti curiosi e altrettanti potenziali martiri ad affollare quest'ultimo avamposto. Sulla sabbia, si contano centinaia di auto parcheggiate. Non fosse per la drammaticità della situazione, quanto accade al checkpoint ricorda più una festa di paese, o al massimo un'esercitazione militare.

Fermiamo chi proviene da Brega. Alcuni ostentano la gioia del vincitore. Altri appaiono più scettici, sostenendo che ancora si combatte all'università, o all'aeroporto, dove le milizie sperano di ricevere rinforzi. Nel pomeriggio all'ospedale di Ajdabya cominciano ad arrivare i feriti. Non hanno più di vent'anni e sono stati colpiti chi al petto, chi allo stomaco, chi al collo. Sono tutti coscienti prima di entrare in sala operatoria. E tutti sorridenti.
 

(03 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!