3/1/2011
Non lasciamo che la crisi ci imbarbarisca
RACHIDA DATI
La marea populista che sale in Europa ci deve preoccupare. Crisi economica, immigrazione clandestina e ritorno del terrorismo hanno attizzato la paura: estremisti di ogni genere guadagnano terreno inmolti Paesi europeinostri vicini.
L’Europa dovrebbe essere realistica sul tema immigrazione, ne ha bisogno e continuerà ad averne bisogno. La Francia è sempre stata terra di accoglienza, in particolare per chi si èbattutoinguerraal fianco dei nostri soldati e per coloro che hanno contribuito alla ricostruzione della Francia e alla prosperità delle sue industrie.
Oggi si dovrebbe ripensare l’immigrazione in maniera pacata, e dovremmo mettere in opera una politica efficace di integrazione.
La politica dell’integrazione riguarda tutti. Di fronte alla paure e alla sensazione d’ingiustizia generate - legittimamente - dalla crisi, dobbiamo più che mai resistere alla tentazione di ripiegarci su noi stesi e rigettare l’altro. Anche perché, troppo spesso, sbagliamo avversario.
Per esempio, quando vengono presi a bersaglio i nostri compatrioti di cultura e confessione islamiche, bisogna chiaramente distinguere l’infima minoranza di persone che utilizzano l’islam per giustificare pratiche contrarie alle credenze pacifiche della grande maggioranza dei musulmani e per sfidare i valori della Repubblica. Non si può ignorare che la maggioranza silenziosa dei musulmani è la prima vittima delle azioni della minoranza integralista.
Come non inquietarsi per una situazione come quella di Malmoe in Svezia, dove da un anno un assassino sconosciuto prende di mira gli immigrati? E che dire di un recente sondaggio della fondazione tedesca FriedrichEbert da cui il 58% delle persone ascoltate risulta favorevole alla limitazione delle «pratiche religiose musulmane»?
Sì, l’integrazione riguarda tutti, e noi abbiamo la responsabilità morale di agire per smorzare i risentimenti ed evitare sia gli eccessi dei partigiani dell’immigrazione zero sia di quelli della regolarizzazione di massa. In Francia si parla continuamente di immigrazione, si ama dibatterne, spesso per sottolineare soltanto i fallimenti. Per troppo tempo in materia di integrazione ci siamo appiattiti su meccanismi di integrazione stereotipati, quali che siano le origini degli immigrati che sono qui da molti anni; e quanto ai loro figli, recenti ricerche mostrano che il sistema educativo è diventato via via meno capace di integrazione.
L’abbassamento dei requisiti scolastici avrebbe dovuto ridurre le ineguaglianze sociali; così non è stato, ridurre gli standard non ha favorito la mobilità sociale auspicata. Nel 2009 un rapporto della Corte dei conti di Parigi ha dimostrato l’inefficacia di questo sistema nel ridurre le diseguaglianze, anzi il rischio della ghettizzazione etnica e sociale è risultato accentuato. Così ha constatato anche l’Alto consiglio per l’integrazione (Hci). Citerò un solo esempio, la messa in opera dei programmi di conoscenza delle culture d’origine. Questi programmi sono stati sviluppati negli Anni 80 per facilitare i legami con i «Paesi d’origine». Ma ha ancora senso, per i bambini di terza o quarta generazione, che in genere sono di nazionalità francese, trovarsi davanti degli insegnanti «della cultura d’origine» che, da parte loro, conoscono poco il nostro Paese? È dal 1991 che l’Alto consiglio per l’integrazione chiede di sopprimere questi corsi, e invece sempre più allievi li frequentano, e così non sanno più se sono francesi. Ci vuole il coraggio politico di finirla.
A scuola un altro freno all’integrazione è la concentrazione di una stessa popolazione, con le medesime difficoltà, negli stessi quartieri e quindi negli stessi istituti scolastici. Nelle nostre città bisogna imporre una politica volontarista di mescolanza sociale, fatta in maniera intelligente e non puramente aritmetica.
Perché non incoraggiare le famiglie a cambiare luogo di abitazione attraverso un dispositivo di incentivazione? Perché non lavorare con le municipalità per la messa in opera di una politica di abitazione sociale capillare, fatta immobile per immobile, e non più solamente quartiere per quartiere? È una politica da inventare, che non si può ridurre all’attuale legge Dalo - «Droit au logement opposable» - criticata oggi persino da chi l’aveva proposta, perché ha intensificato l’effetto-ghetto.
Allora, smettiamo di sognare l’«integrazione», è più che mai tempo di mettersi all’opera concretamente perché non passa solo attraverso la scuola ma anche attraverso l’inserimento sociale e professionale. Accogliere dei giovani nella sfera professionale significa integrarli.
Aiutiamo quelli che possono a fare degli studi superiori in un ambiente sereno, ma soprattutto non abbandoniamo mai ai bordi della strada i giovani che sono in difficoltà o che non se la sentono più di proseguire lunghi studi. A questo scopo bisogna assolutamente valorizzare la filiera professionale. Perché si sa, l’apprendimento di un mestiere è la maniera per integrare generazioni di donne e di uomini. Appartenere alla classe operaia dava fierezza, conferiva status! Non confondiamo eccellenza ed elitarismo!
Per questo dovremmo forse avviare misure di discriminazione positiva, cioè azioni provvisorie che conducano all’eguaglianza reale? Non deve essere più un tabù. Se tali misure favoriscono l’integrazione, perché escluderle in maniera dogmatica? Ma attenzione, non bisogna spingere la discriminazione positiva all’eccesso. Detto altrimenti, una spintarella sì, un assistenzialismo controproducente no.
Quando Nicolas Sarkozy in campagna elettorale diceva «tutto diventa possibile» molti giovani francesi, venuti dagli orizzonti più diversi, hanno creduto al suo messaggio. Questi giovani dovrebbero ancora poter credere che in Francia nulla è mai perduto. A noi dimostrarlo!
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8250&ID_sezione=&sezione=