La (ri)scossa Tea Party
Alberto Mingardi
Questo articolo è stato pubblicato il 04 novembre 2010 alle ore 06:39.
L'esito delle elezioni di midterm misura lo sconcerto degli americani, per la svolta "socialista" impressa al paese da Barack Obama. Il presidente ha pagato il conto della situazione economica. Ma la vittoria dei repubblicani è anche il riflesso dell'insoddisfazione profonda, per il sovvertimento della più basilare regola del gioco del capitalismo: chi rompe paga.
Quanti in Europa hanno minimizzato o ridicolizzato il fenomeno dei Tea Party, farebbero bene a riflettere su un fatto. Il primo mattone della credibilità di quel vasto e disorganizzato arcipelago di associazioni che costituisce l'ossatura del movimento viene dal non aver fatto mai salire un solo repubblicano che avesse votato a favore dei bail out (anche con Bush) sul palco di una loro manifestazione.
I Tea Party sono stati fin qui, come hanno ben spiegato Matt Kibbe e Dick Armey nel loro Give us liberty, a Tea Party manifesto, il tentativo di un'opa ostile lanciata sul partito repubblicano. Quest'opa si è sostanziata nella capacità di aggregare consenso a vantaggio di quei candidati che avessero sottoscritto il Contract From America.
Non più un contratto “con” l'America, redatto dalla leadership repubblicana come nel 1994. Ma un decalogo che condensa le domande della stessa società americana. Punti schematici e stilizzati, come dev'essere in un documento politico di larga circolazione: però, fra gli altri, è opportuno evidenziare almeno il terzo, la richiesta esplicita del ritorno al pareggio di bilancio.
La cosa più notevole dei bevitori di tè è proprio questa. Prima di un sussulto antifiscale, a spingerli è stata una rivolta contro la spesa pubblica. Meno tasse, ragionano, saranno possibili solo se viene messo sotto controllo il debito, e s'imbriglia la spesa. Per tagliare le tasse, bisogna tagliare lo stato.
Da nessuna parte, nel mondo, la promessa di avere «la sanità, per tutti, gratis» sarebbe stata accolta con lo scetticismo con cui gli americani hanno preso Obamacare. Gli americani sanno che “nessun pasto è gratis”, e reputano preziosa la loro libertà di scelta non solo come cittadini, ma anche come pazienti.
È normale che anche fra i Tea Party vi sia qualche matto, e abbondano le persone con idee curiose. Ciò che conta, però, è che il movimento ha intercettato persino i candidati più esotici non sulla base delle loro opinioni in tema di sesso, droga, aborto e masturbazione, ma in quanto disponibili a sottoscrivere il Contract From America, dove non affiora nessuna delle questioni tradizionalmente care alla destra cosiddetta religiosa.
I Tea Party hanno imposto assieme un nuovo modo di fare politica, e il salutare ritorno a idee antiche. Il primo sfrutta le possibilità offerte da una società sempre digitalizzata, utilizza i “social network” per trasportare quelle reti di relazioni anche nelle manifestazioni di piazza e attivare persone al di fuori delle tradizionali appartenenze partitiche. Le idee antiche sono quelle scolpite nella Costituzione e, di più ancora, nella Dichiarazione d'Indipendenza americana. Il diritto alla ricerca della felicità: ricerca personale, non somministrazione programmata di un tot di felicità da parte dello stato.
Per loro, la sfida più grande incomincia ora: come non perdere la presa sul partito repubblicano, come continuare a mobilitare il proprio popolo anche senza un obiettivo elettorale concreto. Insomma, come dare sostanza alla più abusata delle citazioni jeffersoniane: il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza.
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