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Autore Discussione: BONO A che punto sono i nostri sogni per il millennio  (Letto 3168 volte)
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« inserito:: Settembre 20, 2010, 09:31:56 am »

LE IDEE

A che punto sono i nostri sogni per il millennio

di BONO


Ho notato che i newyorchesi  -  e spesso di questi tempi cerco di passare per uno di loro  -  hanno la tendenza ad accogliere la parola "summit" con una irritata alzata al cielo degli occhi. A Manhattan, un "vertice" non ha nulla a che vedere con ramponi e piccozza, ma si riferisce a una vasta adunata di importanti personaggi, capi di stato e loro codazzi di celebrità, nelle vicinanze dell'edificio delle Nazioni Unite, un evento che crea pertanto una paralisi pressoché totale dell'East Side. La pace del mondo potrà mai valere una cosa del genere? Mai, assolutamente. Eleanor Roosevelt, guarda che cosa hai combinato...

In tutta sincerità, i recenti summit globali  -  da Copenhagen a Toronto  -  sono stati un fallimento totale, così che la comunità internazionale (che potrebbe anche non esserne ancora consapevole) di fatto è in forte ritardo per un proficuo incontro multilaterale che non si incentri sul parlare a vanvera ma sul fare. Il tema di cui si dibatterà al vertice delle Nazioni Unite di questa settimana è di quelli la cui enorme importanza è pari soltanto allo scarso riconoscimento per la breve denominazione che lo contrassegna: mi riferisco alla sigla degli Obiettivi di sviluppo del millennio, quel "Mdg" che sta per Millennium Development Goals (e Dio ci scampi da questa sciocca mania degli acronimi). Gli Mdg, per quanto possibile, sono l'accordo più visionario di cui la maggior parte dei popoli abbia mai sentito parlare. Poco prima che iniziasse il XXI secolo, in una serie di summit mondiali fu negoziato un patto globale di grande portata, poi ratificato nel 2000. La "Dichiarazione del Millennio" dell'Onu impegnava i firmatari a "garantire che la globalizzazione diventasse una forza positiva per tutti i popoli della Terra", in particolar modo i più emarginati dei Paesi in via di sviluppo. Non era una promessa delle nazioni ricche verso quelle povere. Era un patto, una partnership nella quale ciascuna delle parti si impegnava a rispettare le promesse fatte alla propria popolazione e agli altri partner.

È il genere di cose fuori dalla realtà che la gente che partecipa ai vertici tende a dire, cavandosela così perché nessun altro vi presta la dovuta attenzione. Nondimeno, l'assemblea del 2000 fu diversa. I firmatari approvarono specificatamente che si sarebbero impegnati a raggiungere obiettivi specifici in un arco di tempo specifico: dimezzare la fame e la povertà nel mondo, offrire a tutti i bambini e le bambine un'istruzione di base, ridurre la mortalità infantile e delle neomadri (rispettivamente di due terzi e di tre quarti) e invertire una volta per tutte la diffusione di Aids, tubercolosi e malaria. Il tutto entro il 2015. Obiettivi che dal punto di vista dell'ambizione si meritano sicuramente un bel "10".

E allora: a che punto siamo, dopo dieci anni, mentre alcune delle economie del "primo mondo" paiono quasi prossime a esplodere, e le economie del secondo e del terzo sembrano sul punto di sorreggerci tutti? Beh, per una risposta dettagliata vi rimando al vertice. Se però questa settimana siete impegnati, potrei anticiparvi che, dal mio punto di vista personale, in molte zone le cose vanno meglio di quanto si pensi. Anzi, molto meglio. Grazie alla cancellazione del debito, decine di milioni di bambini in più frequentano la scuola. Milioni di vite sono state salvate grazie alle battaglie contro le malattie prevenibili, e grazie soprattutto al Fondo Globale per la lotta all'Aids, la tubercolosi e la malaria. Se si eccettuano le ricadute negative della crisi dei mercati, la crescita economica in Africa ha preso un ritmo sostenuto, pari al 5% annuo per il decennio 1999-2009. Dal 1999 al 2005 si è registrato inoltre un calo della povertà dell'1% annuo. Gli utili registrati da alcuni Paesi come il Ghana sono la prova evidente del progresso che gli Obiettivi del Millennio hanno contribuito a determinare. Al tempo stesso, però, venti contrari soffiano in altri Paesi come il Congo e ci rammentano la distanza che bisogna ancora coprire. Le avversità sono molteplici: a causa della crisi finanziaria circa 64 milioni di persone sono ricadute in stato di indigenza, e per colpa della crisi alimentare 150 milioni di esseri umani sono afflitti dalla fame. E all'orizzonte si prevedono tempeste: i poveri saranno colpiti per primi e più gravemente di altri dal cambiamento del clima.

Perciò al summit di quest'anno non sarà opportuno brindare a champagne. Il decimo compleanno del nuovo millennio è - o dovrebbe essere - una ricorrenza piena di significato, e dovremo raddoppiare i nostri sforzi. Dopo tutto, infatti, al 2015 mancano soltanto cinque anni. Restano dunque soltanto cinque anni per far sì che quel gigantesco ingorgo a New York sia valso la pena.

Alla luce di quanto detto vorrei proporre tre accertamenti a breve scadenza per controllare l'efficacia del nostro impegno nei confronti dei Mdg. Primo: scopriamo che cosa funziona e poi dilatiamolo. Valido, efficiente ed efficace: il Global Fund ogni giorno salva l'incredibile cifra di quattromila vite umane. Perfino un esperto di Wall Street dovrebbe ammettere che l'investimento assicura eccellenti profitti. Pochi, però, sono consapevoli di ciò. Così se alcuni Paesi chiave - dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Francia alla Germania - diminuissero il loro impegno passerebbe inosservato. Bisognerebbe quindi sbandierare, far sentire e celebrare ciò che non si sbandiera, non si parla e non si celebra - i buoni risultati del fondo -  e dopo questo nuovo vertice si dovrebbe finanziarlo interamente.

Secondo: la governance ha un effetto moltiplicatore. La primavera scorsa ho parlato di alcuni africani che ho conosciuto e che considerano la corruzione la più letale delle malattie letali, un cancro che corrode le fondamenta stesse della buona governance nel momento in cui sono erette. E non sto parlando soltanto della "loro" corruzione, ma anche della nostra. Per esempio: le società petrolifere multinazionali vogliono il petrolio, e le leadership dei Paesi poveri, ricchi soltanto di oro nero, vogliono venderglielo. Tutto bene, dunque? No, troppo spesso queste grandi multinazionali intenzionalmente alimentano e prendono parte a un sistema di tangenti e mazzette che finisce col truffare la nazione in questione e nel trasformare quella che dovrebbe essere una risorsa benedetta in una specie di maledizione. Ma da adesso in poi le società energetiche quotate alle Borsa americana dovranno rendere noti tutti i versamenti di capitali effettuati a funzionari del governo. Se i soldi cambieranno di mano, pertanto, ciò dovrà avvenire alla luce del giorno. Ed è proprio la luce del giorno a far dileguare in tutta fretta gli scarafaggi. Il governo britannico dovrebbe approvare i medesimi requisiti per le aziende che fanno affari in Gran Bretagna, come dovrebbero anche fare l'Unione Europea e infine tutti i Paesi del G-20. Secondo l'imprenditore africano Mo Ibrahim - una delle voci più autorevoli di quel continente - la trasparenza potrebbe fare per la trasformazione dell'Africa molto di più di quanto abbia fatto la cancellazione del debito. Questo provvedimento, per di più, non costa nulla, nada. È una sorta di libero pensiero in pieno ingorgo stradale.

Terzo: esigete trasparenza. Misurate le entrate e la produttività. Per sapere quanto ci resta da camminare è indispensabile sapere dove si è arrivati. Al momento è pressoché impossibile averne un'idea precisa. Se ne avete il coraggio, azzardatevi a inoltrarvi nel mondo degli Mdg, e incontrerete una sfilza sbalorditiva di vaghi impegni su questioni di somma importanza, dalla mortalità delle neomadri allo sviluppo dell'agricoltura. Vi imbatterete in una quantità infinita di scartoffie troppo spesso utilizzate per nascondere una doppia contabilità, o il ricorso al sistema due pesi-due misure. Quel che ci serve è un ente indipendente, formato da rappresentati dei governi, del settore privato e della società civile, che tenga traccia degli impegni sottoscritti e dei risultati, non soltanto in relazione agli aiuti umanitari, ma anche al commercio, alla governance e agli investimenti. La promessa che abbiamo fatto all'inizio di questo secolo non consisteva nel rinnovare i vecchi rapporti tra donatori e beneficiari, bensì nel crearne di nuovi, con partner autentici, pronti a rispondere del loro operato reciprocamente e a tutti gli esseri umani. Questa promessa mi sembra il tipo di accordo giusto per un'epoca di austerità e di interdipendenza qual è la nostra (l'era della ricchezza bruscamente interrotta dovrebbe di fatto acuire la nostra attenzione ai mercati futuri, per il nostro bene tanto quanto per il loro).

Nessuno dei leader che prenderà la parola al summit è più angosciosamente consapevole di questo contesto del presidente Obama, che un anno fa promise di portare avanti un piano globale mirante ad assicurare che gli obiettivi del Millennio andassero a buon fine. Se al centro di tale strategia vi sarà la promozione della trasparenza, se si investirà in ciò che funziona, allora Obama potrà assicurare agli americani che i loro dollari servono veramente a sostenere i valori nei quali credono. Perché queste promesse e queste vuote statistiche "cantino" serve passare all'azione. Forse non diverranno brani pop, ma in ogni caso vi entrerà ugualmente in testa come un tormentone l'idea pratica e raggiungibile che il mondo se lo vorrà sarà perfettamente in grado di trovare un equilibrio e offrire a tutti, non solo ad alcuni, l'occasione giusta per uscire da quella povertà incommensurabile che rende necessario e indispensabile stringere simili convenzioni globali.
Nel mio cuore e nella mia mente riecheggia il pensiero (costante e mai scalfito) che Nelson Mandela esternò nella sua tenace lotta volta a contrastare la povertà più assoluta: "Talvolta a una generazione tocca essere grande". Dobbiamo fare ancora molto per dimostrarlo.

(The New York Times-La Repubblica - Traduzione di Anna Bissanti)

(20 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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