Cultura
13/08/2010 -
Massimo Mila, dal carcere alle vette la vita come sfida
Nasceva 100 anni fa il critico musicale amico di Bobbio. Famoso per gli studi su Verdi e per le polemiche con il Pci
ALBERTO PAPUZZI
TORINO
Quando Massimo Mila è arrestato, a Torino il 15 maggio 1935, con Vittorio Foa e altri giovani antifascisti del gruppo Giustizia e Libertà, nella prima lettera scritta alla madre così conclude: «Non mancandomi il tempo per meditare, può darsi che qui dentro diventerò filosofo: ma spero vivamente di non averne il tempo». Era il suo noto understatement, dietro cui si celava un uomo capace di scelte drastiche, e anche dure, come in un'altra lettera alla madre, del 30 dicembre da Roma, dov'è in attesa del processo che lo vedrà condannato a sette anni di carcere: «Ficcati bene in testa che io sto benissimo, che il vivere separati è cosa che doveva pur succedere una volta o l'altra, che la pena che mi è data io me la tengo onore». Questa mistura di orgoglio e rigore lo spinge addirittura a un elogio della galera: «La mia vita qui non è affatto anormale: se non mi mancaste voi e la montagna, direi che è la miglior vita che posso desiderare: niente da fare, leggere, studiare, pensare».
Nato a Torino il 14 agosto 1910, studente del D'Azeglio, il liceo della buona borghesia cittadina, aveva per compagni Bobbio e Ginzburg, Pavese e Einaudi. La mamma si raccomanda al loro professore Augusto Monti perché lo tenga lontano dai pericoli della montagna. Ci voleva altro! Nel 1928, a 18 anni, con Renato Chabod apre una via sull'Herbétet (3778 m) nel Gran Paradiso: è la via della cresta Sud-Ovest, fra temibili spuntoni. Le scalate erano la sua grande passione da quando Tota Paganôn lo portava ragazzino ai Picchi del Pagliaio in Val Sangone (come raccontò in un esilarante articolo). Alla morte, 26 dicembre 1988, si trovò fra le sue carte un curriculum estremamente dettagliato dell'attività alpinistica, con oltre centocinquanta salite fra cui il Monte Bianco lungo quattro vie diverse, Jorasses e Cervino, senza contare una grande quantità di gite scialpinistiche. Come scrisse Italo Calvino, la passione di Mila per la montagna faceva scoprire un uomo «che certo non aveva problemi con se stesso, che sapeva senza incertezze cosa gli piaceva e cosa non gli piaceva, così come sapeva cosa doveva e cosa non doveva fare: da ciò l'ostinazione e la sicurezza in quel che diceva e faceva».
Naturalmente la montagna era un hobby, la sua professione era quella di storico della musica e di critico musicale. Protagonista di un esordio folgorante quando la tesi di laurea, Il melodramma di Verdi, viene pubblicata da Laterza, nel 1933, su insistente consiglio di Benedetto Croce, la sua precoce carriera, che lo vede a ventitré anni redattore della Rassegna Musicale e coinvolto nel Maggio Fiorentino è però interrotta dagli arresti per antifascismo e in seguito dalla partecipazione alla Resistenza nel Canavese, come ispettore militare partigiano. Tuttavia trova il tempo per tradurre due libri culto come Le affinità elettive di Goethe e Siddharta di Herman Hesse, entrambi per Einaudi, di cui diventa redattore nel 1945, restandone consulente fino alla morte. L'anno dopo esce il suo libro più conosciuto: Breve storia della musica, eccellente e pratico compendio, che l'editore ripubblica per cinquant'anni. Quindi verranno L'arte di Verdi, Compagno Strawinsky e le Letture: Don Giovanni, Nozze di Figaro, Flauto Magico, Nona Sinfonia.
Collaboratore dell'Unità dal dopoguerra, dell'Espresso dal 1955 e della Stampa dal 1967, non è opinionista che rifugga le polemiche, come quando entra in contrasto con Roderigo di Castiglia, pseudonimo di Togliatti, attorno al rapporto fra cultura e politica, querelle che ricorda quelle sullo zdanovismo fra Togliatti e Vittorini e fra Togliatti e Bobbio. Mila nel 1949 recensisce sulla Rassegna Musicale un libro inglese sulla musica in Urss. Togliatti su Rinascita si stupisce di vedere Mila allineato «con i Comitati civici nell'accusare d'ignoranza Zdanov». Poi scaglia una delle sue bordate (si sa che il Migliore non eccelleva in finezza): «Ancora un passo, caro Mila, e vi troverete in compagnia di Benedetto Croce, a giudicare il marxismo coi criteri razzistici di Adolfo Hitler». Pacato ma fermissimo, il musicologo spiegava di essersi comportato come chi cerca di salvare un amico che vedeva correre alla sua rovina.
Ma il «caso Mila» è quello che scoppia con un articolo in favore della pena di morte sulla Stampa dell'11 febbraio 1981. I neofascisti del Msi avevano avviato una raccolta di firme per la pena capitale. «Naturalmente non firmo la petizione dei missini - scriveva Mila -. Ma mi dispiace che una causa tanto giusta venga lasciata a loro». Ne nasce un putiferio: gli rispondono fra gli altri Calvino, Eco, Sciascia, Valiani, Arbasino, Bocca. Lui replica che ricusare la pena capitale «è l'ultimo patetico sforzo per salvare l'Assoluto». Cita il processo di Norimberga: «Vogliamo deplorare l'"omicidio legale" dei grandi gerarchi nazisti?». In realtà bisogna leggere quel duro pronunciamento all'interno dell'insofferenza che Mila provava per le ipocrisie politiche di ogni sorta, per cui ci si stracciava le vesti di fronte all'imbarbarimento della criminalità, ma non si faceva granché per combatterla se non sventolare vecchie bandiere.
Personaggio complesso. La chiave che forse tiene insieme il musicologo che nel 1935 si batte per il jazz, l'alpinista che cerca se stesso sulle montagne e lo scrittore civile che vede nel Pci «i nuovi piagnoni», ma per difenderli si dice disposto a fare l'utile idiota, è quella della sfida, per essere se stessi e per costruire l'Italia. In questo senso in un'intervista poco prima della morte mi disse che il vanto della sua vita era l'esperienza da partigiano.
http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/298292/