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Autore Discussione: ANDREA ROMANO - Antipolitica e sindacato del “no”  (Letto 2487 volte)
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« inserito:: Settembre 19, 2007, 04:42:32 pm »

19/9/2007
 
Antipolitica e sindacato del “no”
 
 
ANDREA ROMANO
 
Era forse scontato che i sindacati rispondessero picche al piano del ministro Nicolais per la razionalizzazione del pubblico impiego. Era invece molto meno prevedibile che Veltroni fosse investito dalla scomunica preventiva di amici e nemici solo per essersi detto pronto a discutere una proposta di diversa applicazione dell’articolo 18 ai neoassunti. D’altronde, qualche settimana fa il piano di Nicolais era stato lanciato con uno slogan informale che annunciava «meno uscieri, più ingegneri». Immaginiamo l’entusiasmo di un sindacato nel quale i primi sono largamente più rappresentati dei secondi e dove saranno stati in molti a pensare «intanto teniamoci gli uscieri, per gli ingegneri vedremo più avanti». Da qui l’esercizio di quel potere di interdizione che ancora una volta i sindacati mostrano di volere utilizzare ben prima che un’iniziativa di riforma venga pienamente articolata dal governo.

Ma la questione non riguarda tanto l’abilità comunicativa del ministro, che ieri si è detto molto deluso dalle rigidità sindacali, quanto la capacità del nascente Partito democratico di definire una relazione con il sindacato che permetta alla politica di tornare a decidere guardando all’interesse generale del Paese prima che alla forza delle corporazioni.

Ad oggi i rapporti tra Pd e sindacato sono ancora fermi alle buone maniere. Molto educatamente, tutti i principali attori si scambiano generosi complimenti sulla ventata di novità che il nuovo partito porterà nella politica italiana e sull’insostituibile funzione del sindacato italiano così come esso è oggi. Il dubbio è che si tratti per l’appunto di un gioco delle parti, dietro il quale si preparano sommovimenti che rischiano di sfuggire al controllo dei piloti al comando.

Nella Cgil, dove da sempre le componenti interne si definiscono più fedelmente in base alle diverse appartenenze partitiche, gli equilibri raggiunti nell’ultimo decennio sono già scossi da quanto sta accadendo a sinistra. Non è solo l’impazienza di Rifondazione e l’avvicinarsi della manifestazione del 20 ottobre a preoccupare, in un clima di scalata ostile al vertice da parte della sinistra radicale, ma soprattutto l’imminente scomparsa di quella sponda di partito che anche di recente ha garantito spazio e tranquillità alla leadership Cgil. Tra poco più di due settimane, dal 4 all’8 ottobre, nei luoghi di lavoro si terrà un referendum sugli accordi sul welfare che rischia di trasformarsi in un’umiliante sconfitta per i vertici sindacali. Guglielmo Epifani sta cominciando a mettere le mani avanti, come ha fatto ieri nell’intervista al Riformista, parlando di «clima di sfiducia», di «una prova ancora più dura» e soprattutto lamentando la scomparsa di quei «grandi partiti» che in una situazione di analoga difficoltà avrebbero dato una mano preziosa.

La stagione di fermenti che sta per aprirsi nel sindacato confederale rappresenta però una grande finestra di opportunità per il centrosinistra e in particolare per il Partito democratico. Sì, perché la scomparsa dei tradizionali puntelli permetterà al Pd di ripensare il proprio rapporto con la rappresentanza sindacale. Forse persino all’insegna del recupero di quell’autonoma responsabilità di iniziativa e decisione che in tutti i grandi partiti socialisti europei ha segnato negli ultimi anni il metro dell’innovazione. Nessuno di questi partiti ha assunto una «postura antisindacale», ma tutti (e in primo luogo il Labour britannico e la Spd tedesca) hanno saputo concretamente ridurre il potere di veto e interdizione esercitato dai sindacati. In fondo si tratta di fare ciascuno il proprio mestiere. Che per un sindacato è quello di rappresentare le ragioni dei propri iscritti e che per un partito politico è quello di governare sulla base di un mandato e di un programma.

Per riuscire a sciogliere quel potere di veto bisogna innanzitutto crederci, credere nella responsabilità della politica e nel dovere di realizzare buone idee di governo anche quando si sfidano le consuetudini. Agli inizi di luglio Mario Monti aveva chiesto a Veltroni di dimostrare la propria capacità di innovazione rimettendo in discussione la pratica della concertazione così come si applica all’Italia, ovvero superando i poteri di veto del sindacato e i residui di quella concezione secondo cui la sovranità risiederebbe in fabbrica e non nei cittadini. Ieri Veltroni ha provato a fare un passettino in quella direzione, dicendosi pronto quanto meno a discutere la proposta presentata a Milano da Tito Boeri e Tiziano Treu. La fatwa da cui è stato investito per mano di Ferrero e Damiano, divisi sul progetto di Partito democratico ma uniti dalla fede nell’intangibilità eterna dell’articolo 18, mostra quanta strada rimanga ancora da fare nel centrosinistra per affermare un principio di sana responsabilità della politica. Un principio che, dove applicato, rappresenterebbe anche la risposta più forte all’ondata sgangherata ma forte di milioni di voci dell’antipolitica.

da lastampa.it
 
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