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Autore Discussione: L'Italia di Mazzini, un fallito di genio  (Letto 2435 volte)
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« inserito:: Marzo 11, 2010, 04:09:08 pm »

Giovanni Belardelli ricostruisce il lascito ambiguo dell’eroe risorgimentale

L'Italia di Mazzini, un fallito di genio

Una dottrina del martirio carica di insuccessi ne preparò l'ingresso nel Pantheon nazionale


Giuseppe Mazzini morì il 10 marzo del 1872 senza essersi riconciliato con quello Stato italiano che grazie (anche o, forse, soprattutto) a lui era nato undici anni prima. Il giorno successivo, l’11 marzo, la Camera approvò all’unanimità un ordine del giorno di cordoglio ma nessun parlamentare poté prendere la parola nel timore che qualche frase potesse mettere in imbarazzo Vittorio Emanuele II o il governo. Dieci anni dopo, a Genova, gli venne dedicata la prima statua, in piazza Corvetto. Nel marzo del 1890 il nuovo re, Umberto I, controfirmò la delibera parlamentare che prevedeva gli fosse eretto un monumento a Roma. Nel 1901, un altro Savoia, Vittorio Emanuele III, approvò la decisione della Camera di introdurre nelle scuole elementari il libro di Mazzini Dei doveri dell’uomo. Ma il testo fu purgato di alcuni passaggi, cosa che fu definita dai mazziniani una «profanazione»; altri criticarono il fatto che fosse fatta leggere ai ragazzi un’opera «eccessivamente dogmatica», qualche esponente socialista trovò da eccepire alla «morale conservatrice» di quelle pagine; da parte cattolica si osservò che la lettura dello scritto avrebbe «avvelenato» la gioventù e trasformato le scuole in «uffici di arruolamento per le logge massoniche».

Ma è un fatto, sottolinea Giovanni Belardelli nel libro Mazzini - di imminente pubblicazione nella collana «L’identità italiana» curata da Ernesto Galli della Loggia (il Mulino) - che nel giro di pochi anni si passò da una «relativa» emarginazione della sua figura a una inclusione nel Pantheon dell’Italia monarchica. Questa consacrazione, scrive Belardelli, «comportò inevitabilmente che di lui si sottolineasse soprattutto la fede unitaria, a scapito delle idee repubblicane e anticlericali e che, di fronte ai pericoli del nascente movimento socialista, si evidenziasse la portata conservatrice della sua ultima accesa battaglia contro la Comune parigina e contro l’Internazionale. Un tale processo che doveva condurre a includere anche l’immagine di Mazzini (assieme a quelle di Vittorio Emanuele, Garibaldi e Cavour, ndr) in quelle raffigurazioni dei quattro padri della patria che sarebbero poi diventate comunissime, coincise con il progressivo affermarsi dell’interpretazione conciliatorista del Risorgimento, che smussava e quasi annullava i contrasti tra le diverse componenti del movimento per l’indipendenza, poiché tutte avevano concorso al risultato finale». L’istituzionalizzazione di Mazzini così andò di pari passo con la depoliticizzazione della sua figura. Il che non impedì (anzi!) che nel Novecento un nuovo ceto politico cercasse di impadronirsene.

Dapprincipio gli interventisti che si batterono perché l’Italia entrasse nella Prima guerra mondiale. Poi fu la volta dei fascisti: «Fatta salva la differenza sempre esistente tra le singole storie individuali» scrive Belardelli «i richiami a Mazzini furono di una qualche importanza nell’accompagnare o favorire il percorso di quanti passarono dall’interventismo al fascismo». Mazziniani si dichiararono Giuseppe Bottai, Dino Grandi, Italo Balbo (che si era laureato con una tesi su «Il pensiero economico e sociale di Mazzini»). Quindi Alfredo Rocco e ancor più Giovanni Gentile (lo ha messo ben in luce Roberto Pertici): nei volumi che raccolgono gli scritti e i discorsi politici di Gentile il nome più citato dopo quello di Mussolini è proprio quello di Mazzini. Appropriazione impropria? No, sostiene Pierre Milza che ha sottolineato quanto la cultura mazziniana abbia influito sulla formazione dello stesso Mussolini. E anche per Karl Dietrich Bracher Mazzini è «profeta di un’idea nazionale imperialistica che, riferendosi alla tradizione di dominio dell’antica Roma, sembra anticipare le pretese imperiali del fascismo». Gli antifascisti non furono da meno nel rifarsi a Mazzini. In particolare il movimento di Giustizia e Libertà. Scrisse ad esempio Carlo Rosselli nel 1931 a uno studioso inglese: «Agiamo nello spirito di Mazzini e sentiamo profondamente la continuità ideale fra la lotta dei nostri antenati per la libertà e quella di oggi».

Sulla scia di Rosselli fu poi il Partito d’Azione a richiamarsi agli ideali mazziniani. Pubblici estimatori di Mazzini furono anche il leader socialista Pietro Nenni, che in gioventù era stato un fervente repubblicano, e quello comunista Palmiro Togliatti. «Mazzini e il suo eccitato, nebuloso, mondo spirituale» ha scritto Galli della Loggia «rappresentarono tutto ciò che di religioso l’unificazione italiana poté permettersi, ma si trattò di quella religiosità politico-sociale, intrisa di profetismo utopico e di autoritarismo, da cui dovevano scaturire precisamente le ideologie nazionalistiche, gentiliano-fasciste e gramsciano-comuniste, destinate a fare piazza pulita dello Stato e della cultura liberali». In effetti quando all’inizio degli anni Trenta (dell’Ottocento) Mazzini fuggì all’estero divenne un personaggio del tutto sui generis. Dopo aver attinto, più di quanto fosse disposto ad ammettere, ad alcuni pensatori del suo tempo - François Guizot, Victor Cousin, il marchese de Condorcet e successivamente il sansimonismo che permeava la «Revue encyclopédique» - si diede incessantemente da fare per l’organizzazione di una rete cospirativa che avesse come obiettivo la sollevazione dei popoli per l’unità d’Italia (quando nessuno ancora la prefigurava) e la Repubblica. Il suo voleva essere un movimento «eminentemente religioso», che contrapponeva la dottrina del dovere a quella dei diritti individuali. Ma il mito di Mazzini si deve anche ad altro. «Destinatario, da parte di corrispondenti ed emissari, di esagerazioni che spesso lui stesso aveva contribuito a creare, privo già prima dell’esilio di una diretta conoscenza degli Stati italiani» sostiene Belardelli «viveva nella condizione visionaria e allucinata dell’emigrato politico, che è spinto dalla sua condizione infelice a prestar fede alle notizie più ottimistiche, continuamente mescolando realtà e fantasia».

«Se un principio è vero» scriveva Mazzini nel 1833 «le applicazioni hanno a riescirne più che possibili, inevitabili». Le sconfitte, prosegue Belardelli, venivano imputate alla scarsa determinazione dei cospiratori e in ogni caso non erano che tappe verso l’immancabile successo finale. La sua attività, come ben individuò Denis Mack Smith nel fortunato Mazzini. L’uomo, il pensatore, il rivoluzionario (Bur), fu caratterizzata da una serie quasi incredibile di fallimenti. L’insurrezione abortita nei primi mesi del 1833, a cui seguirono, senza che si fosse mosso alcunché, arresti ed esecuzioni capitali (con il suicidio, subito dopo l’arresto, del suo più caro amico, Jacopo Ruffini). La «sollevazione» di Napoli e del Mezzogiorno - dove Mazzini sosteneva di avere tra i 50 e i 60 mila affiliati, del tutto inesistenti - fissata per l’11 agosto di quello stesso anno: anche questa fu un fiasco. La spedizione rivoluzionaria in Savoia stabilita per il febbraio 1834: un disastro anche per colpa del generale Ramorino, l’uomo chiamato a dirigere l’impresa, che sperperò a Parigi i soldi destinati a reclutare i partecipanti. Stessa sorte per la spedizione del 1844 in Calabria dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, fucilati assieme ai loro compagni dopo una mancata rivolta popolare. In ugual maniera fallì l’insurrezione di Milano (dove Mazzini sosteneva di avere a disposizione diecimila uomini che si rivelarono anch’essi inesistenti) nel febbraio 1853. E nel maggio del 1854, al secondo tentativo di mettere in rivolta la Lunigiana, al posto dei mille volontari annunciati se ne presentarono una dozzina che, agli ordini di Felice Orsini, vagarono per otto giorni sui monti nell’inutile ricerca di nuovi adepti.

Nel 1857 fu la volta della tragica missione di Carlo Pisacane a Sapri: anche qui finì in un massacro dei mazziniani. Il tutto accompagnato da un continuo tentativo di far ribellare la sua città, Genova, cioè di provocare una sollevazione che, come osservò Rosario Romeo, in quanto rivolta contro l’unico governo libero della penisola, «sarebbe apparsa all’opinione italiana come un atto di guerra civile». L’ultimo e più importante di questi tentativi, nel 1857, gli valse la seconda condanna a morte da un tribunale del futuro Stato italiano (la prima era stata nel 1833). Mazzini, osservò Carlo Cattaneo, «reputava vittorie anche le sconfitte, purché si combattesse». Peccato, aggiungeva, che la sua «dottrina del martirio» fosse fondata sulla «ostinazione di sacrificare li uomini coraggiosi a progetti intempestivi e assurdi». Già negli anni universitari Mazzini aveva preso l’abitudine, conservata poi per tutta la vita, di vestirsi di nero in segno di lutto per l’oppressione della sua patria. «Non badate alla mia melanconia» scriveva alla madre «questo spleen non ha cause definite o nuove, è un mal umore che mi serpeggia dentro a ore a ore, come in altre persone il mal di testa». È stato già osservato dagli storici come negli scritti mazziniani vi fosse un’evidente risonanza di vari passi del Don Carlos di Schiller, ad esempio la costante presenza di riferimenti a cimiteri e sepolcri, scheletri e fantasmi, ossa e cadaveri (perfino con «i vermi che vi brulicano sopra») nonché la stessa predilezione per l’aggettivo «incadaverito» per designare istituzioni o principi considerati privi di futuro. A ciò si aggiunse - in modo più evidente dopo il 1837 nel suo soggiorno inglese - una vera e propria vocazione all’infelicità come elemento fondante di una esistenza votata al sacrificio.

Eppure la Giovine Italia rappresenta, nella nostra storia, il primo esempio di moderno partito politico dotato di un programma pubblico, un’attività di propaganda, un sistema di finanziamento attraverso quote e sottoscrizioni, una struttura organizzativa basata su un centro e su una rete periferica estesa in tutta la penisola. Paradossalmente l’alone di leggenda che avvolse la figura di Mazzini fu dovuto - come ha puntualmente mostrato Salvo Mastellone in Mazzini e la Giovine Italia - all’attività di spie e agenti provocatori che furono infiltrati da varie polizie nella sua organizzazione: gli informatori, per continuare a percepire i loro compensi, avevano interesse a dipingerlo come un rivoluzionario tanto pericoloso quanto imprendibile e a fornire ai loro committenti un’immagine amplificata di quella rete cospirativa. L’adesione alla Giovine Italia era espressamente vietata a chi avesse più di quarant’anni. «La gioventù» scrive Mazzini a Carlo Alberto «è bollente per istinto, irrequieta per abbondanza di vita, costante ne’ propositi per vigore di sensazioni, spezzatrice della morte per difetto di calcolo». I giovani a cui si riferisce Mazzini, secondo Belardelli, «avevano appreso a sentirsi parte di una medesima generazione attraverso la lettura delle sofferenze di Werther e di Ortis e del "pellegrinaggio" del giovane Harold byroniano; avevano tratto da Rousseau l’idea che la gioventù non fosse ancora corrotta o almeno non fosse irrimediabilmente segnata dai mali che colpivano la società; le stesse biografie di Byron, Shelley, Keats (morti rispettivamente a 36, 30 e 26 anni) rendevano familiare l’idea che il fulcro della vita andasse collocato nella giovinezza».

Cosa che innervava il suo giudizio sulla rivoluzione francese del 1830: nella rivoluzione di luglio, scriveva Mazzini, era stata la gioventù a svolgere un ruolo determinante, ma gli uomini della generazione precedente, che pure «alcuni anni addietro avevano comunicato l’impulso… s’erano ritratti atterriti» e avevano accettato la monarchia orleanista. La vera eredità di Mazzini è un modo d’essere e di pensare che è vivo anche oggi. Ricorda Silvana Patriarca (docente alla Fordham University di New York) nel pregevole libro Italianità. La costruzione del carattere nazionale, appena pubblicato da Laterza, che, cinque anni dopo l’unificazione italiana, nella primavera del 1866, Mazzini pubblicò un articolo dal significativo titolo «La questione morale» in cui accusava i suoi compatrioti che avevano fatto, appunto, l’unità, di esser rimasti «servi nell’anima, servi nell’intelletto e nelle abitudini, servi a ogni potere costituito, a ogni meschino calcolo d’egoismo, a ogni indegna paura… Rinati decrepiti, portiamo avvinta al piede l’antica catena e nell’animo il solco di tutti i vizi, di tutte le fiacchezze del secolo XVII». Poco importa se la maggioranza la pensa diversamente. C’è una famosa pagina della Democrazia in America di Tocqueville (1835) che lo spiega bene: «Ciò che si intende per repubblica negli Stati Uniti è l’azione lenta e tranquilla della società su se stessa: è una condizione normale fondata realmente sulla volontà illuminata del popolo… Ma, in Europa, noi abbiamo fatto strane scoperte. La repubblica, secondo alcuni di noi, non è il governo della maggioranza, come si è creduto fino ad ora, è il governo di coloro che si fanno garanti e interpreti della maggioranza. Non è il popolo che dirige in questa specie di governi, ma coloro che conoscono quale sia il vero bene del popolo».

Mazzini vuole sì il suffragio universale, ma lo concepisce come manifestazione di una volontà collettiva unanime, come rito della religione nazionale durante il quale il popolo rigenerato mostra la comunanza di sentimenti e di idee con «i migliori e i più saggi». E quando nel 1849 è alla guida della Repubblica romana, Mazzini, scrive Belardelli, dà prova di «non comprendere meccanismi e regole di una assemblea rappresentativa… è appena il caso di osservare che sia la contrarietà ai partiti, concepiti come strumenti di frattura di una volontà generale che è e deve restare una e indivisibile, sia l’avversione alla divisione dei poteri (denunciata già allora da Terenzio Mamiani) mostrano come Mazzini si muovesse nel solco della tradizione democratica rousseauiana-giacobina». Nel gennaio del 1837, espulso dalla Svizzera, Mazzini giunse a Londra, dove nel volgere di qualche anno divenne assai popolare. L’opinione pubblica inglese provò grandi simpatie per la causa italiana, ha scritto Sergio Romano nell’assai interessante Vademecum di storia dell’Italia unita (Rizzoli), e lo dimostrò favorendo l’impresa dei Mille ma anche garantendo ospitalità, oltre che a Giuseppe Mazzini, a Francesco Crispi, a Giovanni Ruffini, ad Antonio Panizzi e ad altri esuli italiani. Il governo britannico, mette a fuoco Romano, «vedeva con favore la nascita di un moderno Stato mediterraneo, governato da una classe dirigente liberale, ma ancora fragile e quindi interessato ad avere con Londra rapporti amichevoli». L’Inghilterra consacra Mazzini come il più grande italiano dell’epoca, offre argomenti alla sua polemica contro la Chiesa, ma anche contro i compromessi tra Cavour e Napoleone III; a Londra Mazzini apprezzerà le «virtù» del colonialismo («Vedo con soddisfazione alcuni passi degli Europei nelle contrade dominate dalle credenze retrograde e stazionarie», scrisse) e sempre a Londra mise a fuoco, in sorprendente anticipo sui tempi, l’inevitabile esito tirannico di un controllo statale dell’economia.

Quando infine nacque lo Stato italiano, Mazzini espresse subito un giudizio del tutto negativo, «contribuendo», afferma Belardelli, «così a gettare le basi di quella critica del Risorgimento come rivoluzione tradita che avrebbe poi avuto larga e duratura fortuna». Ai suoi occhi sarebbe stata perfino da preferire la «tirannia straniera, sotto la quale la nazione si dibatteva temprandosi», all’Italia «servile, scettica, opportunista» che era stata creata da Cavour. Ciò nonostante tra il 1863 e il 1864 provò a convincere Vittorio Emanuele II a promuovere un’insurrezione nel Veneto. Il 1864 fu l’anno della rottura con un suo importante ex adepto, Francesco Crispi, futuro presidente del Consiglio. Nel 1866 fu eletto al Parlamento, ma Camera e governo non ratificarono quell’elezione a causa della sua condanna a morte. Rieletto una seconda volta, la ratifica venne nuovamente negata; per essere infine concessa dopo una terza rielezione: ma stavolta fu lui a non accettare una carica che avrebbe implicato il giuramento di fedeltà alle istituzioni monarchiche. Nel 1870, poco prima di essere arrestato (a opera del prefetto Giacomo Medici che in gioventù era stato mazziniano) promosse nuovi moti insurrezionali a Milano e a Genova: ma, come in passato, non accadde nulla. Si mosse qualcosa in altre città sulla base della cospirazione di gruppi non organizzati da lui: furono comunque altri fiaschi e a Pisa venne giustiziato il caporale Pietro Barsanti, che ancor oggi è ricordato come l’ultimo martire della causa repubblicana.

Paolo Mieli
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11 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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