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« inserito:: Febbraio 22, 2010, 03:59:04 pm » |
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Le fatiche laiche di un Sisifo felice
di Armando Massarenti
20 febbraio 2010
Albert Camus muore nel 1960 in un incidente d'auto, all'età di 46 anni. Negli ultimi cinque anni – lui, pied-noir, orfano di padre, uomo di sinistra che ha fatto la resistenza da comunista con Sartre, una vita spesa dalla parte degli oppressi – assiste in silenzio alla guerra d'Algeria. Non si schiera. Delude i compagni e i compatrioti. Da tempo aveva rotto con Sartre e col comunismo. Nel 1951 aveva pubblicato L'uomo in rivolta, ma la rivolta a cui pensa è quella dell'individuo, di ogni individuo – anche quando questi si unisce agli altri, solitaire e solidaire – nei confronti di qualunque forma di totalitarismo, compreso quello dei rivoluzionari. Anzi, proprio questi possono essere i carnefici più crudeli, perché in nome di una giustizia futura sono disposti a commettere atrocità anche peggiori rispetto agli oppressori contro cui si battono. Camus, scrittore e filosofo, non si schiera se non per un universo di valori che vanno dalla democrazia alla sincerità all'onesta intettettuale. Ma anche la libertà e la giustizia sociale, consapevole però – come altri pensatori fuori dagli schemi del 900, da George Orwell a Isaiah Berlin – di quanto sia facile un loro possibile conflitto. Mettendo comunque al primo posto la libertà, la libertà concreta di ogni individuo.
Se oggi Camus è più amato di Sartre, sia pure tra le esigue minoranze del libertarismo, non è perché il suo pensiero, divenuto così radicalmente anticomunista, può essere agevolmente strumentalizzato dai conservatori, ma perché, alla lunga, ha dimostrato di essere un intellettuale più coerente, più solido e – per dirla nel gergo esistenzialista – più autentico. E anche un filosofo più originale. Paolo Flores d'Arcais chiudendo il suo breve ritratto dello scrittore-filosofo invita ciascuno a «ritrovare, se lo vorrà, le incessanti ragioni della fulminante attualità di questa inattuale filosofia della rivolta», in barba alle definizioni risentite di «filosofo dilettante» e «filosofo della domenica» usate da Sartre e da Simone de Beauvoir che invitavano a un ostracismo verso il Camus filosofo che permane tuttora. «Camus – sostiene Flores d'Arcais – è stato uno dei pochi filosofi capaci di pensare il finito, di tenerlo fermo, di tracciare la mappa dei suoi tradimenti, di fornire il filo d'Arianna per sfuggire al minotauro delle ipostasi. Cioè di affrontare il compito ineludibile della filosofia oggi, se non vuole regredire a teologia o impantanarsi in frivolezze autoreferenziali». L'assurdo, il finito – i temi del Mito di Sisifo, del 1942 – non sfociano in nuovi aneliti verso l'infinito, la metafisica o filosofie o religioni consolatorie, ma verso una lucida, laicissima, consapevolezza che il senso della vita va ritrovato in un compito faticoso, senza fine e senza Assoluti, come quello di Sisifo costretto a riportare ogni giorno il masso sulla rupe: «la lotta fine a se stessa basta a riempire il cuore dell'uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».
Un ribelle è «un uomo che dice no». Che ha il coraggio di dire di no, anche alla rivoluzione. E che fa ciò in nome di un valore positivo, che è la condivisione della condizione umana. La filosofia di Sartre svelava all'uomo l'assoluto nulla, senza remissione alcuna. Ma a partire da tale nichilismo, per Camus, si corre il rischio di abbracciare un relativismo morale che può portare dritti ad «attizzare i forni crematoi». Camus pensava a una sinistra "libera" opposta a una "poliziesca", di matrice sovietica. Il «realismo rivoluzionario» – questo è il pensiero che causò il suo abbandono del partito comunista – finisce col giustificare ogni crimine in nome della rivoluzione. «L'avvenire – afferma Camus – è l'unico tipo di proprietà che i padroni concedono di buon grado ai loro schiavi». La rivolta, al contrario – osserva Flores d'Arcais – «esige risultati concreti, nel qui e ora, nella dimensione del singolo, dell'uomo realmente esistente». Per questo suona troppo intellettualistico il ricordo – pur affettuoso e non privo di onestà e di rimorso – che Sartre scrisse in morte dello scrittore: «Era l'erede moderno di quella lunga schiera di moralisti le cui opere costituiscono forse la parte più originale della letteratura francese. Il suo umanesimo ostinato, rigoroso e schietto conduceva un'impari battaglia contro gli eventi massicci e difformi del nostro tempo. (...) Cartesiano dell'assurdo, rifiutava di abbandonare il terreno sicuro della moralità e di impegnarsi nelle vie incerte della pratica». In realtà, mentre per Sartre la cultura era stata un privilegio di nascita, per Camus era stata essa stessa una conquista: forse l'unica via percorribile per sconfiggere l'assurdo, per dare un senso alla vita e per guardare il mondo senza autoingannarsi. Forse per questo, alla lunga, è lui a convincere di più.
Paolo Flores d'Arcais, «Albert Camus filosofo del futuro», Codice, Torino...
20 febbraio 2010 © RIPRODUZIONE RISERVATA da ilsole24ore.com
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