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Autore Discussione: Intervista a Marco Revelli. Democrazia anno zero.  (Letto 2556 volte)
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« inserito:: Gennaio 03, 2010, 04:36:14 pm »

Democrazia anno zero.

Intervista a Marco Revelli

Per il sociologo torinese Marco Revelli, Pd e Pdl sono la causa della crisi politica iniziata nel 2007: partiti virtuali, leaderistici, incoerenti. "Per fortuna c'è Di Pietro". Tra il "golpe bianco" e "l'eterna bicamerale" denunciati da Asor Rosa, c'è un'Italia che resiste alla liquefazione.



di Matteo Bartocci, da "il manifesto", 24 dicembre 2009

Una democrazia liquefatta, dominata dal potere carismatico del capo del governo e da due partiti «virtuali» come Pd e Pdl. Lo sguardo sulla crisi italiana di Marco Revelli - sociologo, docente all'università Orientale del Piemonte e collaboratore storico del manifesto - è attonito: «Mancano perfino le parole per dichiarare ciò che si prova e il continuo spaesamento su quello che avviene».

Proviamo a trovarle, queste parole. Alberto Asor Rosa sul manifesto del 6 e del 20 dicembre parla di «golpe bianco» e di «eterna bicamerale» sulle riforme. Mentre Ezio Mauro su Repubblica dell'11 dicembre denuncia un Berlusconi tentato apertamente dallo «stato d'eccezione».
Secondo me siamo perfino oltre lo stato d'eccezione.

A che cosa ti riferisci?
Intanto ai comportamenti di Berlusconi. Che vanno al di là della violazione delle regole fondamentali e degli equilibri istituzionali propri di uno stato d'emergenza. Ma anche alle risposte incerte e oscillanti del Pd, e alla sensazione di irrealtà che tutto questo provoca. Asor Rosa denuncia la voglia di un «golpe bianco». E' evidente che se si intende la sfida alle regole fondamentali e la minaccia politica agli assetti istituzionali è davvero così. Da mesi assistiamo all'irrisione delle istituzioni da parte del capo del governo. Berlusconi si muove al di fuori delle regole con comportamenti che solo qualche anno fa avrebbero fatto inorridire la totalità degli osservatori politici. Le provocazioni verso il capo dello stato e la corte costituzionale, l'irrisione del ruolo del parlamento, le esternazioni internazionali violentemente offensive verso le nostre istituzioni democratiche. Gli attacchi ai giudici. La novità non è che i giudici indaghino. E' che c'è un capo del governo che è chiamato in causa così tante volte e per reati così gravi, sulla base di riscontri che potranno o meno portare a una condanna, ma che non sono pure invenzioni.

E il Pd?
Il Pd, ogni volta, a caldo denuncia la gravità della cosa e il giorno dopo già la tratta come normalità. E' questa oscillazione che produce uno spaesamento radicale in cui tutto è vero e nulla è vero. In cui è la retorica del discorso politico a guidare la realtà modificandola costantemente. Questo scarto tra parole e realtà è devastante. Berlusconi alza il tiro, si direbbe consapevolmente, come parte di una strategia retorica a favore della propria onnipotenza. Dimostra che ha la possibilità di spararle sempre più grosse e di passarla sempre liscia. Può farlo perché l'opposizione è debole ma anche perché è ondivaga. Oggi lo critica e domani lo assume come un interlocutore fondamentale per ridefinire le linee generali del comune assetto democratico.

Faccio l'avvocato del diavolo. Ma Berlusconi è stato eletto dagli italiani. E al di là del suo potere mediatico ed economico tocca corde condivise da milioni di cittadini. È realismo o no trattare con lui?
Prendere atto è un conto. Trattare è un altro. L'opposizione ha diverse scelte, dalla denuncia più radicale alla normale dialettica parlamentare. Può mobilitare le piazze, battersi con durezza in parlamento, agire nelle varie sedi istituzionali, informare adeguatamente l'opinione pubblica. Oppure può dichiarare semplicemente la propria indisponibilità a dialogare su quelle basi. Di sicuro non si può contemporaneamente denunciare la gravità di quello che avviene e il giorno dopo dimenticarselo. Quello che sta avvenendo in parlamento denuncia uno scollamento spaventoso dell'opposizione con lo stato d'animo di chi l'ha votata.

E' vero però anche il viceversa. Berlusconi legittima anche chi guida il Pd. Pensa a Veltroni, che quando c'era Prodi vince le primarie e poi va a stringere la mano a Berlusconi per la nuova legge elettorale. Lo stesso, oggi, sembra voler fare anche D'Alema.
Il vero «stato di eccezione» riguarda almeno tutto l'ultimo triennio. La dialettica politica avviene in un sistema instabile, in un contesto di liquefazione istituzionale iniziato proprio a ridosso della nascita del Pd e del Pdl. E' quello il punto di cedimento strutturale della Repubblica. La nascita del Pd e, simmetricamente, del Pdl ha determinato due cose: 1) lo sconvolgimento di tutto il sistema dei partiti, con due partiti virtuali ma a pretesa egemonica che sono nati istantaneamente come se fossero un prodotto liofilizzato; e 2) la scelta prematura di Pd e Pdl, prima ancora di essere costituiti, di accordarsi per riformare l'assetto istituzionale del paese.

Basti pensare che il Pdl ha aperto solo ora il suo tesseramento...
E' nato su un predellino grazie a una decisione carismatica del suo capo. Ma anche il Pd ha fatto le sue primarie sul segretario prima ancora di nascere. E' nato in una forma plebiscitaria e burocratica insieme. L'eletto (Veltroni) era stato deciso da una burocrazia non di partito ma di partiti ed è stato poi confermato dal lavacro plebiscitario. Questi due partiti virtuali si consideravano entrambi egemonici nel proprio campo. E anticipavano in sé un bipartitismo tutto da costruire e dagli esiti incerti. Un'apertura al buio, diremmo nel linguaggio del poker.

Ma entrambi hanno fallito. Il "terribile" referendum bipartitico che ha fatto cadere Prodi, Berlusconi l'ha sabotato per non rompere con la Lega. E oggi in parlamento ci sono cinque partiti e fuori ancora di più. Di bipartitismo non parla più nessuno.
Quel fallimento ha lasciato le sue macerie. In questo vuoto esiste una sola potenza: l'azione del capo carismatico legibus solutus. E' il carisma il potere che riempie il vuoto della scomparsa dei partiti. Che capitalizza, con la forza della parola del leader, la natura di non-partito del Pdl. E svela l'impotenza di un Pd che orfano di quella strategia originaria non ne ha ancora trovata un'altra.

Però il limite di Pdl e Pd Fini e Bersani l'hanno segnalato. Il primo lotta contro il clima «da caserma», il secondo aspira a un «partito bocciofila» ma più robusto. Non è una correzione di rotta significativa?
Fini è orfano del suo partito sciolto nell'ectoplasma Pdl. E Bersani a sua volta è la vittima del fallimento di Veltroni. Ma è difficile per entrambi tirarsi su aggrappandosi al proprio codino come il barone di Münchausen. Se sbagli il varo della nave poi è difficile governarla. Non so con quali strumenti Bersani potrà rimediare al disastro.

Quale è il vizio congenito del Pd?
La fusione fredda è fallita. È un partito che si è costruito su retoriche mediatiche e ha cancellato tutte le culture politiche da cui nasceva perché le riteneva un ostacolo all'assemblaggio finale. Gli resta una struttura economica - le cooperative - e tante amministrazioni locali.

Quei sindaci-cacicchi con cui carsicamente non manca la tensione.
Senza una cultura politica condivisa è difficilissimo regolare il rapporto tra centro e periferia.

Disegni un panorama parlamentare devastato. E fuori dalle camere?
Vedo un paese politicamente arreso e moralmente anestetizzato in ampie componenti. Un paese che sta in piedi per una rete ancora fitta di persone perbene, serie, che concentrano le energie sulla propria professione - insegnante, giudice, medico, libero professionista, lavoratore... L'Italia sta in piedi grazie a chi si sforza di far funzionare ospedali e scuole, i servizi pubblici, chi fa bene il proprio lavoro. Insegnanti e giovani che ci credono ancora, magistrati che non si arrendono di fronte al potere, chi guida un treno o un tram e cerca di farlo andare nonostante le porcherie a cui assiste. Intendiamoci, ci sono anche molti sindaci e assessori che credono ancora in qualcosa anche se sono soli, non più sostenuti dai loro partiti. Conosco centinaia di iniziative locali contro l'impoverimento dovuto alla crisi. Fatte da soli, senza i partiti, con il volontariato. E non ho incontrato una sola di queste persone perbene, di destra o di sinistra, che accetti quello che sta facendo Berlusconi. Nessuno che accetti che un uomo così sia chiamato a ridisegnare il quadro democratico.

Mi sembri troppo pessimista. Non c'è neanche un raggio di sole?
Lo «stato d'eccezione» un vantaggio ce l'ha: che chi non ci sta può riconoscersi facilmente. Che i diversi si vedono l'un l'altro. Serve una nuova classe dirigente perché quella attuale ha fallito. E se vogliamo un nuovo inizio da dove si può ripartire? Dall'autoselezione dei «ribelli».

E chi sarebbero questi «ribelli»?
È l'Italia che resiste. Gli operai che difendono il lavoro, i liberi professionisti che difendono la dignità, gli insegnanti che difendono un'idea di cultura, i politici che non ci stanno, i giornalisti che non si arrendono...

Però mi pare che il tuo discorso prescinda completamente dal declino di Berlusconi. Che non è affatto onnipotente, non solo per motivi anagrafici.
Distinguiamo Berlusconi dal berlusconismo. Il berlusconismo come stile di vita ha stravinto. Anche a sinistra. Ha colonizzato le anime al di là del suo bacino elettorale. È entrato nella testa di buona parte dei politici, che accettano uno stile di comunicazione orribilmente personalizzata. Accettano un sistema che ha distrutto la sfera pubblica cancellando la distinzione col privato. Che ha celebrato il trionfo della continua auto-contraddizione e affermato la relatività di ogni affermazione. La comunicazione collettiva è guasta. E tale rimarrà anche dopo Berlusconi. Se oggi per qualche miracolo giudiziario Berlusconi dovesse farsi da parte, il carattere liquido del nostro sistema politico non verrebbe superato, anzi, si frantumerebbe in tante direzioni diverse. In un quadro così polverizzato sarebbe da verificare chi avrebbe la forza di una nuova egemonia. Non la sinistra, sono quasi sicuro. Forse una destra mostruosa, o i territorialismi, o la chiesa. Certo, la persona Berlusconi è logora. Ma dopo l'incidente a piazza Duomo si sono tutti allineati al suo stile e si sono accomodati nella sua soap opera...

Veramente tutti tranne uno...
Di Pietro. Chapeau. Di questi tempi condivido tutto di Di Pietro. Perfino il suo italiano.

Ma perché?
Perché richiama alla realtà. Pronuncia parole legate a un mondo dotato di senso.

Anche quando è un senso, come dire, "carcerario"?
Anche il carcere fa parte della realtà. Piaccia o non piaccia. Di Pietro non è di sinistra. Però evoca una dimensione in cui le cose riacquistano un significato.

Ma non è una contraddizione con quello che dicevi all'inizio? Di Pietro è il leader mediatico di un partito molto virtuale che controlla in modo padronale, altro che Bersani o Berlusconi.
Però dentro quel sistema virtuale rompe la soap opera berlusconiana con alcuni dati di realtà. Per esempio dire in televisione che un'indagine di mafia è un fatto grave, soprattutto se è coinvolto un dirigente politico e istituzionale, è certo un gesto mediatico. Ma ripristina un tratto di realtà.

(28 dicembre 2009)
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