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Autore Discussione: Albert Camus, la scomoda eredità di un irregolare  (Letto 3237 volte)
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« inserito:: Gennaio 04, 2010, 10:14:49 am »

4/1/2010

Quel giorno a Parigi su un palco con Camus
   
CLAUDIO GORLIER


Era il 13 dicembre 1948, e con Carlo Fruttero ci recammo, a Parigi, alla Salle Pleyel, dove si presentava il Rassemblement Démocratique Révolutionaire. Sul palco: Albert Camus, André Breton, Carlo Levi, Richard Wright, David Rousset, Simone de Beauvoir. Il vero dominatore della manifestazione fu, indiscutibilmente, Camus, e ci rendemmo conto del perché, da giovane, fosse stato un eccellente attore.

Non si trattava di lanciare un nuovo partito, ma un movimento che ambiziosamente, come prometteva il nome, si proponeva di rivendicare l’impegno politico dell’intellettuale. Per farsene un’idea, basta riferire la conclusione, davvero folgorante, poi pubblicata nelle Actuelles: «Non è il combattimento che fa di noi degli artisti, ma l’arte che ci costringe a essere dei combattenti. Per la sua stessa funzione, l’artista è il testimone della libertà e questa è una giustificazione che gli capiterà spesso di pagare cara».

Paradossalmente, questa appassionata e lucida professione di fede conta quale lascito definitivo, quale congedo. Mentre, da un lato, il Rassemblement ebbe vita effimera, Camus a partire dagli anni successivi smise risolutamente di occuparsi di politica, cessando le sue collaborazioni a «Combat», nome di per sé emblematico. Ma non sfugge a nessuno che la sua presa di posizione, assunta davanti a un pubblico letteralmente affascinato, era destinata a lasciare il segno, mentre di fatto una effettiva progettualità politica continuava a permeare tutta la sua opera e, sarei tentato di dire, il suo comportamento. Quanto urgente, attuale, si presenta ancora oggi la professione di fede dichiarata alla Salle Pleyel. Glielo rammentai parecchi anni dopo, quando venne a Torino e mi confessò che, appena arrivato, si era recato a visitare la casa di Nietzsche, direi a rendere omaggio a uno dei suoi modelli ideali. A mezzo secolo dalla tragica morte, risuona il grido tragico del suo Caligola, nel momento in cui viene assassinato: «Sono ancora vivo!».

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 04, 2010, 10:15:52 am »

4/1/2010 - ANNIVERSARIO. TRA LE POLEMICHE L'ANNIVERSARIO DEL FILOSOFO-SCRITTORE

Albert Camus, la scomoda eredità di un irregolare
   
Morì 50 anni fa ma riesce ancora a dividere la Francia

DOMENICO QUIRICO
CORRISPONDENTE DA PARIGI


L’allarme lo ha lanciato lo scrittore Olivier Todd, il suo migliore biografo: «Attenti a non trasformarlo in una icona disincarnata. Bisogna conservare Camus vivo nella sua complessità e nelle sue contraddizioni. Camus non era né esemplare né edificante. È uno che ci consente di riflettere». Sopravviverà dunque questo «Giusto», che può essere guardato al microscopio e non come molti eroi al telescopio, al suo inevitabile, mortifero anniversario? Mezzo secolo da quel 4 gennaio 1960 in cui morì in un incidente d’auto, da folgorante James Dean della letteratura.

Strano: il consenso è universale, oceanico, eppure sibilano le polemiche. I pretoriani dell’Eliseo lanciano la grande manovra per «panteonizzarlo»: perché il presidente Sarkozy, cinico assimilatore di epoche, uomini e Storie a suo uso e consumo, lo vuole a tutti i costi marmorizzare nelle tombe dei padri della patria. Ma un figlio resiste, l’operazione slitta, per ora si insabbia. In tv l’altra lama della tenaglia: gocciola infatti il Camus intimo, sentimentale, sgonnellatore di femmine del film per Antenne2 girato da Laurent Jaoui. Del Camus giornalista resistente autore-attore prolifico della vita intellettuale del Dopoguerra, frutto spinoso cresciuto nella terra arida, stenta, dura d’Algeria nulla o quasi. Si depreca già l’ennesima vittima del biografismo contemporaneo che spiega tutto con l’intimo: errore segreti infedeltà. Ha dunque ragione Finkielkraut: «Camus è consacrato da un’epoca che gli volta la schiena. Il nostro tempo non ama che se stesso ed è se stesso che celebra quando crede di commemorare i grandi uomini».

Eppure l’antidoto è nascosto in quella frase del discorso per la consegna del Nobel: «Ogni generazione si crede votata a rifare il mondo. La mia sa con certezza che non lo rifarà. Ma il suo compito è forse più grande. Consiste nell’impedire che il mondo si disfi...». Ecco: come ammoniscono coloro che disdegnano i frettolosi e interessati turiferari da anniversario, in una epoca in cui proliferano le corse folli agli estremismi, in cui non bisogna abituarsi al Male, uno scrittore così a lungo messo ai margini appare essenziale. Che parlava di «rivoluzioni ma relative», di «politica modesta». Che scriveva, nel 1943, La lettera a un amico tedesco e chiedeva la grazia per Brasillach. Immaginiamo oggi, dopo l’undici settembre, se risuonasse sui giornali la sua risposta a uno studente arabo, nel 1957 poco dopo il Nobel, che gli rimproverava il silenzio sull’Algeria: «In questo momento ad Algeri si gettano bombe sui bus. Mia madre potrebbe trovarsi su uno di questi. Se questa è la giustizia, io preferisco mia madre».

La Francia ha molto da farsi perdonare da Camus, forse per questo vuole esibirlo nel gulag marmoreo del Pantheon. Ad esempio lo ha rinchiuso come un veliero dentro la bottiglia di una etichetta, «filosofo da liceali» (come se l’esserlo fosse una colpa). Jean-Jacques Brochier continua a ristampare il suo pamphlet e a scagliarsi, trovando ascolto, contro l’angelismo promosso troppo rapidamente a modello, a ripetere causticamente e ferocemente che «la differenza tra Camus e Nietzsche è che il secondo sapeva pensare». Già: scrittore perfetto per i dettati, filosofo discount, moralista della Croce Rossa. Nel turgore delle celebrazioni il veleno corre tuttora come un fiume carsico sotto gli omaggi. Basterebbe a confutarlo il parere di François Feito, lo storico di origine ungherese appena scomparso che aveva provato le ispide delizie delle Rivoluzioni: «Camus era tutto salvo che un democratico molle. Nel suo amore della libertà c’era qualcosa di virile, di muscoloso».

Il nocciolo è, sempre e ancora, nella guerra degli atridi della Rive Gauche: Sartre contro Camus. Chi in Situationes IV lasciò cadere, sadico: «Voi detestate la difficoltà di pensare e decretate alla svelta che non c’è nulla da capire per evitare in anticipo il rimprovero di non aver capito»? Oggi citare Sartre è complicato, troppi i regimi indifendibili patrocinati dal filosofo per cui «ogni anticomunista (compreso l’autore de La peste) era un cane». Ma galleggiano un gauchisme reducistico, i salotti rachitici orfani di maestri del pensiero e di anatemi che non l’hanno perdonata allo scrittore che rifiutava «di mettere tra la vita e l’uomo un volume del Capitale». In una delle ultime interviste Camus alla domanda «ma lei è ancora di sinistra?», rispose «sì, malgrado la sinistra e me stesso». Attuale, scandalosamente attuale, no?

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