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Autore Discussione: HENRY KISSINGER Usa-Nord Corea finito il tempo dei rinvii  (Letto 2185 volte)
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« inserito:: Dicembre 23, 2009, 03:04:02 pm »

23/12/2009

Usa-Nord Corea finito il tempo dei rinvii
   
HENRY KISSINGER


L’inviato speciale degli Stati Uniti per la Corea del Nord, Stephen Bosworth, ha avuto nei giorni scorsi a Pyongyang colloqui insolitamente buoni: il governo ha sostenuto «la necessità di riprendere i negoziati a sei» sul disarmo nucleare della penisola coreana. Con la pre-condizione che Stati Uniti e Corea del Nord «devono cooperare per ridurre le restanti divergenze», prima di raggiungere il tavolo a sei, dal quale Pyongyang si era alzata un anno fa, rinnegando tutti gli impegni assunti. In altre parole, Pyongyang vuole negoziati separati con gli Stati Uniti, tenendo gli altri fuori dal processo diplomatico, almeno per un po’.

L’agenda della Corea del Nord collega la sua denuclearizzazione con il completamento di un trattato di pace coreano, un sistema di sicurezza per il Nord-Est asiatico, la normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti e l’abolizione di qualunque minaccia, da qualunque fonte. Questa non è un’agenda che si presti a una soluzione rapida. Il negoziato sul trattato di pace, ad esempio, aprirebbe una controversia sulla presenza di forze Usa nella Corea del Sud. L’approccio della Corea del Nord sembra ideato per guadagnare tempo e dividere gli altri cinque negoziatori - cioè Corea del Sud, Usa, Cina, Giappone e Russia.

E’ tempo di guardare in faccia la realtà. Sono ormai quindici anni che l’America cerca di mettere fine al programma nucleare della Corea del Nord attraverso negoziati, condotti con tavoli a due e a sei. Il risultato è sempre stato lo stesso. Nel corso dei colloqui, Pyongyang ha messo due volte in naftalina i suoi impianti nucleari e due volte ha posto fine unilateralmente alla moratoria con una serie di test nucleari: esplosioni sotterranee nel 2006 e lancio di missili a lunga gittata nel 2009. Se questo modello di comportamento continua, la diplomazia diventerà un modo per legittimare la proliferazione atomica anziché fermarla. E il modello rischia di diffondersi ad altre regione, ad esempio all’Iran.

All’inizio dell’amministrazione Obama, Pyongyang rifiutò una visita di Bosworth e respinse un accenno di contatto diretto con il segretario di Stato. Solo dopo aver completato la sua ultima serie di test ha fatto un passo nella direzione dei negoziati, ma solo con gli Stati Uniti. Se non ci sarà una punizione esemplare, la situazione di stallo diventerà il meccanismo per riempire il tempo necessario a ulteriori progressi tecnologici. Perché Pyongyang dovrebbe cambiare la sua condotta se, a poche settimane dalla fine dei test nucleari, compare un rappresentante speciale dell’America per esplorare la prospettiva di nuovi negoziati? Come minimo, prima di iniziare qualunque colloquio formale, si dovrebbe chiedere alla Corea del Nord di riportare la situazione al punto di partenza, in particolare bloccando la produzione di plutonio.

Pyongyang sostiene che la sua sicurezza viene al primo posto, che la principale minaccia arriva dall’America e che pertanto deve ottenere assicurazioni speciali da Washington prima di iniziare qualunque trattativa. Ma quali garanzie bilaterali potrebbero rassicurarla? Solo un sistema di sicurezza del Nord Est asiatico potrebbe creare la cornice appropriata, ma questo richiede il tavolo a sei. Pyongyang d’altro canto non è così ingenua da pensare di poter raggiungere la sicurezza minacciando un attacco atomico sugli Stati Uniti. Più probabilmente cerca un riconoscimento come potenza nucleare, in modo da poter intimidire Corea del Sud e Giappone, che finora si sono astenute dal partecipare al processo di proliferazione. Può anche ottenere appoggio offrendo assistenza ai programmi altrui, come ha fatto con il Pakistan e la Siria. La Corea del Nord assomiglia a un pilota automatico che segue la sua rotta: persino mentre Bosworth era a Pyongyang ha spedito nel Sud dell’Asia un aeroplano carico di parti di missile, che è poi stato intercettato a Bangkok. Pyongyang, nei suoi momenti più euforici, potrebbe addirittura vedersi nella posizione di mettere Pechino contro Washington.

Pyongyang sa che ognuno degli altri partecipanti al tavolo a sei ha tutto l’interesse a portare la minaccia nucleare a una rapida conclusione, mentre il suo interesse è tenere i negoziati in stallo il più a lungo possibile. Questa è la ragione per cui i colloqui bilaterali con gli Stati Uniti minano l’unità del sestetto. La Corea del Sud si risentirebbe per colloqui di pace dai quali fosse esclusa, tanto più che rafforzerebbero il tentativo di Pyongyang di presentarsi come il vero campione del nazionalismo coreano. Il Giappone non delegherebbe le sue preoccupazioni per i suoi cittadini rapiti dalla Corea del Nord e costretti ad addestrare uomini dei servizi segreti.

La posizione della Cina è più complessa. Ha condannato i test nucleari di Pyongyang ma è più sensibile dei suoi partner al pericolo di destabilizzare la struttura politica della Corea del Nord. E bisogna rispettare il punto di vista cinese su una questione vicina ai suoi confini, che tocca direttamente i suoi interessi. Alla fine però un gesto che salvi la faccia di Pyongyang ha senso solo come rapida transizione al tavolo a sei.

Protrarre l’apertura dei negoziati comporta il rischio di farne un palliativo. Ma con i continui progressi tecnologici di Pyongyang, che dice di aver aggiunto un impianto per l’arricchimento dell’uranio, il tempo è fondamentale. L’elenco delle cose da fare per la reciproca sicurezza e le rassicurazioni economiche è ben delineato e gli Stati Uniti dovrebbero darvi il loro contributo, a meno di non accettare di essere considerati una minaccia speciale. Alla fine il maggior rischio per Pyongyang non è un attacco straniero ma un collasso interno causato dalle sue ambizioni eccessive. Non occorre nessun esame preliminare delle intenzioni di Pyongyang, quando esiste un tavolo a sei dove possono essere esposte. Il famoso detto di Napoleone è quanto mai appropriato: «Se vuoi prendere Vienna, prendila».

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