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Autore Discussione: BRUNO TINTI  (Letto 3085 volte)
Admin
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« inserito:: Maggio 03, 2009, 11:55:39 am »

3/5/2009
 
Dei pentiti non si può fare a meno
 

BRUNO TINTI
 
Stefano Bommarito è stato affidato in prova ai servizi sociali; lo ha deciso il Tribunale di sorveglianza di Palermo. Era il carceriere del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un mafioso, Mario, che aveva deciso di collaborare con la giustizia nelle indagini sulla strage di Capaci. Per intimidirlo il boss Giuseppe Brusca gli fece rapire il figlio e poi dette ordine che venisse ucciso e che il corpo fosse sciolto nell’acido. Così avvenne. Oggi Bommarito, condannato a 22 anni di prigione per la partecipazione a questi delitti, è - di fatto - libero. Naturalmente c’è un motivo per cui gode di un simile trattamento: è un collaboratore di giustizia, si è «pentito» e ha fornito informazioni sufficienti a far catturare e condannare i suoi complici.

Sono pochi i cittadini che condividono queste scelte di politica criminale; certamente nessuno dei famigliari delle vittime. Tutti pensano che è assurdo credere al «pentimento», che questi feroci assassini sono spinti semplicemente dalla convenienza o dalla paura: vendono i propri ex compagni e complici per ottenere importanti sconti di pena; oppure si rifugiano nei programmi di protezione previsti per chi collabora solo perché coinvolti in qualche faida criminale. E venire a patti con gente come questa, addirittura assicurargli sopravvivenza e benessere, è una sconfitta per lo Stato e un’offesa per le vittime.

Per la verità, è difficile non sentirsi in sintonia con queste posizioni. Eppure c’è un altro lato della medaglia.

Se una banda di malviventi
Possiamo cominciare dal nostro codice penale: gli articoli 56 e 62 numero 6. Se una banda di malviventi irrompe in una villa per sequestrare il figlio di un ricco imprenditore ma, prima che lo portino via, uno di loro mette in salvo il bambino, facendo così fallire il rapimento, la pena che gli verrà inflitta sarà la metà di quella dei suoi complici. Se invece il rapimento si conclude con successo ma poi uno dei banditi va dai carabinieri e li conduce dove il bambino è tenuto prigioniero, la pena per lui sarà considerevolmente minore.

Su queste norme nessuno ha mai trovato niente da ridire: il bambino è stato salvato, è questo l’importante. Detta in termini più generici, si è impedito che il reato si realizzasse; oppure si è riparato al mal fatto. E a chi ha reso possibile tutto questo è giusto che sia riconosciuto uno sconto di pena.

Ecco, dovremmo riuscire a capire che i collaboratori di giustizia permettono di impedire che siano commessi altri reati. Certo, i delitti cui hanno partecipato ormai sono stati commessi, non si può fare più niente; ma si può evitare che se ne commettano ancora. Certo, il piccolo Giuseppe è stato ucciso, e in modo orribile; ma quante altre persone Brusca avrebbe fatto uccidere? Certo, l’associazione mafiosa di cui il collaboratore faceva parte ha terrorizzato e sfruttato migliaia di persone; ma, se viene finalmente smantellata, quanti potranno vivere in modo prospero e sereno?

Naturalmente, bisogna vigilare
Mi rendo conto che, soprattutto per le parti offese degli orribili reati abitualmente commessi da mafiosi e terroristi, questa prospettiva non è così facilmente percepibile. E poi le motivazioni che spingono i cosiddetti «pentiti» sono in realtà quasi sempre ignobili; e dunque «concludere affari» con loro è abbastanza ripugnante. Però… Gli americani usano spesso una frase molto istruttiva: «non esistono pasti gratis». Dobbiamo renderci conto che l’alternativa è tra una feroce delinquenza destinata a restare sostanzialmente impunita e un patto scellerato con gente a cui ci ripugnerebbe stringere la mano. Sarebbe bello poterne fare a meno; ma non è possibile.

Però, naturalmente, bisogna vigilare: i «pentiti» sono spesso merce taroccata e il loro contributo si deve valutare con molta cautela. L’ultima legge in materia (45 del 2001) ha in effetti previsto accorgimenti importanti: l’obbligo del sequestro dei beni del collaboratore, che non deve, oltre allo sconto di pena e al programma di protezione, essere anche autorizzato a godersi il suo bottino di delinquente; e l’impossibilità per gli avvocati di difendere più di un collaboratore nello stesso procedimento, il che dovrebbe impedire che più «pentiti» si accordino per sostenersi a vicenda, magari inventando false accuse avvalorate da reciproche conferme.

Un’eco della riluttanza a servirsi di questo strumento è però rimasta: la legge limita la collaborazione «premiata» ai delitti di mafia e terrorismo. Ma, una volta deciso che, turandoci il naso, possiamo adottare queste tecniche, perché rinunciare a servircene per altri gravi reati: il sequestro di persona, il traffico di droga, l’omicidio, l’associazione a delinquere, magari finalizzata a reati di corruzione o di frode fiscale? Sarà, come al solito, che poi la giustizia si scoprirebbe troppo efficiente?

da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 27, 2009, 10:11:18 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 27, 2009, 10:11:47 am »

27/5/2009
 
La roulette dei magistrati
 

BRUNO TINTI
 
I magistrati che compongono il Consiglio superiore della magistratura saranno estratti a sorte. Lo propone il sottosegretario Caliendo: si debbono sorteggiare 100 magistrati; tra questi se ne eleggeranno 16. Così s’impedirà alle correnti di impadronirsi del Csm. Si tratta dell’ennesimo tentativo di controllare i giudici? O è una proposta seria? Dice la Costituzione (art. 105) che al Csm competono assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari. Perché i magistrati sono (art. 104) autonomi e indipendenti «da ogni altro potere»; e, per garantire questa indipendenza, essi sono inamovibili (art. 107): solo il Csm può rimuoverli, sospenderli, trasferirli (per ragioni disciplinari o di carriera). E siccome il Csm è composto per due terzi da magistrati, l’altro terzo è di nomina politica, l’indipendenza della magistratura è stata assicurata.

C’è un problema: il sindacato dei giudici (Anm) è diviso in «correnti». Sono 4: Magistratura Democratica, Magistratura Indipendente, Movimento, Unità per la Costituzione. Associazioni nate per affinità culturali, per la verità più apparenti che reali: tutte concordi sulla necessità di difendere l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, spesso in polemica su questioni marginali. Il loro sostanziale accordo è provato dal fatto che, nelle periodiche elezioni per gli organi direttivi dell’Anm, ogni corrente fa propaganda per sé, in polemica con le altre. Poi però si mettono d’accordo per mandarci componenti in numero eguale per ognuna. Un po’ come se Berlusconi, vinte le elezioni, chiamasse al governo ministri provenienti da ogni partito e in numero paritario. C’è di peggio: ogni 4 o 5 anni ci sono le elezioni del Csm e riparte la lotta fra le correnti: ognuna forma proprie liste con un numero di candidati pari ai posti disponibili. L’esito dipende dalla forza delle correnti: quella che conta più aderenti riesce a farne eleggere 6 o 7, le altre si spartiscono i residui 9, 10 posti. Un giudice che non appartiene a nessuna corrente si scorda di essere eletto: anche se tutti quelli che lavorano con lui e lo stimano (in un grande Tribunale, 200 o 300 persone) volessero votarlo, la più piccola delle correnti riuscirebbe sempre a totalizzare, per il suo candidato, un numero di voti superiore. I magistrati che vanno al Csm appartengono tutti a qualche corrente. Ma non basta: come scelgono, le correnti, i magistrati da mandare al Csm? In genere ci vanno il segretario regionale, quello nazionale, quello che ha fatto parte della Giunta, quello che si è dato da fare nelle precedenti elezioni, insomma gli attivisti, quelli che contano nella corrente o gli amici di quelli che contano. Non ci sono elezioni primarie, non ci sono consultazioni (se non formali): è una designazione. Proprio come in Parlamento. Quali le conseguenze di questo sistema? Due, drammatiche per la credibilità della magistratura. La prima: si creano carriere privilegiate.

I «correntisti» passano da un incarico all’altro: incarichi di vertice nell’Anm, Csm, organismi internazionali, alla peggio posti in sedi comode e ambite. La seconda: a ogni nomina di capi di ufficio le correnti si scatenano. Far nominare il proprio aderente è imperativo: si tratta di dimostrare la propria forza in modo da indurre tanti altri magistrati ad arruolarsi. Si crea così un circolo perverso: i magistrati aderiscono alla corrente sperando in un appoggio nei momenti chiave della loro carriera (anche in quelli disciplinari); ed essa si fortifica quanto più dimostra di appoggiarli con successo.

Così, quasi sempre, l’effettiva capacità professionale dei magistrati è valutata certamente quando nessun aspirante è «correntizio»; o quando il «correntizio» è di capacità professionale indiscussa. Negli altri casi la logica «correntizia» in genere prevale. La prova sta negli annullamenti delle decisioni del Csm fatti dal Tar. Perché è ovvio che nomine fondate su logiche «correntizie» difficilmente possono rispettare i criteri imposti dalla legge; e il Tar ha detto che in alcuni casi il Csm ha violato la legge. Adesso il sorteggio. Non è il massimo, ci sono anche profili costituzionali da salvaguardare (i magistrati del Csm vanno «eletti»). Però si deve pur arginare la deriva provocata dalle correnti, spezzare questo vincolo perverso che orienta le decisioni del Csm in modo clientelare. E poi il sorteggio non è così irragionevole come i «correntizi» lo dipingono. Ogni giudice, ogni giorno, prende decisioni importanti, spesso vitali: infligge ergastoli, affida i bambini a questo o a quel coniuge, stabilisce se un’azienda deve o non deve fallire. E vi sembra che quello stesso giudice, se sorteggiato per il Csm, non possa decidere chi deve fare il presidente del Tribunale di Roncofritto o il procuratore della Repubblica di Poggio Belsito?
 
da lastampa.it
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