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Autore Discussione: Indro Montanelli. I Diari  (Letto 2402 volte)
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« inserito:: Marzo 29, 2009, 11:31:23 am »

Dai diari di Montanelli

In quei salotti si brinda al mio attentato

Esce mercoledì da Rizzoli «I conti con me stesso»: aneddoti, appunti, riflessioni private. I testi, inediti, sono stati trascritti da 12 quaderni conservati all'università di Pavia


di Indro Montanelli

I conti con me stesso (raccolti per la prima volta in un volume in uscita mercoledì da Rizzoli) sono un'occasione unica, nel centenario della nascita, di ritrovare il Montanelli privato. I brani provengono da dodici quaderni custoditi presso il Fondo manoscritti dell'Università di Pavia e sono appunti, riflessioni personali e aneddoti che coprono vent'anni della storia d'Italia da «furori nazionalisti» di Saragat al delitto Moro, passando attraverso l'attentato del '77 di cui fu vittima. «La notizia che in fondo mi fa più piacere — scrive in una pagina del 4 giugno 1977 — è che in due salotti milanesi, quello di Inge Feltrinelli e quello di Gae Aulenti— si è brindato all'attentato contro di me e deplorato solo il fatto che me la sia cavata». Non mancano giudizi sferzanti su Moravia, Bocca e altri intellettuali.

Gennaio 1958.
Bacchelli lavora infaticabilmente, da sessant'anni, alla costruzione di un piedestallo su cui, alla sua morte, non sapremo cosa posare. Roma, 26 settembre 1966. Castiello mi dice che Saragat è in preda a una crisi di furore nazionalista contro i terroristi dell'Alto Adige. Voleva chiamare il capo della polizia, Vicari, per ordinargli di spedire a Innsbruck dei sicari per uccidere i mandanti. «Una democrazia che si rispetti» ha urlato, «è tenuta ad astenersi dal delitto, ma solo dentro le proprie frontiere. Al di là di esse…».

Roma, 1˚ ottobre 1966.
Alla sera, mi fanno assistere a una proiezione privata de La battaglia di Algeri di Pontecorvo. A Venezia lo hanno definito, all'unanimità, un grande film e gli hanno dato il Leon d'oro. È invece solo un grande documentario e non meritava nulla. Siamo stufi di questa roba. Non —– come dice qualcuno — perché questi lavori c'impongono «una scelta morale» o ci ricordano corresponsabilità che vorremmo dimenticare. E nemmeno perché siamo nauseati dalle scene di violenza e di sangue. Quello di cui siamo stufi è, molto più semplicemente, il ricatto a cui ci sottopongono. Bella forza fare un film sui campi di concentramento nazisti e sulla rivolta di Algeria. Chi oserà dar torto a un regista che parteggia per i perseguitati?

5 ottobre 1966.
In tv, per un dibattito sulla Battaglia di Algeri, con l'autore Pontecorvo e il critico Liverani. «È un bellissimo film» dichiaro, «che merita pienamente il Leon d'Oro per il suo impegno, il suo rigore eccetera». Anch'io riservo il mio coraggio a questo Diario.
 
Roma, 12 dicembre 1966.
Grande cocktail alla nuova sede Rizzoli in via Veneto per la presentazione del nostro libro e di quello di Berto. Inestricabile pigia-pigia. Ci sono ministri, giornalisti, letterati. C'è anche Maria Bellonci che spia l'occasione di farmi i rallegramenti. Sono vent'anni che non ci salutiamo. Mi aveva tolto il saluto nel '48 quando, in una cronaca da Venezia sul Pen-Club di cui era presidentessa, scrissi che la chiamavano l'aigle à deux têtes (per via dei suoi dirompenti seni di gomma). Suo marito Goffredo sfidò a duello il mio direttore Emanuel, che gli rispose: «Non mi rompa i bellonci!». Non ci eravamo più incontrati. E ora, nel vederla così ansiosa di un ravvicinamento, mi sento in imbarazzo. Alla fine vado io a salutarla. Ma subito scappo, dandole forse l'impressione che ho dei rimorsi. Invece non li ho.

Castiglioncello, 10 luglio 1969.
Lettera di Prezzolini che mi ringrazia perché l'ho citato in due articoli. Dice: «Ti sono grato di queste continue testimonianze di affetto e di simpatia…». Non è vero. Preferirebbe che non parlassi affatto di lui, o che ne parlassi male, per poter pensare che anch'io l'ho dimenticato o tradito, che non c'è nessuno, proprio nessuno, che gli sia rimasto amico. Non gli darò questa soddisfazione. Voglio che muoia almeno con un piccolissimo dubbio sulla ingratitudine degli uomini, su cui per tutta la vita ha fatto così comodo assegnamento.

Castiglioncello, 30 luglio 1969.
Dino Frescobaldi mi telefona dalla Maremma. È stato a Roma e ha visto Indrio che gli ha raccontato il burrascoso incontro di Spadolini con Saragat. Saragat era furibondo col Corriere e particolarmente con me per le critiche che abbiamo mosso alla scissione socialista: è la riprova che lui l'ha voluta. Spadolini, a quanto pare, gli ha tenuto testa bravamente. Speriamo che insista. Questo Saragat, che anche noi per la nostra parte abbiamo contribuito a mandare al Quirinale, è ormai da buttar via. Il credito che si era guadagnato nel '47, se l'è abbondantemente mangiato in questi quattro anni di Presidenza: prima col «disimpegno», ora con la scissione. Non vede che se stesso, non ascolta nessuno, si parla addosso. Missiroli l'aveva previsto.

Milano, 15 novembre 1969.
A cena con l'adorabile Valiani. Non so come fare a liberarlo dall'imbarazzo che nutre nei miei confronti. Nel '43, quando ero chiuso a San Vittore con una condanna a morte sulla testa, mia madre, che cercava disperatamente di salvarmi, chiese aiuto al Cln, di cui Valiani era autorevole esponente. Il Cln le fece rispondere che la mia sorte non gl'interessava. Questa replica era farina del sacco di Parri, non di Valiani. Ma Valiani se ne sente corresponsabile. Ebreo, istriano e reduce da un lunghissimo esilio, a quei tempi credeva che gl'italiani si dividessero davvero nei buoni antifascisti e nei cattivi fascisti; e io, secondo lui, appartenevo alla seconda categoria, quella da eliminare o da lasciare eliminare. Ora, deluso della Resistenza e dei suoi uomini, si è accorto dell'errore e non sa come ripararlo. Bisognerà che mi decida a sgomberare i nostri rapporti da questo sottinteso per renderli più naturali e sinceri. Tengo troppo all'amicizia di Valiani. È una delle più belle coscienze che ho incontrato. Mi ha detto: «Non ho nessun trasporto per il Corriere. Se Albertini in persona mi avesse offerto di collaborarvi, avrei rifiutato. Ma, visto che me l'offrite tu e Spadolini, accetto». E questo mi ha fatto molto piacere. Milano, 19 novembre 1969. Sciopero generale per il caro- case. Un pretesto da nulla. Ma è bastato per immergere Milano in un'atmosfera da 8 settembre. Strade vuote. Saracinesche abbassate. Enorme spiegamento di polizia. Mentre pranzo con Spadolini, Cervi e Zappulli, giunge notizia che in un tafferuglio al Lirico un agente è stato ucciso dai «cinesi». «Meno male che è toccata a un agente» diciamo in coro, eppoi non osiamo guardarci negli occhi. Anche noi apparteniamo a questa borghesia codarda che pretende appaltare alle forze dell'ordine il compito di farsi sputacchiare, pestare e ammazzare per tenerne al riparo se stessa. E non vuole nemmeno pagargli uno stipendio decente.

Milano, 25 novembre 1969.
Solo ora mi mostrano l'articolo che Bocca mi ha dedicato sul Giorno. Gli avevo mandato la mia Italia del Seicento con una dedica affettuosa in cui lo chiamavo «ami-nemico». Lui ne informa i lettori, ma mi risponde da nemico dichiarato, con una stroncatura sgarbata. Non vorrei cadere in peccato di presunzione. Ma credo che sia stato per differenziarsi da me, per non diventare una mia copia, che si è costruito un personaggio antitetico al mio: eternamente impegnato, intransigente, accigliato, e costretto a una perpetua polemica con tutto ciò che io rappresento. Ma anche lui ne capisce l'artificiosità ed evita il contatto con me perché teme che lo costringa a prenderne atto. Se potesse, mi sopprimerebbe. Eppure, sono io a sentirmi colpevole verso di lui che, senza di me, sarebbe diventato un grande, un grandissimo giornalista, e non soltanto un inquisitore, molto spesso sbagliato.

Roma, 15 dicembre 1969
A Roma, trovo una lettera del capo della polizia, Vicari, che mi ringrazia calorosamente per un 
Montanelli (Emblema)
articolo da me scritto in favore delle forze dell'ordine. Ne approfitto per telefonargli e chiedergli informazioni sulle indagini in corso per l'attentato di Milano. Mi annunzia che proprio in quel momento, dal confronto fra un tassista e uno dei fermati, si è raggiunta la quasi assoluta certezza sulla identità del dinamitardo. Mi prega di non farne parola al giornale. Poi mi confida anche che l'ambiente in cui il delitto è maturato è quello che ruota intorno all'editore Feltrinelli. Non resisto alla tentazione d'informarne subito Spadolini perché, pur senza anticipare la notizia, se ne serva di orientamento per la cronaca. Giubilante, Spadolini ne coglie a volo le implicazioni politiche: «Se la cosa è confermata, sarà una brutta botta per i contestatori e una bella spinta alla ricostituzione di un governo organico. Se Dio guardi l'assassino era di destra, nello spazio di pochi giorni avevamo il fronte popolare…». È vero. Ma io penso a Feltrinelli. L'ho conosciuto bambino, mi è un po' cresciuto sulle ginocchia. Non ho mai capito come abbia potuto diventare un editore importante.

Roma, 28 dicembre 1969.
Moravia ha fondato, insieme a Pasolini e a Dacia Maraini, un «comitato contro la repressione». E la riprova che la repressione non c'è. Se ci fosse, Moravia sarebbe coi repressori, come ha dimostrato avallando col suo silenzio la persecuzione di Solzhenitsyn in Russia.

Roma, 2 gennaio 1970.
Moravia si è ritirato dal comitato che lui stesso aveva fondato. Ma non per i silenzi di Spadolini. Si è ritirato perché l'Unità ha disapprovato. Gl'italiani sono sempre pronti a fare la rivoluzione, purché i carabinieri siano d'accordo. E Moravia è sempre pronto a battersi per la libertà purché sia d'accordo il piccì.

Venezia, 31 marzo 1971.
A cena dai Manera, con Pound. Non ho mai capito le sue poesie, ma ora capisco che è un grande poeta, sebbene abbia aperto bocca solo tre volte, per pronunciare parole insignificanti. Ci voleva proprio un Piovene per irridere quest'uomo, quando andò a visitarlo nell'ospedale di pazzi in cui i suoi compatrioti lo avevano rinchiuso. Piovene non saprà mai quali tormenti di coscienza mi costa l'affetto per lui.

Cortina, 26 agosto 1971.
Mezzo Corriere è passato di qui, in questi giorni. Ci sono stati Grazzini, Pieroni, Giovannino Russo, Bettiza. E tutti hanno voluto vedermi e fare lunghe passeggiate con me. Tanto affetto da parte dei colleghi mi ha commosso. Ma Mecco-li, in arrivo da Venezia, mi ha disingannato. I colleghi erano convinti che io stessi per non esserlo più, in quanto nuovo direttore del giornale. Tutti danno per sicuro che, mentre Spadolini era in crociera sull'Adriatico, io lo defenestravo e occupavo la sua poltrona. La voce è che ho già firmato, e Buzzati me lo conferma «ma» aggiunge, «io non credo che tu sia capace di una simile porcheria». «Tu non ci credi» dico, «perché al mio posto non la commetteresti. Gli altri ci credono perché al mio posto la commetterebbero». E in sua presenza chiamo Spadolini per informarlo. Casca dalle nuvole. Lui e io — il direttore uscente e il direttore entrante — eravamo gli unici che non sapevano nulla di questo cambio della guardia. Ma da dove sarà nata questa chiacchiera?

Milano, 15 settembre 1971.
Uscendo dalla Bice, vedo a un tavolo Spadolini, Leonardi, Mario e Giulia Maria Crespi, reduci dal settimanale rapporto sul Corriere. Vado a salutarli. «Come osi» dico a Spadolini, «occupare abusivamente il posto che ormai è mio?» Tutti ridono (anche ai tavoli intorno), meno Giulia Maria. Deve avere, per queste assurde voci, qualcosa sulla coscienza. 28 gennaio 1972. Buzzati si è spento, oggi, alle 16.30. In questi ultimi giorni si era incarnato nella Morte, come la immaginava e tante volte l'ha disegnata e dipinta. Non avevo mai vista una Morte più Morte di quella. Fino a ieri sera era lucidissimo. Ha voluto che gli dessi le ultime notizie sul processo. Ogni tanto, stanco, chiudeva gli occhi, e io mi chetavo. Ma poi li riapriva, e mi chiedeva di riprendere il racconto. Non voleva pensare. Stamani, quando son tornato alle dieci, non mi ha riconosciuto. Afeltra non ce l'ha fatta a restargli accanto sino in fondo: girava per il corridoio, anche lui senza riconoscere nessuno. Io, non so per quale motivo — il fascino dell'orrore, credo, contagiatomi da lui — sono rimasto ai piedi del suo letto, e l'ho visto spengersi come una candela. Poi sono fuggito. Ha lasciato un testamento di dieci righe. In fondo c'era scritto: «Niente partecipazioni. Cremazione». Ora devo dimenticarmi di lui, scacciarlo dal pensiero e dagli occhi. Ma come, come?

Milano, 8 marzo 1972.
La mia intervista sull'Espresso ha deflagrato come una bomba. Spadolini è furente per l'articolo che la precede, scritto dalla Serini che ricostruisce gli avvenimenti. Lui non ci fa una bella figura, ma purtroppo il resoconto è esatto. Ronchey mi telefona: «Ti aspettiamo alla Stampa: il contratto è pronto, non hai che da firmarlo». «Prima» dico, «devo perdere la mia battaglia.» «Questione di qualche mese» fa lui. Temo che sia proprio così.

Roma, 10 aprile 1972.
Clerici, Sciascia e Laurenzi a cena da me. Immoto e inespressivo, Sciascia parla alla velocità di una parola all'ora, e bisogna sollecitarlo con sguardi interrogativi e lasciargli un ampio spazio di silenzio per indurlo a pronunciarla. Laurenzi mi trae in disparte per manifestarmi il suo sgomento che tocca punte patologiche. Mi supplica di non trasferirmi alla Stampa lasciando lui e gli altri nelle peste. Glielo prometto, con la ferma intenzione di mantenere. «Vado a Milano» gli ho detto, «per mettere le carte in tavola e costringere Ottone a fare altrettanto. Se mi accorgo che si può raddrizzare la barca, cercheremo di farlo. Se vedo che è impossibile, tratterò con Afeltra per un trasloco di tutto il nostro gruppo (io, te, Bettiza, Pieroni, Sensini, Melani, forse Corradi, Spinosa eccetera) al Giorno e, se non va, cercherò di persuadere Rizzoli a trasformare in quotidiano il Mondo per occupare il vuoto che il Corriere sta lasciando ».

Lussemburgo, 23 maggio 1977.
Volo a Lussemburgo sul solito bireattore di Berlusconi, che ci accompagna, felice di esibirsi e di esibire il suo status in una cerimonia internazionale. La medaglia d'oro (ma è proprio d'oro?) me la consegna Gaston Thorn, capo del governo lussemburghese e presidente del movimento europeo. Bettiza, che mi ha procurato il premio e nella sua qualità di parlamentare europeo mi fa da padrino, cerca di attribuire alla cosa molta solennità. In realtà mi sembra un evento piuttosto modesto. (...) Berlusconi riempie il suo taccuino d'indirizzi: quelli di tutte le personalità che ha incontrato. È il vero climber che approfitta di tutto e non butta via nulla.

 Milano, 3 giugno 1977.
Anche l'Unità esce con un titolo a sette colonne in cui campeggia il mio nome. Lo stesso fa Repubblica, ma con un articolo di Scalfari ancora più infelice di quello che scrisse dopo Bontà loro per chiedere la mia esclusione dalla tv nazionale. Sostiene la strana tesi che l'attentato è stato organizzato contro i nemici di Montanelli, cioè contro di lui, insinuando così il sospetto che me lo sia organizzato da me. Il mio successo lo riempie di un furore che lo fa sragionare. Ma la cappella più grossa la fa il Corriere che titola su cinque colonne sul centro pagina: «Attentati contro giornalisti », mettendo il mio nome solo nel sommario. Biazzi ha il sangue agli occhi. Bettiza mi chiede di rispondere, nell'editoriale di domani, sia a Scalfari che a Ottone. Glielo concedo, ma a patto che mi mostri prima il testo: durezza sì, meschinerie no.

Milano, 4 giugno 1977.
Le ferite vanno bene anche perché non ho il tempo di pensarci: è tutto un viavai di amici, nemici, conoscenti, sconosciuti: mi sembra di essere la Madonna di Loreto. Viene anche la televisione, e io mi lascio intervistare minimizzando l'accaduto (mi dicono che Cervi, che lo ha commentato l'altro ieri sera da Montecarlo, ha commosso tutti con la propria commozione). Mi telefona Andreotti, poi Cossiga, poi Forlani, poi Gianni Agnelli. A tutti rispondo scherzando, che non mi prendano per un piagnone. Dal giornale mi mandano tre sacchi di telegrammi: ne hanno contati quindicimila. Ma la notizia che in fondo mi fa più piacere è che in due salotti milanesi — quello di Inge Feltrinelli e quello di Gae Aulenti — si è brindato all'attentato contro di me e deplorato solo il fatto che me la sia cavata. Ciò dimostra che, anche se non sempre scelgo bene i miei amici, scelgo benissimo i miei nemici.

Parigi, 11 settembre 1977.
A cena con Fejtö e gli Ionesco, ospiti tutti di Maramotti da Lipp. Ionesco non vuole saperne dei nouveaux philosophes. Invano Fejtö e io cerchiamo di spiegargli che sono degl'imbecilli che però fanno comodo. «Rivendico» dice Ionesco, «il diritto all'indignazione: l'indignazione perché credono di scoprire ciò che noi andiamo dicendo da cinquanta anni». Sta scrivendo una nuova pièce, o meglio la sta dettando alla segretaria dalle dieci alle dodici. «Non so più scrivere» dice, «la mano si rifiuta.» Il tutto, intercalato da litigi con la moglie che cerca invano d'impedirgli di bere. Più tardi, Fejtö mi dice che Ionesco è in crisi con la figlia perché è convinto che essa non gli voglia più bene: lo desume dal fatto che, un giorno rincasata prima del tempo, lo ha sorpreso che faceva l'amore con la segretaria, ed è corsa dalla madre a raccontarglielo. «Non ha cuore» dice amareggiato, «mi detesta».

Milano, 16 novembre 1977.
Quattro revolverate in faccia a Casalegno, che ora è grave. Alzano la mira.

Milano, 18 novembre 1977.
La Stampa riporta tutti gli articoli di solidarietà per Casalegno apparsi sugli altri giornali. Ma omette il mio, ch'era forse il più caldo: la solidarietà nostra la imbarazza.

Milano, 29 novembre 1977.
Casalegno è morto. Ho telegrafato alla vedova, ma non al figlio — iscritto a Lotta continua —, né a Levi e ai colleghi della Stampa. Purtroppo, la loro faziosità condiziona la nostra solidarietà. Al funerale andrà Biazzi.

9 maggio 1978.
Il cadavere di Moro, lasciato su una macchina fra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, ci coglie di sorpresa. Siamo stati duri nei suoi confronti. La sua fine miseranda c'ispira un sentimento di pietà, ma fa sorgere altri pericoli contro cui occorre subito mettere in guardia: in nome del «martire», i suoi cercheranno di spingere avanti la sua «linea». (...) Ho avuto a Torino una franca spiegazione con Gianni e Umberto Agnelli. Per la prima volta Gianni ha parlato e mi ha lasciato parlare per un'ora dello stesso argomento, senza annoiarsi com'è solito. Ma vuole la rottura della Dc, mentre Umberto ne vuole la conquista. Romiti mi assicura che accetterà la proposta di Venini per il Giornale. Si comincia a respirare.

29 marzo 2009
da corriere.it
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