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Autore Discussione: GIAN ENRICO RUSCONI. Laicità, valore non negoziabile  (Letto 3105 volte)
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« inserito:: Aprile 03, 2008, 05:40:24 pm »

3/4/2008 (7:41) - IL «LAICO DELL'ANNO»

Laicità, valore non negoziabile
 
Chiesa ed etica pubblica: perché in Italia si accetta un’ingerenza che nel resto d’Europa è inopportuna

GIAN ENRICO RUSCONI


L’esibizione televisiva della cerimonia del battesimo del giornalista del Corriere della sera Magdi Allam è stato l’ultima prova della inconsistenza del lamento degli uomini di Chiesa che la religione sia esclusa dallo spazio pubblico e mediatico. Settimane or sono le dichiarazioni della Conferenza episcopale italiana, che contenevano una critica esplicita al sistema elettorale vigente, hanno incassato il consenso generale (pur con qualche malumore) sulla legittimità della gerarchia ecclesiastica di esprimersi senza restrizioni anche su temi politici. I due episodi hanno confermato che ciò che in qualunque paese europeo è ritenuto inopportuno, viene accettato come ovvio in Italia.

A questo punto, è giusto chiederci quali consegenze derivino per la laicità dello Stato italiano. Non a livello formale, di principio, ma nella concretezza della vita pubblica. La domanda è tanto più interessante in un momento in cui il dibattito pubblico su questo tema è sospeso per tacita intesa nel segno della tregua elettorale. Ma il problema è solo rimosso.

I rapporti tra Chiesa e Stato in Italia sono sempre stati considerati una peculiarità (se non una anomalia) imposta dalla singolare storia nazionale. Oggi si preferisce mimetizzarli in vesti nuove come espressione dell’«età post-secolare» che caratterizza l’intero Occidente.

Ma ha senso parlare di società post-secolare in Italia che secolarizzata o secolare (che nel linguaggio internazionale equivale al nostro «laico» ) non è mai stata davvero?

L’enfasi sull’identità cristiana degli italiani che compensa la caduta della loro pratica religiosa, la deferenza verso il magistero della Chiesa che si accompagna ad un generalizzato analfabetismo religioso, l’appello alla dottrina morale della Chiesa a copertura della sistematica trasgressione privata della morale sessuale e familiare zelantemente sostenuta in pubblico - tutti questi non sono indicatori di una nuova età post-secolare. Sono semplicemente segni dell’impoverimento dell’etica pubblica.

Qui si annidano gli equivoci della strategia della Chiesa che si offre come fornitrice di una autentica «etica pubblica» (o ethos comune) e presenta pubblicamente la sua come «la religione della famiglia», senza rendersi conto della incongruenza in cui cade. Gli uomini di Chiesa infatti da un lato hanno difficoltà a comunicare i fondamenti dogmatico-teologici della dottrina a credenti rimasti in grande maggioranza teologicamente minorenni. Dall’altro lato rivendicano per sé un ruolo civil-pedagogico su temi antropologici (famiglia, rapporti sessuali interpersonali ecc.) pretendendo di affrontarli con criteri puramente umano-razionali. Ma poi nel dibattito pubblico introducono come argomento discriminante «la non negoziabilità dei valori» che si giustifica soltanto con una (particolare) visione religiosa.

L’espressione «non negoziabilità dei valori», diventata ormai luogo comune, è estremamente ambigua. Nessuno contesta al cattolico o al credente di ogni fede la piena legittimità di comportarsi come tale pubblicamente e quindi di avanzare ragioni che danno rilevanza politica alle sue esigenze identitarie. Ma quando queste esigenze/pretese assumono pubblicamente la forma enfatica della «intrattabilità» nascono serie difficoltà per la democrazia. Infatti allora non si tratta più dell’utilizzo ottimale dello spazio pubblico e dell’accesso al discorso politico che mira alla deliberazione politica, bensì del boicottaggio del processo deliberativo.

Detto in altro modo: c’è il pericolo che le pretese/esigenze di riconoscimento identitario di un gruppo (fosse pure numericamente maggioritario) intacchino il principio della cittadinanza costituzionale, cedendo a tentazioni comunitariste cioè a forme di pressione o di ricatto politico in nome di esigenze di una particolare identità-di-comunità, (nel caso specifico l’identità di appartenenza all’istituzione-Chiesa).

Questa strategia mette pericolosamente sotto pressione la funzionalità della vita democratica. Quando i vescovi criticano la legge elettorale, lo fanno esplicitamente nel contesto del discorso sulla «intrattabilità dei valori» che essi intendono difendere. Sollevano così il sospetto che a loro non sta a cuore la vitalità della democrazia come tale, ma la riuscita elettorale di rappresentanti politici che sostengano senza alcuna esitazione la loro posizione.

Di fronte a questa situazione è bene ribadire che in democrazia «non negoziabili» sono soltanto i diritti fondamentali, tra i quali al primo posto c’è la pluralità dei convincimenti, pubblicamente argomentati. Al pluralismo dei convincimenti deve essere subordinato l’impulso di far valere i propri valori (per quanto soggettivamente legittimi) nei confronti degli altri cittadini.

Spesso si sente dire: perché dividerci aspramente su questioni (unioni di fatto, unioni omosessuali, fecondazione assistita) che interessano modeste minoranze di popolazione, mentre ci sono problemi assai più urgenti di rilevanza generale? La domanda sembra sensata ma nasconde a stento l’insofferenza verso minoranze considerate «devianti» o «disturbanti», contro le quali si fa valere un ethos comune, dettato di fatto da particolari motivi religiosi che diventano discriminatori.

Siamo così riportati al cuore della questione democratica che è tutt’uno con la questione laica. Nella vita pubblica democratica la discriminante fondamentale tra i cittadini non è tra chi crede e chi non crede (o è diversamente credente), ma tra chi riconosce e garantisce la pluralità delle visioni e degli stili morali di vita (come del resto recita in un linguaggio diverso l’art. 3 della Costituzione) e viceversa chi, dichiarando «intrattabili» i propri valori, mette in scena pubblicamente la propria pretesa di verità, si sente investito della missione di orientare in modo autoritativo l’ethos pubblico senza assumersi la responsabilità delle conseguenze che derivano alla qualità e funzionalità del sistema democratico.

Il primo atteggiamento (quello affermativo della «libertà al plurale») è laico, il secondo non lo è. Laica è la disponibilità a far funzionare in modo solidale le regole della convivenza partendo dal presupposto che la molteplicità delle «visioni della vita», delle «concezioni del bene» o della «natura umana» non è una disgrazia pubblica (il famigerato «relativismo») cui non ci si deve rassegnare, ma l’essenza stessa della vita democratica.

Di fronte a questa problematica i laici italiani hanno due compiti. Il primo è quello di sottolineare che la laicità non è semplicemente un’opzione privata ( un insieme di credenze omologo ad altri, magari una fede) ma è innanzitutto un criterio e un valore pubblico, che si costruisce sulle virtù personali del civismo e della disponibilità all’attenzione per tutti. Il secondo compito del laico è quello di ricostruire un discorso propositivo sui grandi temi della natura umana, della razionalità e della scienza. È una prospettiva impegnativa per contraddire la tesi che la laicità si ridurrebbe ad una costruzione di regole formali, senza contenuti vincolanti, che andrebbero cercati altrove, nella religione-di-chiesa, depositaria privilegiata di valori e contenuti di senso. È stupefacente che questa tesi sia condivisa - anche sulla grande stampa e nel sistema mediatico - da chi sino ad ieri si dichiarava laico. È il segno della necessità di inaugurare una nuova stagione della laicità.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 01, 2009, 08:40:33 am »

1/4/2009
 
Nel nome dei popoli italiani
 
 
GIAN ENRICO RUSCONI
 
È sorprendente l’effetto di seduzione che ha acquistato la parola «popolo» nella retorica berlusconiana. Da dove viene il fascino di questa antica parola che ha superato infinite stagioni politiche, dal lontano risorgimento liberale sino all’inno della sinistra comunista? È facile dire che essa trae la sua forza dall’idea del «noi», della «comunità». E più timidamente dalla «nazione». Ma più che una convinzione è l’attesa o la finzione di una unità più profonda rispetto alle differenze sociali e culturali visibili. Eppure oggi la parola «popolo» ha ripreso vigore, accentuando proprio queste differenze. Basti pensare all’espressione «popolo della Lega» che per prima è risuonata nell’arena italiana. Per sottolineare differenze etno-territoriali spinte talvolta sino alla minaccia secessionista.

Ma Berlusconi ha introdotto una novità. Quello che ha in testa infatti è il «popolo-degli-elettori». Il popolo è chi lo vota. Non è la nazione o la etnia (vera o inventata), ma un dato politico. Un elettorato che è ad un tempo socialmente destrutturato e politicamente polarizzato attorno al leader. Più la stratificazione sociale nasconde i suoi connotati di classe tradizionali - complessificandosi nella diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, nella pluralità degli stili di vita e di consumo, nell’autopercezione personale e sociale - più si crea la finzione del «popolo» che segue il leader. Non a caso, replicando all’invito di Dario Franceschini di non presentarsi alle urne europee, perché non potrà mai mettere piede a Strasburgo, Berlusconi risponde rivendicando il suo ruolo di guida ideale e simbolica (bandiera) del suo popolo. Che faccia lo stesso Franceschini con il «suo popolo», dice.

Allora non c’è un «popolo italiano» bensì molti popoli con i rispettivi leader? La confusione è grande, ma «il popolo delle libertà» non se ne cura. Anzi la suggestione della parola «popolo» copre l’equivoco. Chi non sta con «il popolo delle libertà» - questo è il messaggio non tanto nascosto - non è il vero popolo italiano. Intanto Berlusconi sogna il 51 per cento dei consensi elettorali. Se, per ipotesi irrealistica, li ottenesse, comincerebbero i suoi guai. Non già per opera di un’opposizione inchiodata all’impotenza. Ma proprio da parte del suo «popolo» che gli chiederà finalmente conto delle promesse fatte e continuamente rimandate, per colpa di altri. Allora le divisioni interne (soprattutto di quella parte cui eufemisticamente si dice che è «rimasta indietro») diventeranno palesi e drammatiche.

Il Cavaliere, stordito dal successo mediatico, non si rende conto che l’ampio consenso di cui già gode gli proviene da una società frammentata, destrutturata, decomposta. Una società che avanza le richieste più contraddittorie, che non sono gestibili con la retorica del «noi siamo il popolo». L’omogeneità degli interessi sociali è creata illusoriamente soltanto dall’immediatezza del rapporto tra leader ed elettori, che al momento è tutta assorbita nell’immediatezza mediatica. Il risveglio da questa illusione sarà amaro.

I politologi (almeno quelli che non sono alla corte di Berlusconi) conoscono molto bene il fenomeno che si sta verificando. Si chiama populismo democratico. Inesorabile, incontenibile, prevedibile. Nel frattempo, però, tutte le parole usate per definirlo, analizzarlo, denunciarlo si sono logorate. E non parlo delle accuse (sbagliate) di autoritarismo di stampo più o meno fascistoide. Più si ripetono queste accuse, più si consumano senza più alcuna capacità di incidenza. Torniamo all’ultimo sogno berlusconiano: il raggiungimento della maggioranza assoluta. Se il Cavaliere pensa di poter fare e disfare tutto con un ipotetico 51 per cento, fa un calcolo sbagliato. Ritiene forse di poter agire automaticamente contro il restante 49 per cento? Non ha mai sentito parlare della «dittatura della maggioranza» - un concetto per altro inventato dai liberali? La democrazia è un faticoso, tenace, leale governo delle differenze e dei conflitti, non la finzione e l’imposizione di una omogeneità degli interessi annunciata da un palco mediatico.
 
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