LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 08:38:36 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Peter Handke: pulizia etnica dolce contro i miei serbi  (Letto 2134 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Marzo 17, 2009, 03:47:36 pm »

Lo scrittore austriaco, un viaggio in Kosovo e i «falsi preconcetti»

Peter Handke: pulizia etnica dolce contro i miei serbi

Lo scrittore austriaco è tornato in Kosovo per denunciare piccole vessazioni continue

Dal nostro inviato  Isabella Bossi Fedrigotti


CHAVILLE (Parigi) — Più che la casa di uno scrittore sembra la casa di un mago, di un erborista. Computer non se ne vedono, macchine da scrivere nemmeno, libri sì, ma non tantissimi, però erbe e funghi, secchi e freschi, di svariati tipi, in ogni piatto, su ogni vassoio, in ogni stanza. Funghi noti e meno noti, porcini e chiodini ma anche certi viscidi tipi nerastri che di solito navigano nelle minestre cinesi. Il padrone dei luoghi, lo scrittore austriaco Peter Handke, da molti anni trapiantato in questo piccolo centro tra Parigi e Versailles, come tutti i veri cercatori di funghi ha i suoi posti segreti dove li raccoglie, nei prati e nei boschi intorno a Chaville, a volte anche nel giardino di casa. Li fa seccare, li cucina e ne mangia tutti i giorni, dice, con il riso, con le verdure o con il brodo. Devono fargli bene perché nei suoi anni maturi — è del 1942 — ha il fisico asciutto e vigoroso di un montanaro, niente a che vedere, per esempio, con un topo di biblioteca.
Sul tavolo, tra funghi, erbe, fiori e sementi, c'è anche il suo nuovissimo libro, appena arrivato dalla casa editrice, Die Kuckucke von Velika Hoca, «I cuculi di Velika Hoca» (Suhrkamp, pp. 99, e 15,80), resoconto di un viaggio compiuto un anno fa in una minuscola enclave serba nel Kosovo indipendente, con visite casa per casa, incontri, conversazioni. «Volevo scrivere un reportage da vero giornalista — paradossalmente, dice, visto che dei giornalisti diffida per principio — ma a un certo punto ho smesso di fare domande e scrivere risposte e il libro è diventato qualcos'altro, una testimonianza, una riflessione».


 
Peter Handke
Come tutti i suoi, il testo non è facilissimo da leggere, per il linguaggio ricco e complesso, per i numerosi collegamenti e riferimenti ad altri scritti, ad altre voci. In cambio l'eloquio è chiaro e facile, seppure esitante a volte, in cerca di massima precisione linguistica. Si era raccomandato, Handke, per una conversazione quieta, e insiste su questo punto. Ma a chi verrebbe in mente di alzare la voce, di questionare sopratono in questa silenziosa casa da alchimista eremita? Poi si capisce che è a se stesso che vorrebbe imporre la quiete, la misura, l'equilibrio, i toni bassi i quali, evidentemente, tendono a venirgli meno quando affronta i temi che da sempre gli fanno vedere rosso: le ingiustizie, le falsità, le prepotenze, le ipocrisie, le umiliazioni. Subito dopo, però, ironizza sulla sua foga che, sia pure quietamente, monta, e si giustifica chiamando in causa il suo sommo poeta: «Goethe diceva che senza passione non c'è poesia...».


Handke, si sa, è uno scrittore controverso che con voce decisamene isolata, dall'indomani del disfacimento jugoslavo, ha sempre difeso il diritto dei serbi contro i croati, contro i bosniaci, contro i kosovari, e per questo ha suscitato incomprensioni, antipatie, se non odi. «Non potevo e non posso sopportare i falsi preconcetti secondo i quali i criminali di guerra, gli aguzzini, i cecchini, i campi di concentramento erano sempre soltanto serbi, quando in realtà nessuno da nessuna parte si è risparmiato in torture, in ammazzamenti e pulizie etniche. Ma il coro degli inviati speciali era ed è sempre uniforme, come era ed è uniforme il coro dei politici stranieri in visita. A Velika Hoca, 80 chilometri a Sud di Pristina, un tempo ricco sobborgo circondato da meravigliosi vigneti oggi secchi e abbandonati, dove ho intenzione di tornare presto per contare quanti dei 700 abitanti che c'erano un anno fa ci sono ancora, ci si può fare un'idea di come è andata e di come ancora va: pulizia etnica dolce, cioè, con piccole vessazioni continue, soprattutto economiche, da parte delle autorità kosovare, che rendono troppo difficile la sopravvivenza alla minoranza serba. Gabelle di ogni sorta, niente acqua per irrigare le vigne ma nemmeno per fare una doccia, corriere scarse e strapiene sulle quali non si trova posto. Intorno, gli antichi conventi ortodossi distrutti, le chiese bombardate che nessuno si sogna di ricostruire. In cambio, nel vicino paese di etnia albanese, una moschea nuova fiammante con cupola dorata. Cittadini di seconda classe, sono, insomma, diventati i serbi».


Aggiunge, però, lo scrittore, che non di guerra di religione si tratta, bensì di nazionalismi, anche se non riesce a scandalizzarsi per il fatto che, quando ci si trova nell'angustia e nella miseria se non nella persecuzione, ci si rivolga, ci si aggrappi, anzi, con forza alla propria religione. Quanto ai nazionalismi, dice, ormai si sa che emergono furibondi ogni volta che il dio del commercio comincia a traballare un poco. «Guardi cosa sta succedendo nella nostra Europa: sono cadute le frontiere ufficiali e sempre più ne sorgono di non ufficiali, invisibili, all'interno di ciascun Paese addirittura».
C'è qualcosa che uno scrittore possa fare per impedire queste chiusure? «Uno scrittore? Figuriamoci. Gli scrittori hanno fallito in pieno. Tant'è vero che chiamarsi scrittori è ormai quasi un insulto; io almeno mi porto addosso con notevole disagio l'imbarazzante qualifica. Scriveva Bernanos: "Ho sei figli, ma non sono sicuro di essere un padre. Sono stato in guerra quattro anni, ma ciò non fa di me un soldato". In questo mi sento in perfetta sintonia con lui. Certo, scrivere è il mio mestiere, anzi, per la precisione, sono uno che ogni tanto scrive e ciò giustifica la mia esistenza: se non lo facessi, agli occhi dei miei concittadini potrei passare facilmente per un fannullone, per uno che è perennemente in vacanza».


Che fare allora? «Resistere, è ovvio, è indispensabile resistere, anche se probabilmente non serve a nulla. Comunque io sono uno che può solo resistere in solitudine, non sono tipo da scendere in strada e partecipare a manifestazioni di massa». E in verità questo lo si capisce anche senza leggere una sola delle sue pagine, soltanto osservando la sua silenziosa casa da eremita, a quanto sembra non troppo frequentata nemmeno dalla famiglia, moglie e figlia che per lo più preferiscono stare in centro a Parigi, dove lui le raggiunge: «Quando mi invitano, però», precisa ironico.
Poi Handke torna a parlare dei «suoi» serbi di Velika Hoca che nel marzo di quattro anni fa hanno dovuto subire ogni sorta di violenze da parte dei nuovi signori della regione; che quando si ammalano, devono viaggiare per chilometri, fino a Mitrovica, se non vogliono rischiare di farsi trattare con voluta malagrazia in un ospedale kosovaro; che si riuniscono — quelli che hanno il tempo per farlo e cioè i vecchi — per bere caffè, giocare a carte e chiacchierare dentro e intorno a un container sarcasticamente battezzato Rambouillet, dalla località francese nella quale si tennero i cosiddetti colloqui di pace riguardanti ciò che restava della Jugoslavia. Ma dice anche, insistendo con forza, che non si possono fare confronti, che questa non è l'Irlanda del Nord come non è la Palestina, che al massimo vi corrono delle vaghe somiglianze e che pretendere di stabilire dei paralleli banalizzerebbe la tragedia di Velika Hoca come pure le altre due. E infine parla dei cuculi, delle centinaia di cuculi che ha visto e sentito nelle campagne intorno, tanto che ha dovuto farli figurare nel titolo del libro: «Sembra che tutti i cuculi spariti dal resto d'Europa siano finiti là dove continuano a prosperare allegramente, deponendo le loro uova accanto a quelle di altri uccelli. A me paiono la metafora di ciò che avviene nella realtà, con tutti quegli uccellacci d'Europa che là si arricchiscono...».


Per l'Austria, dove Handke continua ad andare regolarmente, anche per indurre la figlia diciassettenne a esercitarsi un po' nel tedesco, prova sempre sentimenti misti: «Mi piace stare a sentire le vecchie storie, i bei racconti suggestivi che si possono ascoltare soltanto in patria. Poi però mi capita di trovare una vecchia scritta su un fienile che in 70 anni nessuno si è dato la pena di cancellare: "Ein Volk, ein Reich, ein Führer", e mi viene voglia di scappare ». Sono cose che lo scrittore non perdona, né serve tentare di consolarlo dicendogli che anche in Italia su qualche muro ancora sopravvive sbiadito un «Viva il Duce». «C'è un sinistro attaccamento ai cadaveri, in Austria, lo si è visto anche di recente, in Carinzia, dove un morto ha vinto le elezioni», e intende Haider naturalmente, il leader dell'ultradestra scomparso pochi mesi fa in un incidente, il cui partito ha trionfato alle recenti votazioni regionali. «...Anche se quel morto poi mi ha fatto pena per come l'hanno messo in piazza».
Proprio in Carinzia, la regione dove è nato, dovrà comunque tornare spesso nei prossimi tempi, perché ha in programma un libro sulla resistenza antinazista che vi si era sviluppata negli anni Trenta. «È il mio primo testo storico in assoluto, e dovrò fare molte ricerche». Per titolo ha scelto una frase del Macbeth pronunciata dal vecchio re: «Still storm», ancora tempesta. E dal tono con cui Handke lo dice, si capisce che è perfettamente in linea con Goethe, secondo il quale senza passione non ci può essere poesia.



17 marzo 2009

da corriere.it
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!