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Autore Discussione: BRUNO TINTI Resti in carcere il serial criminale  (Letto 4184 volte)
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« inserito:: Febbraio 16, 2009, 10:08:13 am »

16/2/2009
 
Chi rallenta la giustizia
 
BRUNO TINTI
 

Ogni tanto i politici italiani si avventurano in frasi destinate, nelle loro intenzioni, a restare nella Storia. Sarebbe meglio che, almeno, stessero zitti. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha svolto alla Camera la sua relazione annuale sull’amministrazione della giustizia; e ha detto: la crisi della giustizia «ha superato ogni limite di tollerabilità. Il più grande nemico della giustizia è la sua lentezza che coinvolge negativamente lo sviluppo del Paese». Poi è comparso lo «Schema di disegno di legge recante: Disposizioni in materia di procedimento penale» e tante altre sorprendenti novità. E io sono rimasto a chiedermi che ne è stato del problema della lentezza dei processi.

Non basta un volume per parlar male di questa riforma. E così, per il momento, parlo solo di una stupefacente novità. Il nostro dissennato codice di procedura penale qualche sprazzo di ragionevolezza lo conservava: secondo l’art. 238 bis, le sentenze emesse in un processo e divenute irrevocabili (significa che non si può più fare appello né ricorso per Cassazione) potevano essere acquisite in un altro processo e costituire elemento di prova, purché confermate da altri riscontri. La cosa si capisce meglio con un esempio. Processo a carico dell’avvocato inglese Mills per corruzione in atti giudiziari; come tutti sanno, nello stesso processo era imputato anche il presidente del Consiglio, come corruttore. Poi è arrivato il Lodo Alfano e la posizione di Berlusconi è stata stralciata (vuol dire che di un processo solo se ne sono fatti due; quello a carico di Mills è continuato e l’altro è stato sospeso). Ora entrambi gli imputati attendono il loro destino: Mills aspetta di sapere se sarà condannato, la sentenza è attesa a giorni. Berlusconi aspetta di sapere se la Corte Costituzionale deciderà che il Lodo Alfano è incostituzionale. Se il Lodo Alfano non superasse l’esame della Corte (il suo predecessore, il Lodo Schifani, l’ha già fallito), il processo a suo carico riprenderebbe e, qui è il punto, la sentenza nei confronti di Mills, quando definitiva, potrebbe essere acquisita e fare prova dei fatti in essa considerati. Se fosse una sentenza di condanna, essa costituirebbe prova del fatto che Berlusconi corruppe Mills; tanto più se, secondo l’ipotesi di accusa, i «piccioli», i soldi, fossero davvero arrivati da un conto nella sua disponibilità.

Guarda caso, l’articolo 4 della riforma destinata a risolvere il problema della lentezza dei processi dice: l’articolo 238 bis è sostituito; nei procedimenti relativi ai delitti di cui agli articoli 51, commi 3-bis e 3-quater, e 407, comma 2, lett. a), le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato. Sembra tutto uguale, vero? Invece no: adesso le sentenze emesse in un altro processo fanno prova solo nei processi per mafia, terrorismo, armi (da guerra) e stupefacenti; per tutti gli altri reati non se ne parla, carta straccia.

Recuperiamo l’esempio. Quando e se Mills sarà condannato, e quando e se la Corte Costituzionale avrà bocciato il Lodo Alfano, la sentenza che ha condannato Mills non potrà essere utilizzata nel processo a carico di Berlusconi: si dovrà ricominciare tutto daccapo. Che non sarebbe grave: se vi erano elementi per condannare Mills, gli stessi elementi potranno far condannare Berlusconi. Ma, tempo di rifare tutto il processo (qui la riforma ha studiato parecchie cosucce che lo rallentano), sarà arrivata santa prescrizione.

Naturalmente questa bella trovata è una legge dello Stato; e, come tale, vale per tutti, non solo per il suo primo beneficiario. Sicché possiamo porci la solita domanda: in che modo questa parte di riforma (le altre parti sono anche peggio) potrà eliminare il grande cruccio di Alfano, «la lentezza della giustizia»?

Va detto che questo ministro e il suo presidente sono anche sfortunati: lo scorso 26 gennaio la Corte Costituzionale (sentenza n. 29) ha ritenuto che l’articolo 238 bis (proprio quello modificato dalla riforma) era costituzionalmente legittimo; ne consegue che l’aver previsto che esso valga solo per alcuni reati e non per altri è, questo sì, incostituzionale. E così anche questa farà la fine di tante altre leggi emanate in spregio alla Costituzione; dopo aver assicurato l’impunità a tanti delinquenti, finirà ingloriosamente nel cestino. Ma è troppo chiedere che, prima di legiferare, studino un pochino?
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 19, 2009, 11:59:19 am »

19/2/2009
 
Resti in carcere il serial criminale
 
BRUNO TINTI
 

Per spiegare le infinite possibilità di evitare il carcere offerte ai condannati per reati anche gravi, racconto spesso una storiella: come si può ammazzare la moglie e non fare nemmeno un giorno di prigione. Mettendo in fila tutti gli sconti di pena, i permessi, le libertà vigilate, le liberazioni anticipate previste dalla legge, succede che le pene inflitte dai giudici alla fine del processo sono nei fatti almeno dimezzate e spesso annullate. La legge prevede la possibilità di lavorare all’esterno del carcere dopo 5 anni di pena effettivamente scontata (10 per gli ergastolani); 45 giorni di permesso premio ogni anno dopo almeno un quarto di pena effettivamente scontata (10 anni per gli ergastolani); quando restano solo 3 anni da scontare (e per tutte le pene inferiori a 3 anni), l’affidamento in prova al servizio sociale: il condannato sta fuori del carcere e racconta all’assistente sociale come si sta comportando; gli arresti domiciliari per un massimo di 2 anni (la cosa è un po’ più articolata ma questa è la parte che c’interessa); la liberazione anticipata (la famosa legge Gozzini): uno sconto di 45 giorni ogni 6 mesi; quindi, in realtà, 1 anno sono 9 mesi, 4 anni sono 3 anni, 10 anni sono 7 e mezzo. Tutto questo si cumula, e così si capisce perché in prigione ci stanno poche persone e per poco tempo.

Fanno eccezione terroristi e mafiosi, schiavisti e sequestratori di persona a scopo di estorsione, associati a delinquere per contrabbando e stupefacenti: per loro niente benefici a meno che non si pentano e collaborino con la giustizia. Però la Gozzini resta applicabile a tutti, che collaborino o no: basta che in carcere non si comportino male. Adesso questa straordinaria severità (si chiama certezza della pena) sarà applicata anche agli stupratori, ed è proprio una buona cosa. Se scomodiamo i principi generali e ci chiediamo perché alcuni condannati debbono essere trattati peggio di altri (il che potrebbe sembrare ingiusto), la risposta è che si tratta di persone certamente pericolose: il mafioso e il terrorista, finché restano tali, aderiscono ad associazioni antagoniste dello Stato; e le persone condannate per gli altri reati che impediscono di godere dei benefici carcerari sono considerate a forte rischio di reiterazione: l’esperienza insegna che molto probabilmente commetteranno altri reati della stessa specie.

Questo punto è molto importante. La maggiore severità non dipende dalla particolare gravità del reato; per questo c’è già la pena prevista dalla legge: più il reato è grave, più la pena è alta. Se così non fosse, tanto varrebbe introdurre, per alcuni reati, pene di specie diversa, per esempio la tortura, il che in un Paese civile non si fa. Sicché impedire agli stupratori di uscire dal carcere prima di aver scontato la pena, come si fa con i mafiosi, i terroristi ecc., non dipende dal fatto che il reato da loro commesso è grave (certo lo è); serve per garantirsi, nei limiti del possibile, che non stuprino ancora. Tutto bene? Sì, per quanto riguarda la certezza che gli stupratori se ne stiano in prigione quanto gli tocca (ma resta la Gozzini). No, per quanto riguarda il fatto che questo regime finalmente giusto non è stato applicato a tutte le altre categorie di delinquenti presunti seriali.

La Giustizia spende un sacco di soldi per far funzionare i Casellari Giudiziari: gli uffici che aggiornano i certificati penali. Sarebbe bene trarne una qualche utilità. Se una persona è stata condannata più volte per rapina, furto, truffa, guida in stato d’ebbrezza o sotto l’influsso di stupefacenti, omicidio colposo commesso perché ubriaco o drogato, se insomma la previsione che commetterà altri reati dello stesso tipo è fondata, visto che continua a commetterne; per quale motivo non dev’essere assoggettata allo stesso regime oggi previsto per gli stupratori? Forse che le vittime di questi reati non hanno diritto alla stessa tutela di una persona violentata?

Naturalmente a questo punto si apre un problema: che ne facciamo degli amministratori pubblici condannati per corruzione? E degli imprenditori condannati per falso in bilancio e bancarotta? Anche questo tipo di delinquenti provoca dei bei danni; sembrano meno gravi perché non sono sanguinosi, colpiscono tanta gente tutta insieme e quindi senza volto; e, soprattutto, sono un po’ sdoganati dai fulgidi esempi della classe dirigente. Però chi ti rapina una volta ti porta via il portafoglio o il contenuto della cassa; ma chi fa fallire una società in cui hai investito i tuoi risparmi ti porta via tutto; e chi aggiunge al prezzo dell’appalto la sua tangente impoverisce tutto il Paese. Forse anche per questa gente dovrebbe valere il principio per il quale, accertato che si tratta di soggetti pericolosi, è bene garantirsi che non ne combinino altre. Proprio come per gli stupratori. Eh, magari. Mi accontenterei che non venissero eletti in Parlamento.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 22, 2009, 11:10:56 am »

22/2/2009
 
La giustizia deturpata
 
BRUNO TINTI
 
Se mai ci sono stati dubbi sulla precisa volontà della maggioranza di minare la credibilità dell’amministrazione della Giustizia, abbandonarla all’inefficienza, far convergere su di essa e in particolare sulla magistratura lo scontento e la sfiducia dei cittadini, la storia che segue li elimina del tutto.

Abbiamo, finalmente - dice il ministro della Giustizia -, una riforma del processo penale che lo renderà veloce e rispettoso delle garanzie dei cittadini. Almeno sulla prima parte si può convenire: abolire di fatto le intercettazioni telefoniche, sottrarre al pm la polizia giudiziaria, impedirgli di acquisire autonomamente le notizie di reato, ridurrà drasticamente il numero dei processi. Tanti delinquenti resteranno impuniti ma i processi che restano saranno così semplici (quelli complicati senza intercettazioni non si fanno; e poi iniziavano quasi sempre per iniziativa delle Procure, che adesso non ci sarà più) che potranno essere conclusi rapidamente.

Resta il fatto che, come ognuno sa, per cantare messa servono soldi; e che in particolare la Giustizia è da tempo alla canna del gas. Proprio per questo, quando è entrata in vigore la legge 13 novembre 2008 n. 181, gli uffici giudiziari hanno emesso un corale respiro di sollievo. C’era la prospettiva di diventare ricchi. Diceva infatti questa legge che le somme di denaro e i proventi derivanti dai beni confiscati nell’ambito di procedimenti penali o per l’applicazione di misure di prevenzione dovevano confluire in un «Fondo per la Giustizia»; da qui i soldi sarebbero stati prelevati per far fronte alle esigenze degli uffici giudiziari. Finalmente! Si sarebbero comprati elaboratori, pagati gli straordinari ai cancellieri (così si sarebbero fatte le udienze anche di pomeriggio), realizzati quei progetti informatici fermi da anni per mancanza di fondi. Finalmente! Stenotipisti, traduttori, consulenti sarebbero stati pagati e avrebbero ricominciato a lavorare. Finalmente! Si sarebbero riparate le vecchie macchine e comprata qualche blindata nuova.

Era anche giusto, si diceva: la Giustizia produce un sacco di soldi, sequestra, confisca; se queste risorse fossero investite produrrebbero anche parecchi interessi. E cosa c’è di più razionale che far pagare la Giustizia ai delinquenti? Cosa di più normale che autofinanziarsi?
Si scoprì subito che le prospettive non erano così rosee; perché di pretendenti alla torta se ne fecero avanti altri. E così, dopo molti litigi parlamentari (leggersi il resoconto stenografico delle sedute in cui la legge venne discussa, è molto istruttivo), il bottino venne diviso in tre parti: un terzo all’Interno, un terzo al Bilancio dello Stato (ci sono tanti buchi da coprire) e un terzo alla Giustizia. Una vera rapina, ma meglio di niente.

Poi è arrivato il decreto legge sulla violenza sessuale; anche qui naturalmente servono soldi, se non altro per pagare il gratuito patrocinio alle vittime. E in effetti il «Fondo per la Giustizia» di soldi ne ha prodotti parecchi: adesso disponibili ci sono 100 milioni di euro. Solo che, dice il comunicato stampa della presidenza del Consiglio dei ministri (20 febbraio 2009), questi soldi se li prende tutti il ministero dell’Interno.

Naturalmente non si può contestare che anche lì non si nuota nell’oro e che far girare le volanti e pagare gli straordinari ai poliziotti è certamente una buona cosa. Ma anche le guerre tra poveri dovrebbero essere risolte con equità: si divida come era previsto dalla legge (anche se i soldi li ha guadagnati la Giustizia) dando un po’ di ossigeno a tutte due le amministrazioni. Anche perché la povertà genera inefficienza e l’inefficienza genera delusione, rabbia e sfiducia nei cittadini. Che alla fine se la prendono con chi non li tutela.
Ma guarda, forse la rapina di cui la Giustizia è rimasta vittima non è proprio così casuale: ancora una volta la sua inefficienza potrà essere attribuita ai magistrati; il Paese si potrà convincere più facilmente che i giudici sono dei fannulloni; la loro credibilità ne sarà ulteriormente diminuita; e la classe politica potrà ancora una volta protestare che le sue democratiche riforme sono osteggiate dalla magistratura «politicizzata». E i cittadini ci crederanno.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 17, 2009, 03:54:59 pm »

17/3/2009
 
Sesso spinto e giudici computer
 
 
BRUNO TINTI
 
I nostri legislatori sono molto focosi: ogni giorno la vita mette in scena i suoi drammi; e ogni giorno il Parlamento ha pronta una soluzione. Non importa che quegli stessi drammi si siano ripetuti migliaia di volte nel passato; e non importa che uomini saggi e sapienti abbiano cercato di governarli con soluzioni sperimentate in migliaia di anni: la parola d’ordine è riforma, sappiamo ben noi come fare. L’ultima delle riforme è la legge sulla violenza sessuale: se taluno viene denunciato per il reato di violenza sessuale, e se ci sono gravi indizi di colpevolezza e pericolo di fuga o d’inquinamento probatorio o di reiterazione del reato, è obbligatorio il carcere. Attenzione, ancora non si sa se questo cittadino è colpevole; è stato denunciato e pare proprio che lo sia; ma il processo si deve ancora fare e, come tutti sanno, si è innocenti fino alla sentenza di condanna. Nel frattempo però se ne deve stare in prigione.

L’occasione dell’ennesima riforma è nota: alcuni giudici erano stati troppo lassisti, stupratori agli arresti domiciliari, una cosa da non credere. Così, su due piedi, la nuova legge: i giudici non facciano più quello che vogliono, ci va un limite alla loro discrezionalità. E qui cominciano i problemi: perché l’articolo 609 bis del codice penale punisce la violenza sessuale, cioè atti sessuali compiuti con violenza o minaccia. Gli atti sessuali sono di molti e differenti tipi: si va, come ha sempre spiegato la giurisprudenza dalla «congiunzione carnale» agli «atti di libidine, cioè tutti quegli atti che esprimono l’impulso sessuale di chi li compie»; tra questi, dice la Cassazione, «toccamenti, palpeggiamenti, sfregamenti e comportamenti simili». E questa fascia di atti sessuali di minor rilievo viene punita sempre dall’articolo 609 bis, al terzo comma, ma con una pena minore. E quindi, virtuosamente, la nuova legge sulla violenza sessuale esclude che, in questi casi, sia obbligatoria la prigione: processiamoli ma non dobbiamo necessariamente catturarli subito. Solo che, a questo punto, la scelta tra gli atti di violenza sessuale meritevoli dell’immediata prigione e quelli che invece possono anche essere trattati senza carcerazione preventiva ricade di nuovo sul giudice. E, c’è da giurarci, le future decisioni che saranno adottate in casi limite, quelli la cui gravità non è così immediatamente valutabile, saranno sommerse dalla consueta organizzata disapprovazione della politica e dell’informazione controllata. Sicché una prima proposta: perché non distinguere esplicitamente tra la violenza sessuale consistente nella «congiunzione carnale» e gli altri «atti di libidine»?. E prevedere la prigione obbligatoria solo nel primo caso? Mi spaventa un po’ l’idea di un giudice che usi la nuova legge per allargare la carcerazione preventiva obbligatoria al «palpeggiatore abusivo».

Un’altra riflessione raccomanderei al legislatore. Di denunce calunniose per violenza sessuale se ne vedono molto più spesso di quanto si creda. Accertare come si sono svolti i fatti, se la violenza ci fu, se non si tratti di un ricatto o di una vendetta è molto complicato e richiede il suo tempo. Però, con la nuova legge, se c’è la denuncia, se non ci sono elementi che permettano di ritenerla infondata, se la parte offesa (magari una ex arrabbiata) racconta di minacce di futuri stupri, allora c’è poco da fare: prigione per il supposto violentatore. Che poi, magari, è innocente. Insomma, vorrei che fosse chiaro che trasformare il giudice in «bocca della legge» (come dicono gli avvocati), sottrargli ogni possibilità interpretativa e valutativa, impedirgli di decidere caso per caso cosa è giusto fare, finirà con il produrre sentenze assurde. Naturalmente i giudici commettono errori, come tutti; ma credere di evitare questi errori tramutandoli in una sorta di computer che, premuti due tasti e fatto un click di mouse, producano la decisione nel pieno rispetto della volontà del legislatore (finalmente), è una vera assurdità. Se continuiamo così, un giorno, in un’aula di Corte d’Assise, in un processo per il reato di cui all’articolo 575 del Codice Penale, quello che dice «chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione», verrà emessa una sentenza che assolve l’imputato «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato», visto che la vittima era una donna.
 
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