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Autore Discussione: STEFANO BOERI Edilizia, serve realismo e non appelli  (Letto 2755 volte)
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« inserito:: Marzo 11, 2009, 09:39:32 am »

11/3/2009
 
Edilizia, serve realismo e non appelli
 
 
STEFANO BOERI
 
Non ho firmato l’appello di Gae Aulenti, Vittorio Gregotti, Massimiliano Fuksas pubblicato su la Repubblica contro il disegno di legge sulla casa proposto dal governo Berlusconi. Non l’ho firmato perché non penso che si possa risolvere in dieci righe di buon senso e indignazione una proposta che ha un’articolazione - e anche una sua potenziale pericolosità - tale da richiedere una risposta più circostanziata.

La forza e i rischi di questa proposta di legge stanno in tre idee: la prima è di proporre una mobilitazione delle risorse individuali di migliaia di famiglie e piccoli proprietari capace di arginare la crisi e di trasmettere una scossa al sistema delle imprese edili italiane. La seconda è di esautorare le burocrazie delle amministrazioni locali, responsabilizzando al loro posto un’intera categoria professionale, quella degli architetti e degli ingegneri. La terza è di legare questa mobilitazione individualista all’opportunità di rinnovare anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale uno stock edilizio ormai desueto e divoratore di energia.

Bene, liquidare tutto questo come liberalizzazione del mercato e anarchia progettuale rischia di essere una semplificazione. Innanzitutto perché si interpreta come rischio di una prossima deregulation quella che invece è, da tempo, una pratica consolidatissima ed estesa di trasformazione del territorio italiano.

Qualcosa che attorno a noi è già accaduto, e spesso nel rispetto delle norme dei piani regolatori. Ma andiamo: basta girare le periferie italiane attraversando quel pulviscolo di edifici solitari e ammassati che ormai ovunque le circonda, per capire che ciò che ha scosso questi territori, li ha cambiati, rigenerati, a volte distrutti - più e oltre che i grandi interventi di speculazione promossi dai grandi costruttori - è stata una moltitudine di piccole trasformazioni che hanno assecondato i bisogni e i desideri di una società frammentata e prepotente. Migliaia di interventi per allargare un magazzino, sopralzare un appartamento, sigillare un balcone, ricavare un bagno; migliaia di trasformazioni che, legalmente o abusivamente, dalla Brianza al Casertano, dalla Riviera romagnola alle Puglie, hanno riscritto intere porzioni delle nostre città. E, quasi sempre, al miglioramento delle condizioni di vita privata delle famiglie è corrisposto un sensibile peggioramento della qualità dello spazio pubblico esterno. Ma proprio l’estensione geografica (si potrebbe dire geopolitica) di queste dinamiche, la loro sostanziale indifferenza alle norme urbanistiche, ci dicono che oggi oltre che richiamare con forza il rispetto di poche regole di difesa del paesaggio, non possiamo evitare di chiederci come orientare in modo non deterministico questa energia diffusa e potente. E magari imparare a orientarla, senza pretendere di governarla a colpi di gratificanti petizioni di principio.

Se c’è qualcosa che non va in questa legge, non è il proporre incentivi diffusi a chi interviene migliorando il proprio spazio di vita; è che questi incentivi andrebbero dati a chi - seguendo un’idea di immobiliare sociale - invece di costruire nuovi edifici si preoccupa di recuperare in forma di abitazioni ad affitti calmierati quelle centinaia di migliaia di appartamenti vuoti che un esercito di piccoli proprietari (per paura del prossimo e sfiducia nelle autorità) preferisce non affittare piuttosto che rischiare di perdere. Una risorsa straordinaria, che da sola potrebbe risolvere la questione abitativa di molte città italiane.

Se c’è qualcosa che non va in questa legge non è solo che rischia di cementificare ulteriormente il paesaggio, ma piuttosto il fatto che non si preoccupa di premiare - anche con significativi incentivi volumetrici, come ha fatto il Piano Paesaggistico del 2005 della Regione Sardegna - chi interviene per riqualificare un edificio o uno spazio aperto a contatto con le aree di maggior pregio ambientale. Perché costruendo meglio, rispondendo alle esigenze di chi vive, evitando di consumare nuovo suolo verde, si protegge e valorizza il paesaggio italiano.

Se c’è qualcosa che non va in questa legge non è che mobilita in modo frammentato le risorse individuali delle famiglie italiane, ma che non lo fa abbastanza; e così rischia - in assenza di una politica nazionale di sostegno agli investimenti in edilizia sociale - di favorire solo i grandi gruppi immobiliari che ancora dispongono di liquidità.

Se davvero, noi architetti, vogliamo contribuire alla discussione sulle proposte di legge del governo sulla casa, sarà bene lasciare da parte i nostri sogni di ordine e autorità, e cominciare a fare i conti con quello che - ci piaccia o no - è già accaduto nei territori del nostro Paese.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 18, 2009, 10:40:18 am »

18/3/2009
 
I colpevoli dei deserti urbani
 

 
STEFANO BOERI
 
Viviamo in città vuote eppure ci ostiniamo a volerle più grandi. Siamo circondati da migliaia di appartamenti sfitti e di uffici dove non lavora più nessuno, eppure non pensiamo che a costruire e ricostruire nuove case, a come allargarle, alzarle, replicarle. L’imperdonabile colpa del disegno di legge sulla casa proposto dal governo, l’imperdonabile colpa di una sinistra attenta alla purezza delle sue intenzioni piuttosto che alla vita reale, è il non voler prendere in considerazione questo straripante paradosso. Basterebbe memorizzare le offerte di affitto e vendita sui portoni e soprattutto quelle infinite persiane chiuse delle abitazioni e degli uffici che - come palpebre di occhi che non vedono più - ci guardano con sospetta fissità nei nostri percorsi quotidiani in centro, in periferia, nella città diffusa.

A Roma, su 1.715.000 abitazioni, 245 mila - una su sette - sono vuote. A Milano su 1.640.000 appartamenti, più di 80 mila non sono abitati e quasi 900 mila metri cubi di uffici sono deserti (l’equivalente di 30 grattacieli Pirelli vuoti). Muri, pavimenti, soffitti, arredi che aspettano da anni che qualcuno vi entri, li abiti, vi riporti le pulsazioni della vita quotidiana. Che una legge che (finalmente) si propone di fare i conti con l’energia molecolare che alimenta il mercato delle abitazioni non si preoccupi di recuperare un patrimonio che da solo - insisto, da solo - potrebbe dare risposta al disagio abitativo di milioni di italiani è davvero grave. Grave che non ci s’interroghi sulle ragioni di questa nostra originale forma di desertificazione urbana. Che sono fondamentalmente tre: la sfiducia in un mercato della proprietà che non garantisce regole certe; la paura di perdere per sempre (per colpa d’inquilini morosi o inamovibili) un bene prezioso. E una terza - che riguarda gli uffici - che nasce dall’esaurirsi della domanda di terziario e dall’ottusa rigidità delle norme sulle destinazioni funzionali, che impediscono usi diversi e misti (residenza più lavoro) al posto delle scrivanie e degli open space.

La desertificazione urbana non è solo un problema urbanistico; è un fenomeno pervasivo che se affrontato potrebbe rispondere ai bisogni di milioni di famiglie, di piccole imprese edili, di professionisti, e così costituire un grande banco di prova per le politiche pubbliche del Paese. Il vuoto nelle città è il riflesso fisico del vuoto che separa le istituzioni pubbliche dalle energie vitali della società civile. E non è un caso che a riempire questo vuoto, attraverso forme di sussidiarietà e di supplenza all’azione pubblica, siano agenzie di «privato sociale»: immobiliari non profit - come quelle nate a Barcellona, a Torino, a Milano - che si mettono in mezzo tra la domanda e l’offerta di abitazioni e uffici, garantendo reddito e certezza nei tempi d’uso a chi dispone degli immobili, e spazio in affitto a prezzi calmierati (circa il 30% inferiore ai valori di mercato) a chi ne ha disperato bisogno (non solo immigrati e soggetti fragili, ma anche studenti, lavoratori precari, giovani famiglie). Ma perché queste esperienze si diffondano, sciogliendo incrostazioni di paura e pigrizia, e alimentando un formidabile mercato di interventi di recupero del nostro stock edilizio, serve con urgenza una legge nazionale che obblighi Regioni e Comuni a offrire fondi di garanzia per gli interventi di immobiliare sociale. E serve una grande politica di recupero creativo dei territori delle città. Che devono smettere di crescere divorando terra agricola e natura, e devono invece occuparsi di sé stesse, rioccupando quei deserti urbani che rappresentano la vera cifra della nostra follia politica.
 
da lastampa.it
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