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Autore Discussione: Ballard un'autobiografia per raccontare i Miracoli della vita  (Letto 3000 volte)
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« inserito:: Marzo 10, 2009, 05:16:17 pm »

Ballard un'autobiografia per raccontare i Miracoli della vita
 
 
 di Roberto Bertinetti


ROMA (21 febbraio) - E’ malato di cancro al pancreas e alle ossa e i medici sono stati franchi con lui: la sua fine è molto vicina. James Graham Ballard chiude con questa confessione l’autobiografia apparsa lo scorso anno nel Regno Unito  e tradotta ora in Italia da Antonio Caronia per Feltrinelli (I miracoli della vita, 227 pagine 17 euro), probabilmente l’ultima opera di un grande irregolare della letteratura inglese del secondo Novecento nella quale rivela come gli eventi di cui è stato testimone abbiano influenzato la sua arte. «Credo che una buona parte della mia narrativa sia stata un tentativo di evocare l’atmosfera della Shanghai dove sono nato in un modo diverso dal semplice ricordo», osserva tra l’altro. E poi aggiunge: «A Shanghai il fantastico, che per la maggior parte delle persone sta dentro alla propria testa, per me stava fuori, lo vedevo ovunque mi giravo, e adesso penso che lo sforzo che facevo da ragazzo fosse quello di cercare, in tutta quella finzione, la realtà».

In Oriente i Ballard erano arrivati nella seconda metà degli anni Venti dopo che il padre dello scrittore aveva assunto la direzione di una azienda tessile. James, nato nel 1930, era uno dei quarantamila stranieri che vivevano, isolati e protetti, in un quartiere costruito per loro, un’isola felice in una metropoli cattiva e feroce, «dove ogni mattina i camion del consiglio comunale liberavano le strade dalle centinaia di corpi di indigenti che morivano di fame e di freddo sui selciati». A lui, che abita in una casa con decine di servitori e si sposta per la città con una macchina guidata da un autista in uniforme, Shanghai appare «un posto magico, una fantasia che si generava continuamente da sola, un caleidoscopio crudele ma scintillante».

Neppure l’invasione giapponese dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale cambia in maniera sostanziale l’atteggiamento del piccolo James, che nel 1943 viene internato nel campo di prigionia di Lunghua, un’esperienza che ispirerà in seguito il romanzo L’impero del sole, portato sul grande schermo con successo da Spielberg. «Anche a Lunghua fui un ragazzo felice», precisa. E sorprendentemente aggiunge di aver sopportato con serenità gli oltre due anni di detenzione, «anche quando le razioni di cibo erano ridotte quasi allo zero, le gambe mi si erano ricoperte quasi per intero di irruzioni cutanee e molti adulti si perdevano d’animo».

La prima vera crisi, confessa, coincise con all’arrivo in Inghilterra al termine del conflitto. Il paese che vedeva per la prima volta non assomigliava affatto a quello che gli era stato descritto («mi resi conto molto presto che l’Inghilterra in cui ero stato indotto a credere era un prodotto di fantasia», osserva) e quindi aggiunge che la povertà diffusa ovunque rappresentava la conferma che l’impero era stata una tigre di carta. Da queste scoperte, precisa, nacque la sua particolarissima vocazione di narratore. Si tratta di un passaggio centrale dell’autobiografia perché chiarisce in modo inequivoco la poetica di Ballard: Spiega: «Mi chiesi se gli inglesi non pagavano un prezzo salatissimo per il sistema di autoillusione che era alla base della loro vita e la risposta (positiva) che diedi a questa domanda mi incoraggiò a ritenermi per il resto della mia esistenza un estraneo e un dissidente. Probabilmente mi indirizzò nel farmi diventare un narratore specializzato nel prevedere e, se possibile, provocare il cambiamento».

La fantascienza gli apparve subito un approccio naturale. Ai suoi occhi si trattava di un genere capace di gettare una luce nuova sul presente, a patto di mettere da parte i luoghi comuni e gli stereotipi più dozzinali: niente alieni che assaltano la terra, dunque, o raggi laser in arrivo dallo spazio, ma sintesi di un mondo che stava cambiando. Sin dall’uscita nel 1961 di Il vento del nulla Ballard si rivela dunque un innovatore coraggioso, un artista geniale e solitario, un discepolo di Swift deciso a svelare le bugie ideologiche della contemporaneità. L’assalto al pensiero “mainstream” occidentale, già evidente in La mostra delle atrocità (1970) in cui si prendono di mira i volti noti della scena pubblica inglese e americana, diventa poi frontale nel successivo Crash (1973), sulfurea biografia di un pazzo che si diverte a provocare terribili incidenti stradali sino a rimanerne vittima lui stesso, «un’opera in cui quasi ci si aspetterebbe di veder circolare Bruegel e Hieronymus Bosch su macchine a noleggio», commentò Oreste del Buono (e che nel 1996 divenne un film di culto per la regia di David Cronenberg), disturbante riflessione sul clima apocalittico del tardo Novecento che in Condominium (1975) viene ampliata aggiungendovi maniacali follie di natura sessuale.

In seguito Ballard ha proposto romanzi nei quali mette in luce con il suo inconfondibile stile pop gli effetti perversi della società dell’immagine e del consumo esasperato (L’allegra compagnia del sogno nel 1979, Ultime notizie dall’America nel 1981, Il giorno della creazione del 1987), per poi scegliere a partire dagli anni Novanta di concentrarsi sulle paure, le fobie e la violenza nascosta della classe media, un segmento sociale la cui carica trasgressiva viene sedata dal potere ma che a volte può scegliere di ribellarsi con effetti devastanti. E’ con Cocaine Nights, uscito nel 1996, che si apre la fase conclusiva del lavoro di Ballard in una tetratologia composta da Super Cannes (2000), Millennium People (2003) e Il regno a venire (2006), libri pieni di omicidi e crimini efferati con protagonisti di matrice borghese imprigionati nella gabbia delle proprie illusioni e frustrati per il crollo repentino di vite senza qualità.

Le pagine più toccanti dell’autobiografia sono quelle in cui Ballard parla dell’improvvisa morte della moglie Mary nel 1964, degli sforzi per allevare da solo i tre figli nati dalla loro unione e del ricorso quotidiano alla bottiglia per lenire il dolore. «A lungo l’alcol fu un caro amico e quasi un confidente; di solito bevevo un bello scotch con soda dopo aver portato a scuola i ragazzi poco dopo le nove. In quei giorni finivo di bere grosso modo all’ora in cui ora comincio. Dalla bottiglia di Johnny Walker si sprigionava un accogliente microclima che invitava la mia immaginazione a uscire dalla tana e ad annusare l’aria». A far uscire Ballard dalla crisi fu sul finire degli anni Sessanta Claire Walsh, da allora la sua compagna.

Ora Ballard attende la morte senza paura e senza rimpianti. «Certo, la scomparsa di Mary è stata per me una tragedia, ma sono riuscito a riprendermi. E dal punto di vista professionale ho avuto grandi soddisfazioni», spiega. E chiudendo il volume indica i nomi di due scrittori con le caratteristiche giuste per raccogliere la sua eredità artistica: Ian Sinclair e Will Self. E’ alle loro opere, afferma con sicurezza, che occorre guardare per capire cosa sta accadendo oggi in Inghilterra, un paese che Ballard giudica «dominato dalla pubblicità di massa, in cui il governo si occupa soprattutto di pubbliche relazioni». 

da ilmessaggero.it
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