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Autore Discussione: Almirante: «Non voglio morire da fascista»  (Letto 4652 volte)
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« inserito:: Marzo 05, 2009, 09:14:06 am »

L'INTERVISTA

Almirante: «Non voglio morire da fascista»

I retroscena e le rivelazioni a microfono spento del leader del Msi durante un'intervista del 1980
 
di Daniele Protti


«Ma lei pensa davvero che io continui a fare politica per guidare un partito destinato comunque a morire perché una generazione va al cimitero e un’altra in galera?»: furono le prime parole di Giorgio Almirante, dopo il suo invito a spegnere il registratore. Era il settembre del 1980.

Da più di un mese la strage del 2 agosto alla stazione di Bologna era definita “fascista” dalla maggioranza della stampa e della tv. A Giuliano Zincone (direttore de Il Lavoro di Genova), Gad Lerner e Francesco Cevasco (caporedattori) proposi di intervistare il segretario del Msi. L’unica resistenza venne dai tipografi dello storico quotidiano ex socialista (acquistato da Rcs a fine anni Settanta), già diretto anche da Sandro Pertini: «Ma come, diamo la parola a un fascista?». In tipografia, accanto alle rotative, la discussione fu animata ma serena, c’era un clima di reciproca fiducia, quasi familiarità. Bei tempi. L’intervista fu concordata con la collaborazione del deputato Francesco Giulio Baghino, eletto a Genova. La condizione posta era ovvia: correttezza nel riportare le risposte del leader missino. Appuntamento fissato nello studio di Almirante, al gruppo parlamentare della Camera, dove il segretario arriva puntualissimo. Appare stanco, con il viso tirato. Non si inquieta mai, anche di fronte alle domande sugli attentati marcati dall’estrema destra (Peteano nel 1972, Brescia e Italicus nel 1974, senza contare piazza Fontana nel 1969). Tradisce un certo nervosismo quando rigetta i sospetti sulla “firma” fascista della strage di Bologna. L’intervista si avvia alla fine, Almirante argomenta lo “sciacallaggio” dei partiti (dal Pci alla Dc) contro il Msi e non nasconde proprio la sua inquietudine per l’esistenza di frange estremiste di destra, anch’esse contro il Msi.

«La prego, spenga il registratore. Quello che le dirò ora esula dall’intervista. Ho l’impressione che lei sia educato, ma non convinto delle mie risposte. Anzi. Allora sono io che le pongo una domanda. Con una premessa. Sto a Montecitorio dal 1948, da più di trent’anni. Il Msi si è trasformato, da quel nucleo iniziale di reduci del fascismo. Ormai fa parte stabilmente della geografia politica dell’Italia repubblicana. È stato un processo lento e difficile. Bene: ma lei crede davvero che io possa pensare di chiudere la mia carriera, la mia vita politica, facendo il becchino di un partito che muore perché una generazione si spegne per motivi anagrafici e un’altra perché chiusa in galera? Crede davvero che sia così miserabile da avere questa ambizione da nostalgico rincoglionito?».

Lo sguardo non è quello cui ero abituato, ironico e sarcastico, a volte beffardo. È uno sguardo sofferto, quasi angosciato, come le parole, che fluiscono veementi. E irate. Mi sembra sincero, sono sorpreso. «Le dirò di più: io non voglio morire da fascista. Tanto che sto lavorando per individuare e far crescere chi dovrà prendere le redini del Msi dopo di me. Giovane, nato dopo la fine della guerra. Non fascista. Non nostalgico. Che creda, come ormai credo anch’io, in queste istituzioni, in questa Costituzione. Perché solo così il Msi può avere un futuro. Altrimenti è costretto a sparire. Capisce perché sono così deciso nel negare qualsiasi legame con chiunque abbia messo la bomba di Bologna? È un nemico anche del Msi». Poi, dopo un attimo, aggiunge (e per la prima volta sorride): «Nulla di tutto questo è registrato, spero di non dover rivivere il solito film delle smentite e controsmentite. Ma Baghino mi ha detto che lei è perbene, anche se tutt’altro che di destra. Buon lavoro». L’intervista uscì su Il Lavoro ovviamente soltanto con le parti registrate. E Baghino era tutto felice («il segretario è soddisfatto!»).

Un anno dopo, Giampiero Mughini, su L’Europeo, scrisse di Gianfranco Fini come giovane emergente nel Msi, di cui diverrà per la prima volta segretario nel 1987, pochi mesi prima della morte di Almirante (22 maggio 1988). Racconto ampiamente, per la prima volta, questa storia perché può essere utile per capire il percorso dal reduce di Salò al protagonista di Fiuggi (il funerale del Msi, la nascita di Alleanza nazionale), che è proprio il tema di questo numero de L’Europeo.

Il percorso dell’estrema destra, tra rappresentanza istituzionale e nuclei eversivi e violenti. «La politica è sangue e merda», diceva il socialista Rino Formica, in modo brutale ma efficace. Poi, più tardi, aggiunse: «Ma talvolta riesce a diventare persino nobile».

Daniele Protti
03 marzo 2009

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 05, 2009, 09:15:33 am »

1991, POCHI MESI PRIMA DELL'AVVENTO DI FINI

Il futuro (nero) del Msi

Il partito è alla deriva, avvilito dalle batoste elettorali, dalla mancanza di poltrone e dalle correnti interne perennemente in guerra
 

di Giancarlo Perna

Nel gennaio 1990, quando Pino Rauti ne prese il comando, il Msi aveva ancora 2 milioni abbondanti di voti. Il neosegretario scosse insoddisfatto il profilo da topo. «Faremo meglio», disse, «saccheggeremo i voti del Pci che è allo sbando». E aggiunse: «Razzieremo anche la Dc». Gli piaceva l’idea di guidare un partito corsaro che colpiva a sinistra e a destra, galleggiando sulle ideologie morte. Ma vennero le elezioni amministrative di giugno e il Msi mostrò di essere il morto più morto: perse 1.021.000 preferenze, la metà del suo elettorato.

Allora si fecero le bucce al segretario. E risultò che ai suoi primi passi aveva oscillato come un birillo. Per conquistare i tradizionalisti aveva fondato un “comitato per la difesa dei valori cattolici”. Poi però aveva candidato a Siracusa un pastore protestante. E i tradizionalisti gli avevano voltato le spalle.

Per scompaginare i democristiani aveva annunciato che l’ex sindaco Dc di Palermo, Elda Pucci, sarebbe stato capolista missino in Sicilia. «A parte che non accetterei», aveva replicato la signora, «tuttavia a me non ha detto niente nessuno». Infatti era una balla.

Poi Rauti si era rivolto ai comunisti. Sono il suo pallino. È convinto che diventeranno missini perché il Pci crolla e il Msi resta il solo partito anticapitalista e “antiamerikano”. Dichiarò ai giornalisti: «Un senatore del Pci sta passando col Msi». «Chi è?», gli chiesero. «Top secret», rispose. Ma aveva l’aria di dire: «È il primo. Altri seguiranno». Era l’ennesimo bluff. I comunisti, che in realtà non voteranno mai per il Msi, ignorarono tutta la faccenda. La notarono invece gli elettori di destra. E ruppero con Rauti. Anche la figlia Isabella, leader delle femministe missine, aveva promesso sfracelli. Poi, alla fine, ha dato ragione al papà e ai soliti capi. Uomini, beninteso.

In cinque mesi, insomma, Rauti aveva creato un parapiglia. È stato subito messo sotto tutela. Dal troppo è passato al niente. Ora è teleguidato da un gigante del pensiero come Franco Servello e dagli altri capicorrente suoi alleati. E tutti, anche i rautiani di ferro, aspettano il congresso del gennaio 1992 per dargli il benservito. Pino non se la prende. Continua il tran tran quotidiano lasciando che le cose vadano alla deriva per conto loro. Caschi il mondo, alle 13.30 torna a casa. Si toglie le scarpe e infila le pianelle come vuole la moglie. Mangia e fa la siesta fino alle 16.30. Giorgio Almirante, che non sopportava le sue abitudini da posapiano, gli telefonava apposta alle 15 per costringerlo a svegliarsi e a correre nella sede di via della Scrofa. Ma ora è lui il capo, si difende con grinta. Se qualcuno propone una riunione nel primo pomeriggio, grida: «A quell’ora? Ma che riunione e riunione. Come minimo alle 17».

Il partito che per 40 anni era tutto “libro e moschetto” si è messo in mano a un uomo che è tutto “libri e letto”. Segno che la funzione originaria del Msi è esaurita. Quando fu fondato nel 1946 da Giorgio Almirante, Pino Romualdi e Arturo Michelini, servì a reinserire i reduci di Salò. Lasciati ai margini, potevano diventare dei rivoluzionari. Il Msi ne fece degli elettori. I più accesi, i più pronti a menare le mani, ma anche i più disinteressati d’Italia. Chi vota per il Msi, ieri come oggi, lo fa gratis. È un partito quasi senza poltrone. Chi lo sostiene non pretende né un lavoro né un letto di ospedale. Ma solo qualche spallata al sistema. Alla maggior parte dei missini basta l’illusione del cambiamento. Una minoranza di teste calde invece lo vuole davvero. I dirigenti del Msi non sanno a chi dar retta. E oscillano tra la voglia di Palazzo e l’opposizione dura. Negli anni Cinquanta e Sessanta, il segretario Michelini scelse il quieto vivere. Appoggiò vari governi e il Msi ottenne favori sottobanco. Poi arrivò Almirante che cambiò rotta. Parlava bene, gli piaceva la piazza e il rischio di sollevarla non gli impediva di pronunciare frasi a effetto e parole d’ordine incendiarie. Era un po’ trombone, innamorato di se stesso. All’inizio, ebbe un successone. Nelle “politiche” del 1972, il Msi ottenne l’8 per cento dei voti, quasi quanto i socialisti. Li aveva presi alla Dc che non glielo perdonò. «Sono elettori in libera uscita. Dobbiamo riprenderceli», disse Giulio Andreotti che anche allora era presidente del Consiglio. Tutti si allearono con la Dc. Ma Almirante, che pensava «molti nemici molto onore», continuò imperterrito ad aizzare i suoi estremisti. Il Msi entrò definitivamente nel mirino del Palazzo e dei cortei antifascisti.

I tribunali di tutta Italia addebitarono ai “fascisti” le bombe senza firma. Rauti, senza colpa né peccato, fu incarcerato per tre mesi dai giudici che indagavano sulla strage di piazza Fontana. Entrò in galera con la fama di nazista per avere fondato anni prima Ordine nuovo. Ne uscì traumatizzato con le idee di sinistra e tardo-sessantottine che vanno oggi sotto il nome di “rautismo”. Espediente per sopravvivere o rivelazione improvvisa, fu un colpo fortunato. Da allora Rauti ha fatto proseliti nel partito, mentre gli “antifascisti” di professione hanno cominciato a trattarlo con una benevolenza che dura tuttora. Il Msi reagiva all’assedio, alimentandolo con la violenza della strada. L’elettorato borghese se ne disgustò. E fu il patatrac. Almirante perse definitivamente il controllo della situazione. Nel partito, gli antialmirantiani e i nostalgici della politica soft di Michelini finirono per diventare legione. E nel 1976 la metà dei parlamentari e tutti gli uomini più noti uscirono dal Msi per fondare Democrazia nazionale.

Fu il tentativo di fare un partito per bene, più incline agli inciuci di Palazzo che alle mazzate in piazza. L’esperimento fallì perché gli elettori di destra presero la faccenda come un tradimento e restarono fedeli ad Almirante. Ma la decimazione dei dirigenti mise in ginocchio il Msi. Da allora vivacchia. Il futuro è nero. Gli ex di Salò si assottigliano. I tradizionalisti sono delusi. Chi protesta si ritrova meglio nelle leghe. I capi missini non sanno che pesci prendere e brancolano tra la rivoluzione che non c’è e le poltrone che non gli danno. Intanto, finché dura, si litigano le spoglie del partito che è diviso in sette correnti. Nessuno ne ha tante e il Msi ne va fiero. Quella più forte è guidata da Gianfranco Fini, il delfino di Almirante ed ex segretario defenestrato da Rauti. Fini è telegenico, alto, con un bel viso ariano e i capelli pettinati. Prima di diventare segretario, era famoso nel Msi per essere ignoto, malgrado una lunga militanza e la guida dei missini junior del Fronte della gioventù. Queste caratteristiche piacquero ad Almirante che aveva bisogno di un involucro in cui riversare le sue idee. Deludendo i vecchioni che dopo 20 anni volevano succedergli, Giorgio fece eleggere Gianfranco con l’intenzione di farne un replicante. Ma sei mesi dopo morì. Il ragazzo è stato preso in consegna da donna Assunta, la vedova. Per quanto grintosa, la signora non è però riuscita a impedire che dopo appena due anni di segreteria Fini fosse sostituito da Rauti, che detesta. Gianfranco comunque le è grato e l’ha inserita stabilmente nello staff. Se c’è un convegno di Fini c’è donna Assunta.

Ma il grande ispiratore di Fini è Giuseppe Tatarella. Lo chiamano “Richelieu”, ossia eminenza grigia. È un uomo machiavellico. Quando Gianfranco era segretario lo consigliò di allearsi col suo avversario Rauti, per formare una nuova maggioranza e liberarsi dei capicorrente che lo imbrigliavano: Franco Servello, Alfredo Pazzaglia, il romualdiano Guido Lo Porto, eccetera. Tatarella li chiamava i “vecchi tromboni”. Ma, scoperto il piano, i tromboni si accordarono con Rauti prima di Fini, che perse così la sua poltrona. Da allora “Richelieu” ha sfornato decine di altri progetti. Però Fini ci va cauto perché ha ancora un seggio parlamentare e un’utilitaria, ma poi nient’altro. La seconda corrente per grandezza è quella di Rauti. Da qualche mese si è alleato con Fini (che verrà rieletto segretario nel luglio 1991. E lo resterà fino allo scioglimento del Msi avvenuto nel gennaio 1995, ndr). Ma non si sopportano e la cosa durerà poco. I seguaci di Rauti sono soprattutto i giovani. Le sue storie sui miti celtici, l’antindustrialismo, John Ronald Reuel Tolkien e i campi Hobbit sono indigeste dai 18 anni in su. Capo dei giovani è il suo futuro genero Gianni Alemanno, fidanzato della figlia Isabella.

Franco Servello è il capocorrente numero tre. Ma è tanto abile da essere il numero uno. È l’ago della bilancia. Lo era con Fini, lo è con Rauti. Non ha nessuna convinzione politica, per cui si può spostare dall’uno all’altro senza problemi. Vince il miglior offerente. Quando da Fini passò a Rauti disse: «Non voglio nessuna carica». Due mesi dopo era presidente del gruppo a Montecitorio. È bravo e ha dato un po’ di disciplina ai deputati. È arrivato al neofascismo dall’antifascismo. Ventitreenne, lavorava al Corriere di Napoli, giornale del Comitato di liberazione. Tocca a lui raccontare l’arresto e l’uccisione di Benito Mussolini. «Faceva l’ubriaco vestito con un cappotto da tedesco», scrive. Il corteo di gerarchi e lo stesso Mussolini compongono “una triste brigata” e tutti finiscono degnamente a piazzale Loreto. I missini non gli hanno mai perdonato il peccato di gioventù. E ogni volta che si parla di lui come possibile segretario del partito, la storia rispunta fuori. Con Servello stanno il presidente del partito Alfredo Pazzaglia e Raffaele Valensise. Di Pazzaglia si dice che è “troppo democristiano”. Di Valensise che se sente un gong si mette in guardia. Sono due persone di grande correttezza, le meno intriganti della nomenklatura missina.

Capo di una correntina è Mirko Tremaglia. È un uomo-soldato. Fedelissimo di Almirante, adesso lo è di Fini perché glielo ha ordinato Almirante tre anni fa. Fra trent’anni sarà uguale. Se poi dovesse tentennare, ci penserebbe donna Assunta a rimetterlo in riga. I soli oppositori di Rauti sono Tomaso Staiti e Domenico Mennitti. Erano suoi sostenitori della prima ora perché lo consideravano il simbolo della rottura con Almirante e l’almirantismo. Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, 25 lettere di cognome, è un barone di origine trapanese, ma nato e cresciuto al Nord. È straordinariamente ben vestito. Quando un qualsiasi missino si veste elegante, la frase tipica che gli esce di bocca è: «Sembro la controfigura di Staiti». In realtà, Tomaso è inarrivabile. Se per caso ti abitui a vederlo sempre così perfetto e non lo noti più, Staiti sa come riattirare l’attenzione. Una volta si buttò col paracadute a 50 anni suonati, si spaccò la gamba e arrivò a Montecitorio mirabilmente ingessato. Un’altra prese a schiaffi l’ex presidente del Consiglio Giovanni Goria, col quale ha una disputa sulla Cassa di risparmio di Asti. Mentre lo colpiva, Tomaso gli ha detto: «Massone, peculatore, bancarottiere, falsario». E ha aggiunto: «In altri tempi avrei mandato i famigli a bastonarti. Ma sono decaduto e devo arrangiarmi da me». Ha comprato un’azione del Banco di Roma, giusto per partecipare all’assemblea. Appena dentro ha gridato agli amministratori: «Siete tutti ladri». E giù tutta una serie di interrogazioni su pasticci del Banco. Un deputato da Belle Epoque. Mennitti è la disperazione dei giornalisti in cerca di aneddoti. Dicono che diventerà presto segretario del partito. E lui bada a non commettere azzardi. È pugliese e missino. Dovrebbe essere sanguigno. Invece è calmo e badiale come un doroteo veneto. Il Msi del Duemila.

Giancarlo Perna

03 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 05, 2009, 09:16:44 am »

1962, LA REAZIONE DEL GHETTO

E alla fine è esplosa la rabbia

«Ne hanno ammazzati solo 6 milioni di voi ebrei: e sono stati pochi»: così aveva urlato una ragazza in uno dei tanti assalti del Msi al ghetto di Roma
 

di Renzo Trionfera

Dopo gli incidenti dei primi due giorni della settimana, i neofascisti si erano tenuti prudentemente lontani dal ghetto di Roma. Anche le loro fragorose carovane elettorali avevano smesso di scorrazzare lungo il confine, tra via Arenula e il lungotevere Cenci. Molti ebrei, tuttavia, erano sicuri che l’incendio covava sotto quella calma apparente. Forse anche per l’azione svolta da abili propagandisti di estrema sinistra, si dava quasi per certa una grande spedizione dei fascisti per la serata di venerdì, in piena Pasqua rosa ebraica (chiamata anche la festa di Shavuot o della mietitura del grano, ndr).

I giovanotti giunti da ogni parte di Roma, per formare i picchetti di difesa del ghetto, ascoltavano preoccupati le voci che giravano tra i correligionari del luogo. «Venerdì sera», sentivano dire, «il Msi terrà il suo comizio di chiusura al Colosseo: migliaia di fascisti si raduneranno a poco più di un chilometro di distanza dal nostro tempio. Finito il comizio, punteranno sul ghetto, per tentare un’azione come quelle di una volta». Il rabbino capo Elio Toaff (dal 1951 al 2002, ndr) e i dirigenti della comunità romana avevano cercato in ogni modo di calmare gli animi. Nessuno, tuttavia, poteva escludere che quelle voci non avessero qualche fondamento di verità. «Sarà magari esagerato dire che verranno a migliaia», pensavano i moderati, «ma potrebbero presentarsi quei forsennati che già altre volte sono venuti a gridare viva Adolf Hitler o viva Benito Mussolini per le strade del vecchio ghetto. E se vengono adesso, con l’eccitazione che c’è nell’aria, che cosa accadrà?». «Se vengono», dicevano da parte loro i giovanotti dei picchetti, «troveranno pane per i loro denti. Siamo stati tranquilli per anni: abbiamo cercato di dimenticare quel che nessuno di noi dimenticherà mai. Ma se continuiamo a stare tranquilli, i fascisti ne approfitteranno per tornare a spadroneggiare. Se vengono, ci difenderemo come non abbiamo mai fatto finora». I giovanotti che nel Msi, o fuori, militano nelle formazioni razziste di Ordine nuovo, anche se furono tentati di fare qualche dimostrazione antisemita, fiutarono evidentemente l’aria cattiva.

Andarono a cantare i loro inni guerreschi e nostalgici in luoghi lontani dalla sinagoga. I picchetti di giovani ebrei che passeggiavano nell’area del ghetto, così come i numerosi agenti in borghese e in divisa, di guardia sul “confine”, vegliarono inutilmente. Non accadde assolutamente nulla. Ma non per questo gli animi tornarono sereni. I poco più di mille ebrei che tuttora vivono tra il Portico di Ottavia e il Tevere restarono con i nervi a fior di pelle e con un senso di angoscia nel cuore, quasi del tutto ingiustificato. Alcuni, le donne in particolare, si buttarono sul letto vestiti, come facevano tutti tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1944, al tempo dell’occupazione tedesca. Oggi, come allora, volevano essere pronti a ogni eventualità. E in molte famiglie, nelle due notti della Pasqua rosa 1962, ci fu chi andò ad appisolarsi accanto alla finestra, con l’orecchio teso, pronto a dar l’allarme agli altri. Ma i fatti accaduti la scorsa settimana, tra il 4 e il 5 di giugno, erano sufficienti a giustificare quel clima? Visti dall’esterno, no. Nemmeno al confronto con quello che era accaduto in un recente passato. Esattamente nove anni fa, per esempio, alla vigilia delle elezioni del giugno 1953, i neofascisti avevano dato la chiara sensazione di voler ereditare non solo i metodi dello squadrismo, ma anche quel razzismo che per i fascisti pre-25 luglio aveva costituito merce d’importazione forzata dalla Germania di Hitler. Alcuni giorni prima della consultazione elettorale, numerosi gruppi di scalmanati avevano invaso il ghetto. La spedizione, che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto avere solo un carattere dimostrativo, finì male. Superato il primo momento di stupore, gli ebrei avevano reagito con violenza. Gli appartenenti ai Fasci d’azione rivoluzionaria e alla Legione nera, i mistici della razza pura e del tritolo (cioè quelli che s’erano specializzati in attentati dinamitardi) presero un fracco di legnate. Molti trovarono addirittura rifugio nella sinagoga, in attesa che la polizia li conducesse “fuori area”. Per cinque anni, il manipolo degli “uomini solari”, quelli che avevano come ideale un fascismo di tipo nazista e che sostenevano la supremazia di una razza nordico-romana, si limitarono a fare disquisizioni cabalistiche nelle riunioni segrete o su fogli che non leggeva nessuno. Tornarono a farsi vivi sul terreno dei fatti nel 1958, nell’imminenza delle ultime elezioni politiche. Il 23 maggio di quell’anno, due grosse e veloci automobili nere entrarono nel ghetto di Roma. A bordo c’erano, in tutto, otto giovanotti robusti, alcuni dei quali con i capelli rasati a zero.

Nessuno fece caso al gruppetto finché alcuni di loro non si misero in testa dei fez fascisti e non cominciarono a inneggiare a Mussolini e a Hitler. Nel giro di pochi minuti una folla minacciosa li strinse d’assedio. Fez e gagliardetti neri furono fatti a pezzi; gli otto che facevano parte della “Ciurma audace” (una formazione giovanile del Msi) furono costretti a una rapida ritirata, incalzati da spintoni e calci. Una delle due automobili venne rovesciata. Dopo alcuni minuti, nel corso dei quali i neofascisti rimasero alla mercé della popolazione del ghetto (che in sostanza si comportò con molta indulgenza), tutta la “Ciurma audace” poté mettersi in salvo, squagliandosela attraverso l’Isola Tiberina o salendo sui tram in corsa. Lasciarono, tuttavia, nelle mani degli “avversari”, le insegne littorie insieme con lembi delle giacche. A quell’episodio gli ebrei che vivono nel ghetto diedero importanza relativa. Non costituirono picchetti di difesa; ritennero che la lezione data ai neofascisti potesse servire a lungo. Fu per questo che alcuni “legionari”, nel corso della notte successiva, riuscirono a compiere una rappresaglia. Una volta sicuri che attorno al Tempio israelitico il campo era assolutamente libero, un folto gruppo di giovani fascisti motorizzati vendicò i camerati della “Ciurma audace”. La lapide che su un fianco della sinagoga ricorda gli 83 ebrei assassinati alle Ardeatine fu volgarmente imbrattata; in un portafiori sistemato dinanzi alla lapide stessa i legionari posero un manganello. Dopo di che, al canto degli inni nostalgici, abbandonarono il campo.

L’indomani la reazione degli ebrei fu violenta. Le autorità israelitiche dovettero impegnarsi a fondo, per impedire che l’eccitazione e lo sdegno spingessero qualcuno ad azioni sconsiderate. Sebbene con difficoltà, la calma poté essere presto ristabilita. La settimana scorsa la provocazione dei fascisti non fu sostanzialmente più grave. Nel pomeriggio di lunedì, all’improvviso, una Seicento e un’Alfa Romeo Giulietta tappezzate di manifesti neofascisti capitarono in pieno ghetto. Gli occupanti dissero, poi, di averlo fatto involontariamente. Forse era vero, perché vi erano giunti da una strada a direzione vietata. Una volta accortisi dell’errore, però, si erano dimenticati di spegnere l’altoparlante che tuonava inni di sapore nostalgico. Gli ebrei, dunque, avevano pensato a una nuova provocazione identica a quella del 1958. Si erano lanciati urlando e tutto sarebbe finito con qualche livido e qualche ammaccatura alle macchine se, al termine di un breve tafferuglio, una ragazza non avesse urlato una frase che lì, nel ghetto romano, suonava come l’intollerabile apologia di un’infamia. «Ne hanno ammazzati solo 6 milioni, di voi ebrei: e sono stati pochi», aveva urlato la donna. Di fronte a lei, separati da alcuni agenti in borghese (che stavano tentando di mettere pace), vi erano soltanto congiunti di gente uccisa alle Ardeatine o massacrata dai nazisti nei campi di sterminio. Era inevitabile un’esplosione di furore. E fu un miracolo, tutto sommato, se i missini riuscirono a lasciare la zona con le loro gambe. Alcuni ebrei finirono al commissariato. Verso mezzanotte, quando nell’area del ghetto gli animi ancora non s’erano placati, un paio di automobili propagandistiche del Msi passarono lungo il “confine”. Furono bloccate dagli ebrei e alcuni degli occupanti, di lì a poco, dovettero farsi medicare ai vicini posti di pronto soccorso. L’indomani venne ripresa, tanto dai dirigenti della comunità quanto dalla polizia, un’opera intesa a sdrammatizzare la situazione. Un’opera, questa volta, più difficile delle altre volte. Ma la sera di martedì i missini tornarono alla carica, per compiere una dimostrazione di rappresaglia. Con sei automobili raggiunsero il lungotevere Cenci e intonarono i loro canti. Avevano fatto i conti senza i picchetti di difesa.

Gruppi di ex deportati si diressero minacciosi verso di loro. Tre macchine riuscirono a svignarsela; altre tre furono raggiunte all’altezza di ponte Garibaldi. Si ebbero tumulti, che costrinsero la polizia a usare i manganelli senza andar troppo per il sottile. Dopo quel nuovo incidente, che si accompagnò a un tentativo di “marcia contro il Msi” da parte degli ebrei (alcuni elementi interessati a soffiare sul fuoco avevano sparso la voce che i missini stavano organizzando una spedizione punitiva di proporzioni spettacolari), tornò la calma nel ghetto, ma non la pace. «I recenti episodi», ci ha detto il rabbino capo professor Elio Toaff, «non sono manifestazioni di intolleranza politica. Sono piuttosto manifestazioni che esplodono spontanee negli animi di coloro che hanno sofferto in modo crudele e inumano, che hanno visto i loro cari morire nelle camere a gas o alle Fosse Ardeatine, quando si sentono provocati da chi si dichiara apertamente erede della politica della persecuzione e degli stermini. Sentite in giro, chiedete la storia di ciascuno. Chiedete ai Calò, ai Terracina, ai Di Castro, ai Vivanti, a chi volete, nell’area del ghetto: ogni cognome è legato a una tragedia allucinante. Chiunque vi conterà sulle dita di una mano i superstiti, ma stenterà a fare il conto di coloro che non tornarono. Ne portarono via 2.091 (1.024 solo dal ghetto, tra cui 200 bambini: era il 16 ottobre 1943: ne tornarono 16, ndr). Solo pochissimi sono i reduci. Vivono qui, tra noi, uomini e donne, con i numeri di matricola impressi sulle loro carni dai nazisti: cifre che non si cancellano, come non si cancella il nostro dolore. Se i fascisti leggessero le lapidi, forse non troverebbero mai il coraggio di imbrattarle. Come potrebbero infangare i nomi dei sette uomini dei Di Consiglio, scolpiti uno sotto l’altro su una parete del Tempio? Tre generazioni. Da un uomo di quasi 70 anni a un bimbo di 12 anni. Tutti assassinati alle Ardeatine, uno accanto all’altro».

Renzo Trionfera
03 marzo 2009
da corriere.it
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