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Autore Discussione: GIANNI BONADONNA Il dolore inutile  (Letto 2587 volte)
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« inserito:: Gennaio 20, 2009, 04:53:40 pm »

20/1/2009
 
Il dolore inutile

 
 
GIANNI BONADONNA
 
Date a un malato la possibilità di sentirsi vivo, di uscire dalla gabbia del dolore. E ascoltate i suoi sogni; ce ne sono di incredibili. Nella metamorfosi da medico a paziente io ho sognato di diventare un insetto. Poi l’incubo kafkiano è finito: oggi mi ritrovo nella parte del conte di Montecristo, prigioniero del castello di If. Edmond Dantes venne ingiustamente arrestato e tradotto in una cella sotterranea del castello. Ci passò quattordici lunghissimi anni. Proprio il tempo che intercorre tra l’inizio del mio ictus e le sue ricadute. La riabilitazione è la fase più ardua di ogni terapia, certamente è quella più faticosa, proprio perché richiede a volte un tempo che sembra non finire mai. E poi c’è il dolore, la sua presenza costante. In certi momenti è così acuto che la forza d’animo necessaria per superarlo rasenta la pazzia.(...)

Il medico deve imparare a pensare come fa un malato. Bisogna avere l’umiltà di imparare da chi soffre. Si dice che la malattia dà un nuovo e profondo valore alla vita. Ci si concentra su obiettivi concreti, raggiungibili: si va subito alla sostanza. Ma non è vero che il malato vuole stare da solo o chiede di non essere disturbato. Io sto meglio quando sento i rumori della vita, quando ho molte cose da fare. E se ci riesco, le faccio. Il dolore che umilia la dignità di una persona è un’inutile tortura. Umanità è far cessare il dolore, avere in ogni ospedale la necessaria attenzione per rilevare e controllare la sofferenza del paziente. Il medico oggi ha quasi sempre gli strumenti per sconfiggere il dolore. Prendersi cura della persona vuol dire imparare a controllare il male che sconvolge una personalità, aumenta l’ansia, provoca depressione, astenia, anoressia, insonnia e interferisce con la volontà di vivere e di sopportare certe terapie. Bisogna attrezzare la sanità a una vera terapia contro il dolore, anche fuori dall’ospedale. Quanti malati devono finire i loro giorni nella sofferenza più atroce per rendere evidente questa nostra lacuna?

Umanizzare, nel vocabolario della lingua italiana, significa «far passare da uno stato primitivo a quello comunemente indicato con il nome di civiltà», e umanizzazione vuol dire rendere un ambiente più vivibile, conferirgli dignità umana. Questa dignità troppo spesso calpestata non richiede prestazioni mediche miracolose ma solo un’attenzione ai bisogni di chi soffre, uno sguardo più intenso a ogni aspetto della sua vita da malato, nel labirinto della sanità e nel percorso della malattia. (...)

Il dovere di consolare vale sempre, e non è un fatto di parole. Dipende da come si guarda un paziente, da come lo si tocca. E poi c’è l’arte del medico. Quella del ragionamento, della logica, dell’interazione di mille tessere diverse di un mosaico che bisogna ricomporre. Quest’arte deve ritornare a brillare nelle nostre università, per accrescere l’efficacia della medicina. Bisogna avvicinare la filosofia e la scienza, rimettere al centro degli studi il malato e la sua interezza. Non è vero che il tempo non c’è. Il tempo è diventato un alibi che il mercato ha trasformato in contabilità. Nessuno calcola quanto vale il tempo del malato. Quello perso nelle inutili attese o nei mille dubbi sulla scelta del posto dove farsi curare. Malgrado il malessere attuale della società medica e i disagi avvertiti dai professionisti della salute, i valori centrali, cioè gli antichi scopi della medicina, sono destinati a durare nel tempo finché ci sarà qualcuno da soccorrere e qualcuno che saprà soccorrerlo.


*dall’intervento del presidente della Fondazione Michelangelo-Istituto Nazionale dei Tumori, che uscirà su «Kos» n° 11, «Vincere la sofferenza», in libreria dal 22 gennaio
 
da lastampa.it
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