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Autore Discussione: Pietro ICHINO. -  (Letto 24826 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Marzo 20, 2012, 06:25:42 pm »

IL GIUDICE E LE SUE STATISTICHE

di Nicola Persico 16.03.2012

Studiare l'eterogeneità nelle decisioni giudiziarie è importante oltreché legittimo. Ma i dati statistici sui quali si fonda il ragionamento devono essere completi e interpretati con attenzione. Soprattutto quando si tratta di questioni delicate come l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una certa differenza nelle decisioni dei magistrati su uno stesso argomento è inevitabile, e anche opportuna, perché riflette diverse interpretazioni della legge. E la giurisprudenza deve essere plastica ed evolversi nel tempo, per adattarsi ai mutamenti nella società.

In un recente articolo sul Corriere della Sera, e in un altro, connesso, scritto per lavoce.info, si mette l’accento sulla variabilità dell’esito delle decisioni di diversi magistrati all’interno dei singoli tribunali: alcuni magistrati decidono più velocemente, o più a favore del convenuto, rispetto ad altri colleghi. Nei due articoli si argomenta che la variabilità dovrebbe indurre il legislatore a ripensare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che assegna al giudice la responsabilità di accertare se la causa del licenziamento sia giusta.

MAGISTRATI E ARTICOLO 18

Gli articoli hanno creato un certo rumore nell’ambiente giudiziario per (almeno) due motivi. Primo, perché propongono dati che sembrano mettere in discussione l’operato della magistratura. Secondo, perché l’obiettivo retorico dell’articolo sembra essere principalmente l’articolo 18, e quindi la magistratura sembra essere una “vittima casuale” all’interno dell’architettura dell’articolo.
Ho studiato alcuni degli stessi dati utilizzati in questi articoli, vorrei perciò aggiungere una mia prospettiva. Spero sia utile a chi si interessa della efficienza della giustizia, una importante questione per l’Italia.
Una prima osservazione è che la durata dei processi riflette il pregresso oltre all’operosità di un singolo magistrato. Se a un nuovo arrivato in sede viene addossato un forte carico di casi aperti, questo magistrato sarà necessariamente più lento in tutti, anche quelli futuri, nella misura in cui il pregresso si trascina e si accumula. Quindi, salvo un’analisi approfondita della durata dei processi basata sull’intera storia lavorativa del magistrato, i dati hanno un valore limitato.
Secondo: l’articolo 18 può piacere o non piacere, ma comunque richiede al giudice di rendere un giudizio sui fatti. È naturale aspettarsi qualche variabilità nel modo in cui giudici diversi interpretano uno stesso fatto; non foss’altro perché la giurisprudenza (applicazione delle norme ai fatti) deve essere plastica e si deve evolvere nel tempo, per adattarsi al mutare dei rapporti produttivi. La plasticità, ragionevolmente, non può realizzarsi istantaneamente e uniformemente fra i vari giudici. Quindi, non solo dobbiamo aspettarci qualche differenza fra i diversi giudici, ma è anche opportuno che ci sia. La vera questione è quanto sia grande la divergenza.

DIVERSE INTERPRETAZIONI DELLA LEGGE

È proprio la questione affrontata in un recente articolo accademico americano. (1) L’articolo inizia con la notazione che “certamente, l’esistenza di differenze di comportamento fra giudici refuta l’asserzione che il processo di aggiudicazione sia obiettivo e meccanico, ma questa asserzione non ha mai avuto molti sostenitori”. In altri termini, è ben noto che vi siano discrepanze nei tassi di aggiudicazione. Il contributo dell’articolo è di cercare di quantificare quante di queste discrepanze siano dovute a errori di applicazione della legge, e quante invece siano dovute a legittime differenze di interpretazione. L’analisi statistica proposta è troppo complessa per essere descritta qui, ma il risultato è che differenze anche grandi non necessariamente riflettono errore. Si guardi alle enormi discrepanze nella figura che segue e che si riferisce alle decisioni in materia di immigrazione del tribunale di New York. Si noti che il giudice Bain consente l’immigrazione in quasi il 90 per cento dei casi, mentre il giudice Jankun in meno del 5 per cento. E l’analisi statistica permette di concludere che, se più del 25 per cento dei casi è aperto a differenze di interpretazione, allora il tasso di errore desumibile dalla figura può essere inferiore al 10 per cento.
 
Le discrepanze italiane evidenziate dagli articoli sul Corriere della sera e lavoce.info sono molto inferiori a quelle dei giudici americani. Dunque il tasso di errore desumibile sarà inferiore al 10 per cento.
Ma, nel caso italiano, c’è un punto ancora più delicato, che ha a che vedere con la misurazione del fenomeno. Le statistiche addotte a supporto della discrepanza sono parziali. Per esempio, su lavoce.info si legge “A Milano, ad esempio, [il giudice meno favorevole al lavoratore] decide il 7 per cento dei casi a favore del lavoratore, mentre il suo collega all’estremo opposto decide a favore del lavoratore il 27 per cento dei processi”. Vero. Però è vero anche che la maggioranza delle decisioni (90 per cento per il primo giudice, e più del 60 per cento per l’altro) sono classificate come “altri esiti” o “conciliate”. Non è possibile sapere se le decisioni in queste categorie favoriscano il lavoratore o l’impresa. E quindi il dato statistico è parziale. In assenza di maggiori informazioni, è opportuno essere cauti nel rilevare una discrepanza.
Insomma, l’argomento degli articoli sul Corriere e lavoce.info è interessante. È legittimo e importante studiare l’eterogeneità nelle decisioni giudiziarie. È però necessario farlo in modo approfondito, data l’importanza di queste questioni.

(1) Fischman, Joshua B., “Inconsistency, Indeterminacy, and Error in Adjudication” (February 27, 2012). Virginia Public Law and Legal Theory Research Paper No. 2011-36. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=1884651.

da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002937.html
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 23, 2012, 11:12:55 pm »

La Lettera

Imperfetta ma funziona

La riforma del mercato del lavoro

Caro direttore,
del progetto di riforma che il governo ha presentato al Paese una cosa è indiscutibile: esso tende ad allineare il nostro sistema di protezione del lavoro a quelli dei nostri maggiori partner europei.

L'allineamento riguarda sia la disciplina dei licenziamenti, sia il riassetto dei cosiddetti ammortizzatori sociali; ed entrambi questi capitoli presentano qualche difetto, dovuto anche alle asperità e ai tempi stretti del confronto svoltosi nelle ultime settimane con le parti sociali, che possono e devono essere corretti. È importante però distinguere bene il dissenso sui dettagli dal dissenso sull'ispirazione di fondo della riforma.

In materia di licenziamenti, il progetto propone di riservare la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, cioè l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ai casi nei quali è in gioco un diritto assoluto del lavoratore: quello alla pari dignità e alla libertà morale. Dove invece siano in gioco soltanto interessi professionali ed economici delle persone coinvolte, propone una tecnica protettiva diversa, pacificamente praticata in tutti gli altri ordinamenti europei, fatta di indennizzo economico e sostegno del reddito: in questo, oltre che nel superamento del dualismo fra protetti e non protetti, sta essenzialmente il senso della riforma. Se fosse ben chiaro il consenso su questa scelta da parte di tutte le forze politiche che sostengono il governo, non sarebbe affatto difficile trovare nelle prossime settimane l'accordo sulla correzione di alcuni aspetti del progetto che appaiono un po' troppo tagliati a colpi di accetta. Vediamone alcuni.

Innanzitutto, l'indennità prevista nel caso di licenziamento per motivi economici dovrebbe essere garantita al lavoratore sempre e automaticamente, per evitare l'alea della controversia in tribunale e al tempo stesso per farne un efficace filtro automatico delle scelte imprenditoriali; per altro verso, in coerenza con l'idea di una tutela della stabilità che cresca col crescere dell'anzianità di servizio, si potrebbe rimodulare l'indennità di licenziamento in modo che essa consenta una maggiore facilità di recesso nella prima fase del rapporto e protegga invece di più il lavoratore che è da più tempo in azienda.

Quanto al trattamento riservato al lavoratore disoccupato, occorrerebbe valutare attentamente la possibilità di arricchirne il contenuto in termini di assistenza intensiva secondo le tecniche più progredite, responsabilizzando in proposito le imprese che licenziano e stimolando le Regioni a farsi carico della maggior parte del relativo costo, anche con il contributo del Fondo sociale europeo. Una volta stabilita l'entità complessiva dell'onere a carico dell'impresa che licenzia, sarebbe bene che solo una parte di esso consistesse nell'indennità dovuta immediatamente al lavoratore licenziato, mentre un'altra parte dovrebbe consistere in un trattamento complementare di disoccupazione che incentivi l'impresa stessa ad attivare i servizi migliori di outplacement , capaci di accelerare al massimo il percorso verso la nuova occupazione.

Questi potrebbero essere alcuni dei contributi positivi del Parlamento al miglioramento del progetto governativo. Si profila invece una discussione di tutt'altro genere tra le parti politiche. Con la Lega - del tutto dimentica della propria politica del lavoro negli ultimi dieci anni - che si incaricherà della difesa «senza se e senza ma» del vecchio assetto dell'articolo 18, in contrapposizione frontale con il PdL, suo alleato di ieri, schierato con la stessa determinazione nel senso opposto.

Quanto al Pd, esso dovrà innanzitutto chiarire a se stesso e all'opinione pubblica se condivide la scelta di fondo di armonizzare il nostro ordinamento del lavoro rispetto al resto d'Europa, cercando in particolare di allinearsi agli standard dei Paesi più avanzati. L'incertezza del Pd su questo terreno è tanto più incomprensibile, se si considera che questo progetto del Governo è in gran parte costruito con materiali programmatici prodotti proprio dal dibattito interno di questo stesso partito. È stato soprattutto il Pd, in questi ultimi anni, a denunciare il regime di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti nel tessuto produttivo italiano. È frutto di una elaborazione proposta in quattro disegni di legge democratici di questi anni la tecnica normativa adottata nel progetto del Governo per contrastare l'abuso delle collaborazioni autonome in posizioni di lavoro sostanzialmente dipendente. È stata lanciata nell'assemblea programmatica di Genova del 2010 la proposta di far costare il lavoro a tempo indeterminato un po' meno di quello a termine. Infine, non ultima per importanza, è enunciata nel manifesto di politica del lavoro del Pd del marzo 2008 la parola d'ordine «coniugare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza di tutti i lavoratori nel mercato».

La riforma proposta dal governo non realizzerà quella coniugazione nella misura «massima possibile»; così come non supererà del tutto il dualismo fra protetti e non protetti, ma per la prima volta nella storia della Repubblica muoverà un passo molto deciso in entrambe le direzioni. Il Pd è nato anche per promuovere questo cambiamento, questo spostamento di equilibrio complessivo del sistema; sarebbe curioso che ora rinnegasse la propria vocazione originaria.

Pietro Ichino

22 marzo 2012 | 10:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #32 inserito:: Marzo 24, 2012, 04:43:17 pm »

LA ROULETTE RUSSA DELL'ARTICOLO 18

di Andrea Ichino e Paolo Pinotti

03.03.2012

La protezione di un diritto fondamentale della persona è affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi per cause di lavoro a giudici molto diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione. È quanto emerge da una ricerca sulle cause tra lavoratori e datori di lavoro nei tre maggiori tribunali italiani: Milano, Roma e Torino. Gli esiti di ogni azione sono affidati, in ultima istanza, al caso.

“Monetizzare i diritti” è considerato un segno di inciviltà da una parte dell’opinione pubblica italiana, che in alternativa preferisce affidare la loro tutela ad un procedimento giudiziale. Ad esempio, per difendere il lavoratore da licenziamenti ingiusti si preferisce chiedere al giudice di valutare l’esistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa, invece di stabilire, come accade in altri paesi, un prezzo monetario, magari molto alto, che l’azienda debba pagare al lavoratore per essere libera di sciogliere il rapporto di lavoro.

I TRIBUNALI DI MILANO, ROMA E TORINO

Ma, fanno bene i lavoratori ad affidare ai giudici la tutela dei loro diritti? Abbiamo selezionato i casi di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, iscritti a ruolo nei Tribunali di Milano, Roma e Torino negli anni 2003-2005.  Si tratta, rispettivamente, di 3419, 6444 e 1736 casi nelle tre città, affidati a 22, 56 e 14 giudici, con un carico medio per giudice di 155, 115 e 124 di questi casi. Abbiamo escluso i giudici (e i relativi casi) che in questi tre anni hanno ricevuto in assegnazione meno di 50 processi per licenziamento. Queste esclusioni ci consentono di confrontare tra loro solo giudici che abbiano trattato un campione statisticamente significativo di casi. (1) Per il 98 per cento  di queste controversie osserviamo la storia completa, dall’iscrizione a ruolo alla conclusione che normalmente coincide con il deposito della sentenza (in primo grado) o con la conciliazione. (2) Quindi possiamo calcolare la durata completa della quasi totalità di questi processi per licenziamento.
La Tabella 1 mostra che la durata media è molto diversa nei tre tribunali: 266 giorni a Milano, 429 a Roma e 200 a Torino. Se le cause di licenziamento fossero simili nelle tre città, verrebbe naturale chiedersi per quale motivo i lavoratori di Roma (e i rispettivi datori di lavoro) debbano aspettare il doppio di quelli di Torino e oltre un terzo in più di quelli di Milano per conoscere la loro sorte.
Però è possibile che i casi di Roma siano più complessi di quelli delle altre città e quindi richiedano più tempo per essere decisi. Il confronto corretto può solo essere fatto tra giudici di uno stesso tribunale, perché, all’interno di ciascuna sede, i processi iscritti a ruolo sono assegnati a sorte tra i diversi magistrati. Quindi, per la legge dei grandi numeri, ogni giudice di uno stesso ufficio dovrebbe avere, mediamente, casi di pari complessità. Per questo motivo consideriamo solo giudici che abbiano ricevuto almeno 50 assegnazioni nel periodo considerato. E questo ci consente di verificare statisticamente che, in effetti, le caratteristiche osservabili dei processi assegnati ai diversi giudici sono mediamente simili. Ad esempio, lo sono le proporzioni di ricorsi per giusta causa o giustificato motivo.

C’È GIUDICE E GIUDICE

Nella Figura 1, ogni barra verticale corrisponde ad un giudice e l’altezza della barra misura la durata media dei processi per licenziamento a lui o lei assegnati casualmente. È evidente che, all’interno di ciascun tribunale, i tempi medi di conclusione dei processi non sono simili per i diversi giudici, nonostante i casi loro assegnati abbiano complessità comparabili. La Tabella 1 indica, ad esempio, che a Roma il lavoratore e l’impresa che per sorte vengano assegnati al giudice mediamente più veloce possono sperare di veder decisa la loro causa in 179 giorni. I giorni diventerebbero invece 693 se venissero assegnati al giudice più lento: un incremento di quasi 4 volte. Se, prudenzialmente, vogliamo escludere i giudici più lenti o più veloci del 10 per cento dei  loro colleghi, il lavoratore e l’impresa fronteggerebbero, sempre a Roma, una forbice di durate che varia da 284 a 569 giorni: un incremento di oltre 2 volte tra la durata inferiore e quella maggiore. A Milano e Torino le differenze tra giudici veloci e lenti non sono meno sorprendenti: escludendo gli outliers, si passa da 193 a 333 giorni nel capoluogo lombardo e da 97 a 318 in quello piemontese. Anche in questi tribunali, quindi, le durate dei processi possono, rispettivamente, quasi raddoppiare o più che triplicare a seconda del giudice a cui il caso viene per sorte assegnato.

COME UNA LOTTERIA

Per l’impresa, la lotteria generata da questa forbice di durate è particolarmente costosa perché qualora il giudice decidesse in favore del lavoratore, il datore di lavoro dovrebbe versare a lui o lei non solo la retribuzione non pagata nelle more del giudizio e i relativi contributi sociali. Dovrebbe anche pagare all’Inps una multa sostanziosa per gli omessi contributi sociali, multa che aumenterebbe o diminuirebbe a seconda di quanto tempo impiega il giudice a decidere.
Però la domanda che ci siamo posti è se convenga ai lavoratori affidarsi ai giudici per tutelare i loro diritti e, da questo punto di vista, i costi per le imprese legati ai tempi di decisione possono apparire poco rilevanti. Sebbene sia difficile pensare che questi tempi siano irrilevanti per un lavoratore, essendo in gioco la possibilità di rimanere senza stipendio per 693 giorni invece che 179, come ad esempio accade a Roma, è probabile che ciò che conta maggiormente per i lavoratori sia la probabilità che il loro ricorso contro il licenziamento sia accolto. Ma anche in questo caso, dai dati emerge che l’accertamento giudiziale del giustificato motivo è una roulette russa.
La Figura 2 descrive la probabilità dei diversi esiti di un processo per licenziamento nei tribunali di Milano e Roma (il dato non è disponibile per Torino). Per ogni giudice, fatto 100 il numero totale dei processi a lui o lei assegnati, le quattro parti della barra verticale misurano le proporzioni di sentenze favorevoli al ricorrente (ossia il lavoratore nella stragrande maggioranza dei casi), (3) di sentenze favorevoli al convenuto (il datore di lavoro), di conciliazioni e di altri esiti.

L’INCERTEZZA DELL’ESITO

A Milano, ad esempio, l’ultimo giudice sulla destra della tabella è favorevole al lavoratore circa 4 volte più frequentemente che il primo giudice sulla sinistra. Quest’ultimo infatti decide il 7 per cento dei casi a favore del lavoratore, mentre il suo collega all’estremo opposto decide a favore del lavoratore il 27 per cento dei processi. L’incertezza di esito a seconda del giudice assegnato è ancora maggiore per l’impresa che può passare da un giudice a lei favorevole solo nel 2 per cento dei casi fino ad un giudice che invece le da ragione nel 20 per cento dei casi, con un incremento di ben 10 volte della probabilità di vittoria. A Roma, è la probabilità di vittoria del lavoratore che può aumentare di  10 volte a seconda del giudice: dal 4 per cento del primo giudice a sinistra nella Figura 3, al 40%  dell’ultimo giudice sulla destra. La forbice per le imprese è invece più contenuta, ma sempre considerevole, passando dal 4 per cento al 19 per cento di probabilità di vittoria. È interessante notare che mentre a Milano nessun giudice emette sentenze favorevoli alle imprese più frequentemente di quelle favorevoli al lavoratore, a Roma i lavoratori non possono certamente contare su una totalità di giudici a loro favorevoli.
Purtroppo non abbiamo dati sufficienti per valutare quale delle due parti possa considerare la conciliazione come una quasi-vittoria. Ma, in ogni caso, anche la probabilità di questo esito varia molto tra i giudici nonostante il loro portafoglio di casi sia simile. A Milano si passa infatti da giudici che inducono le parti ad una transazione nel 49 per cento dei casi, fino a giudici per cui questo esito si verifica nel 76 per cento delle controversie, mentre a Roma la differenza tra le percentuali corrispondenti è ancora più ampia, passando dal 27 per cento al 69 per cento.
Sotto l’ipotesi che la frazione di sentenze favorevoli al lavoratore emesse da un giudice sia proporzionale al grado in cui le conciliazioni indotte dallo stesso giudice siano favorevoli al lavoratore, possiamo concludere che, anche tenendo conto dell’elevato numero di conciliazioni, la lotteria derivante dall’assegnazione casuale dei processi ai magistrati di un tribunale implica probabilità di vittoria molto differenti a seconda della sorte.

QUEL CHE I SINDACATI NON SANNO

Se a tutto questo si aggiungono i risultati di uno studio del 2003 di Michele Polo, Enrico Rettore e Andrea Ichino, secondo cui giudici diversi decidono diversamente casi molto simili a seconda della regione in cui il rapporto di lavoro ha luogo e in funzione del tasso di disoccupazione locale, viene naturale chiedersi se davvero affidarsi alla magistratura sia un buon modo per tutelarsi dal punto di vista dei lavoratori, data l’alea che questo affidamento implica.
Forse i lavoratori e i sindacati pensano che sia meglio così solo perché non hanno mai visto questi numeri. Ma la nostra impressione è che questo stato di cose serva solo ad arricchire gli avvocati e costringa i giudici ad occuparsi di controversie che potrebbero benissimo essere risolte in altro modo: ad esempio stabilendo un prezzo adeguato per la possibilità di licenziare, quando ovviamente il motivo non sia discriminatorio e il lavoratore non abbia commesso colpa grave.
In ogni caso, se davvero la disciplina attuale dei licenziamenti fosse posta a protezione di un diritto fondamentale della persona, come può ammettersi che questa protezione sia affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi a giudici così diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione.
 
 
 
 

(1) Il numero totale di giudici che in qualche momento dei tre anni considerati hanno prestato servizio nelle Sezioni Lavoro dei tre tribunali è stato quindi superiore a quello indicato:  di 6 unità a Milano, di 10 a Roma e di 1 a Torino.
(2) In una minoranza di casi sono possibili anche altri esiti, come ad esempio la dichiarazione di incompetenza territoriale da parte del giudice. In questi casi la durata del processo viene calcolata dall’iscrizione a ruolo alla data dell’evento di chiusura del caso.
(3) Per il Tribunale di Roma, ad esempio, possiamo verificare che il ricorrente è persona fisica nel 97.2% dei casi.
(4) “Are judges biased by labor market conditions”  European Economic Review, 2003. In particolare, i giudici decidono in modo più favorevole al lavoratore quando il tasso di disoccupazione è alto e viceversa. Lo studio è basato sui dati di una grande banca italiana con sedi sparse sull’intero territorio nazionale e analizza non solo i casi che arrivano in giudizio ma la totalità delle controversie tra questa azienda e i suoi lavoratori, così come identificate dalle lettere con cui l’azienda ha contestato ai lavoratori le loro mancanze. Lo studio mostra anche che i casi che arrivano a sentenza non sono necessariamente rappresentativi dei casi potenziali, proprio per via dell’orientamento atteso dei giudici. Se le aziende si attendono giudici maggiormente orientati a favore dei lavoratori, licenziano solo in casi estremi che possono essere vinti in giudizio.

da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002912.html
« Ultima modifica: Marzo 24, 2012, 04:45:08 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 24, 2012, 04:46:38 pm »

LA RISPOSTA DEGLI AUTORI A LEONE E TORRICE

di Andrea Ichino e Paolo Pinotti 12.03.2012



Ringraziamo la Dr. Margherita Leone e la Dr. Amelia Torrice per il loro importante contributo al dibattito originato dal nostri articoli su Lavoce.info e sul Corriere.  Stiamo imparando moltissimo da questo dibattito grazie ai magistrati che vi stanno partecipando, dedicandovi tempo prezioso. Siamo molto grati a loro e speriamo che questo dibattito possa essere loro utile come lo è a noi economisti. Certamente non per avere l’ultima parola, ma solo per continuare questa fertile interazione interdisciplinare, proponiamo le riflessioni che il commento di Leone e Torrice ci hanno suggerito.

RIDURRE LE VARIBILITÀ

Ridurre la variabilità dei tempi di decisione dei giudici di una stessa sede attraverso la concentrazione del processo e una migliore organizzazione dell’agenda delle udienze, è l’obiettivo primario delle sperimentazioni (alle quali Andrea Ichino lavora insieme a Nicola Persico e Decio Coviello) iniziate presso la Corte d’Appello e il Tribunale di Roma grazie all’eccezionale impegno e disponibilità a mettersi in gioco di alcuni magistrati romani, tra cui in particolare le Dr. Leone e Torrice.  La durata media dei processi di un ufficio, infatti si può ridurre soprattutto diminuendo le durate di maggiore entità dei singoli magistrati. Quindi, in questo caso, ridurre la variabilità significa anche ridurre la durata media dei processi. In qualsiasi campo dell’attività umana individui diversi si comportano in modi diversi. Perché allora porre il problema per i giudici? Normalmente, è difficile misurare quanto della variabilità osservata nei risultati dipenda dalla variabilità dei comportamenti individuali o dalla variabilità dei compiti a assegnati agli individui. Nel caso dei giudici di una stessa sede, però, i processi sono essenzialmente assegnati a sorte proprio per assicurare il rispetto dell’articolo 25 della Costituzione. Per la Legge dei Grandi Numeri, questo implica che gli insiemi di casi assegnati a giudici diversi siano “simili”, ma non nel senso che “di notte tutti i gatti sono neri”.
Supponiamo di avere un processo “Testa” e un processo “Croce” e di assegnarne il primo a Ichino e il secondo a Pinotti: essi quindi dovranno lavorare su processi diversi tra loro, che potrebbero evidentemente originare, in modo del tutto giustificato, tempi di decisione ineguali.  Supponiamo invece di avere 100 processi ciascuno dei quali possa essere - con pari probabilità - di tipo “Testa” o di tipo “Croce”. Se ne assegnamo “a caso” 50 a Ichino e 50 a Pinotti, ciascuno di loro avrà circa 25 processi “Testa” e 25 processi “Croce”. Quindi, anche se i processi continuano ad essere distinti in due categorie (i gatti possono essere bianchi o neri), Ichino e Pinotti hanno complessivamente una quantità e qualità di lavoro comparabili. Se i loro tempi di decisione differiscono, il motivo non può essere il carico di lavoro, ma solo il loro modo di lavorare. Nulla cambia in questo ragionamento se i processi, invece di essere “monete a due facce” sono “dadi a 6, 12, 24 o N facce”.
Dal punto di vista del cittadino che va in giudizio, questa situazione genera una variabilità casuale di risultati analoga a quella del paziente che venga assegnato a caso al medico di un pronto soccorso o a quella dello studente che non possa scegliere il docente da cui imparare.  Qualsiasi organizzazione, però mira a ridurre queste variabilità, proprio perché costose per il cittadino, se il cittadino non può scegliere da chi farsi servire.
Come già detto, le sperimentazioni in corso a Roma hanno proprio come obiettivo di ridurre la variabilità nei tempi cercando di trovare, insieme ai giudici, i modi organizzativi più efficaci per diminuire soprattutto le durate più lunghe, dato ovviamente non si può comprimere ciò che invece è già ai minimi possibili.
Per quel che riguarda invece la variabilità delle decisioni, le Dr. Leone e Torrice ci ricordano che i magistrati già mettono in campo strategie finalizzate alla “formazione di orientamenti comuni, condivisi” e che comunque la Cassazione (seppure in tempi ancor più lunghi) dovrebbe assicurare l’uniformità dei risultati finali a parità di fattispecie. Ne prendiamo atto: ecco un esempio di quello che anche noi stiamo imparando da questa eccezionale interazione tra discipline.

IL PROBLEMA DELL'OGGETIVITÀ

Ma, almeno per quel che riguarda i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, esiste anche un altro modo di risolvere il problema. Ed è quello di non ricorrere al magistrato per queste controversie e di istituire, invece, un filtro automatico, costituito da un costo per l’impresa pari alla perdita futura la cui previsione si ritiene possa giustificare il licenziamento, lasciando al giudice il solo controllo – questo si davvero insostituibile - circa l’eventuale motivo occulto discriminatorio o comunque illecito. La valutazione dell’esistenza di un giustificato motivo oggettivo è paradossalmente ... molto soggettiva, e certamente non dipendente da sofisticate valutazioni di tipo giuridico, dato che la legge non dice proprio nulla su che cosa sia un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ossia non dice: “se la perdita attesa dall’impresa per la prosecuzione del singolo rapporto è X allora il licenziamento è giustificato, mentre se è meno di X è ingiustificato”. La perdita X sarà giudicata sufficiente per il licenziamento da qualche giudice e insufficiente da altri (per non dire della ineliminabile aleatorietà di qualsiasi “accertamento” – che in realtà sarebbe una valutazione “prognostica”,  avente per oggetto un evento futuro: la perdita attesa, appunto).
In questi casi quindi, la variabilità di decisioni è inevitabile, essendo dovuta all’oggetto stesso della decisione. Almeno per questi casi ci sembra che valga la pena di riflettere sull’opportunità di sostituire il ricorso al giudice con altri strumenti, come quelli peraltro in uso normalmente in altri paesi: i cosiddetti “Severeance payments”. Ossia trasferimenti monetari, elevati a discrezione del legislatore, che l’impresa deve effettuare a vantaggio del lavoratore per poter sciogliere il rapporto evitando una controversia giudiziale.
Non siamo sicuri che questo metodo sia preferibile, ma suggeriamo ai magistrati e al legislatore che, almeno per i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa essere preso in seria considerazione come ipotesi da valutare. Se non altro perché così accade in molti altri Paesi. E nella valutazione circa i pro e i contro di questa soluzione rispetto alla disciplina attuale della materia ci sembra che sia indispensabile l’evidenza fornita da ricerche come quella resa possibile dalla disponibilità dei dati sul funzionamento degli uffici giudiziari.

da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002931.html
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« Risposta #34 inserito:: Aprile 01, 2012, 12:04:44 pm »

Inchiesta sui contratti

Se otto su dieci ritrovano un posto

In Veneto l'81% di chi perde il posto lo ritrova in un anno.

Il mistero dei numeri


Caro Direttore,

Monti e Fornero hanno dalla loro un argomento fortissimo: il progetto di riforma che il governo sta per presentare in Parlamento allinea il nostro diritto del lavoro a quello degli altri Paesi europei. Ma a questo argomento gli italiani che difendono l'articolo 18 ne contrappongono uno altrettanto forte: l'Italia non è come gli altri Paesi europei, perché da noi il lavoro manca; chi lo perde ha una enorme difficoltà a ritrovarlo.

Ora, la difficoltà a ritrovarlo - e ancor più a trovarlo per la prima volta -, in Italia, è indiscutibile; e ne vedremo i motivi specifici nella prossima puntata. Ma di lavoro da noi ce n'è molto più di quanto si pensi, anche in questo periodo di vacche magre (e potrebbe essercene ancor di più se fossimo capaci di abbattere il diaframma che separa domanda e offerta di manodopera: sarà questo il tema della terza puntata).
La prima tabella mostra il numero dei contratti di lavoro dipendente che sono stati stipulati nel corso del 2010 in ciascuna delle nove Regioni che sono in grado di fornire questo dato. Un numero sorprendentemente alto: nell'occhio del ciclone della crisi più grave dell'ultimo secolo, queste Regioni hanno fatto registrare in un anno circa quattro milioni di contratti di lavoro.

Vero è che, se si disaggregano questi dati, ne risulta solo un milione circa di contratti a tempo indeterminato. Ma anche solo un milione è un bel numero, se si considera che le persone rimaste nello stesso periodo senza il posto per crisi occupazionali aziendali si misurano con uno o due zeri di meno. Per esempio: in Veneto, tra l'ottobre 2010 e il settembre 2011, gli assunti a tempo indeterminato sono stati 145.600. Nel corso del 2011, coloro che hanno perso il posto per licenziamenti collettivi sono stati 11.807; e per licenziamenti individuali (quasi tutti in imprese sotto i 16 dipendenti) 22.671. Dunque: nella stessa regione, pur in un periodo di grave crisi, per ogni licenziato sono stati stipulati quattro contratti a tempo indeterminato.

Ancora nel Veneto - la regione che fornisce i dati più aggiornati, completi e analitici - risulta che negli ultimi anni quattro persone su dieci che hanno perso il posto lo hanno ritrovato in tre mesi, otto su dieci lo hanno ritrovato entro un anno. È all'incirca la stessa cosa che emerge, da una ricerca della Banca d'Italia su dati Inps per il periodo 1998-2005, in riferimento all'intero territorio nazionale: anche da quei dati, sorprendentemente, risulta che otto italiani su dieci ritrovavano il lavoro entro un anno da quando lo avevano perso. La differenza, fra prima e dopo lo scoppio della grande crisi, è che appare molto peggiorato il rapporto tra assunzioni a tempo indeterminato e a termine, o comunque con contratti precari.

Se le cose stanno così, come si giustifica il fatto che diamo normalmente per scontata la prospettiva di anni e anni di cassa integrazione per chi perde il posto? Per esempio: in quello stesso Veneto nel quale sono stati stipulati 145.000 contratti a tempo indeterminato nel corso dell'ultimo anno, ci sono due aziende - la Iar Siltel di Bassano del Grappa e la Finmek di Padova - dove poche centinaia di lavoratori sono in cassa integrazione da sette anni. Non è forse questo il segno di un modo profondamente sbagliato di affrontare il problema della perdita del posto di lavoro nel nostro Paese?

Sento già l'obiezione: questi sono dati riguardanti il Centro-Nord, ma nel Mezzogiorno le cose vanno in modo molto diverso. È vero; ma al Sud le cose vanno in modo meno diverso di quanto si pensi. La seconda tabella ci fornisce il dato complessivo dei rapporti di lavoro attivati al Nord, al Centro e al Sud.

Anche al Sud, dunque, le occasioni di lavoro ci sono. Certo, ne occorrono di più, perché anche così il tasso complessivo di occupazione in Italia è troppo basso; perché se aumenta la domanda aumentano le retribuzioni e la forza contrattuale dei lavoratori; ma già oggi i nuovi contratti si contano a milioni ogni anno. La ricerca del posto dovrebbe apparirci come un succedersi di gare di dieci concorrenti per nove posti; perché invece abbiamo questa percezione del nostro mercato del lavoro - e soprattutto di quello meridionale - come di un grande «buco nero», di una trappola infernale dalla quale tenersi il più possibile alla larga? Come si spiega che, con tutti questi contratti di lavoro stipulati ogni anno, sia effettivamente così difficile per i disoccupati trovare un posto nel tessuto produttivo italiano?
Cercheremo di rispondere a questa domanda nella prossima puntata, mettendo a fuoco il muro - più alto e più spesso rispetto ai Paesi del Centro e Nord Europa - che da noi separa la domanda dall'offerta di lavoro. Qui c'è ancora spazio per un'osservazione: dalla riforma costituzionale del 2001, le nostre Regioni hanno una competenza legislativa e amministrativa piena in materia di servizi al mercato del lavoro e tutte ovviamente spendono risorse rilevanti per questo capitolo di bilancio; ma, dal Lazio in giù, nessuna delle nostre Regioni è in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio. Per non dire di tutti gli altri dati disaggregati che sarebbero indispensabili per governare efficacemente l'incontro fra domanda e offerta. Se esse stesse non conoscono nulla del proprio mercato del lavoro, come possono farlo conoscere ai lavoratori che ne avrebbero bisogno?


Pietro Ichino senatore Pd
www.pietroichino.it

( 1 - continua )


http://www.corriere.it/economia/12_aprile_01/ichino-lavoro-inchiesta_50932c7c-7bc4-11e1-95a2-17cafbbd8350.shtml
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« Risposta #35 inserito:: Novembre 23, 2012, 04:53:26 pm »

politica

21/11/2012


Ichino ai senatori: “Se il partito fattura online guadagnerà più fiducia”


Nel dibattito sulla rendicontazione dei gruppi politici il professore Pd spiega che “bastano pochi secondi” per una maggiore trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica

 Francesco Grignetti

 Roma


Nel corso del dibattito al Senato sulla rendicontazione dei gruppi politici, contro le resistenze di chi non vorrebbe assolutamente pubblicare on-line le fatture del proprio gruppo parlamentare, e si appella a questioni di privacy, o di complessità, il professo Pietro Ichino, Pd, stamattina ha svolto di fronte ai paludati senatori una brillante sintesi sulle operazioni digitali che si richiederebbero ai tesorieri dei gruppi.
 
 
 
“Qualcuno - ha detto Ichino - ha criticato i nostri emendamenti, osservando che può essere eccessivamente oneroso costringere l’amministratore del Gruppo a mettere on line ogni fattura ed ogni contratto. Mettiamoci d’accordo su questo punto: mettere on line una fattura, uno scontrino o un contratto richiede pochi secondi. Si tratta semplicemente di fare una fotocopia digitale, un file in formato pdf, e con un clic collegare quel file in pdf alla voce di spesa che mettiamo on line in altrettanti pochi secondi: è un minuscolo aggravio di fatica, ma è un enorme svolta nei confronti dell’opinione pubblica. So che è stato sollevato qualche dubbio sull’ammissibilità di questi emendamenti sotto il profilo della protezione della privacy. Chiedo in modo accorato alla Presidenza del Senato di riflettere a fondo su questo punto, perché la tutela della riservatezza è un diritto costituzionale riservato alla persona fisica; usare il principio della riservatezza per impedire la visibilità della cosa pubblica è una delle ipocrisie e delle storture più gravi che possono essere compiute oggi a danno dalla democrazia del nostro Paese”.
 
 
 
Gli ha risposto indirettamente il senatore Lucio Malan, Pdl: “Abbiamo sentito delle descrizioni fantascientifiche su quanto avviene in altri Paesi. La realtà è che nel nostro Parlamento già oggi vi è una trasparenza che non ha paragoni con l’accessibilità ai dati che c’è nella quasi totalità degli altri Parlamenti, a cominciare da quelli dei Paesi membri dell’Unione europea. Con il provvedimento approvato dalla Giunta per il Regolamento - e che noi approveremo in questa o in altre sedute - si vuole estendere ulteriormente questa trasparenza ai bilanci dei Gruppi, che fino ad oggi non hanno avuto forme di pubblicità o di riscontro, nel rispetto di un principio di riservatezza che i partiti di allora - pensiamo che queste regole nascono negli anni Quaranta vollero introdurre, in un’epoca in cui nessuno si sentiva tutelato rispetto a eventuali accessi esterni a questioni interne ai Gruppi”.


DA - http://www.lastampa.it/2012/11/21/italia/politica/ichino-ai-senatori-se-il-partito-fattura-online-guadagnera-piu-fiducia-MIr4yBtl5PyUWaQhon99xJ/pagina.html
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« Risposta #36 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:50:27 pm »

Pietro Ichino, il web lo attacca "Chieda scusa per essere passato a Monti"

Il senatore ha lasciato il Pd e rivela: "Molte delle tesi esposte nell'agenda di Monti sono le stesse di un documento che presentai lo scorso 29 settembre.

I due scritti sono praticamente sovrapponibili"


"Dietro Monti c'è Pietro Ichino". Il senatore ormai ex democratico, è al centro di una vivace polemica su Twitter. Il social network dedica al giuslavorista un hashtag, #scusatipietro, molto frequentato, in cui si chiede ad Ichino di scusarsi con il Pd per essere passato con Monti.
Il professore, secondo la maggioranza degli interventi, avrebbe tradito il partito che lo ha eletto in parlamento, decidendo di candidarsi al Senato con la lista dell'agenda Monti nella circoscrizione della Lombardia. "Senza polemiche, ma penso che elettori e volontari delle primarie meritino una spiegazione". Lo scrive, ad esempio, Matteo Orfini, responsabile cultura del Pd, su Twitter, partecipando al dibattito innescato dall'hashtag.

A rinfocolare la polemica era venuto fuori anche un piccolo giallo, a metà tra politica e tecnologia. Dagospia osserva che il file con estensione 'pdf' dell'agenda Monti, pubblicato sul sito del Corriere della Sera, è stato creato dal 'prof. Pietro Ichino'.
La coincidenza tra questo fatto e l'abbandono del Pd da parte di Ichino ha alimentato in rete numerosi sospetti.

Ma lo stesso Ichino precisa che non c'è nessun mistero: l'Agenda Monti è anche farina del sacco del senatore, che proprio oggi ha annunciato di essere pronto a guidare una lista che sostiene il premier dimissionario in Lombardia, perchè,  spiega, "la risposta negativa di Bersani al bellissimo discorso di Monti di ieri è per me decisiva".

"Non c'è nessun mistero, nè alcun giallo: tutto è stato fatto alla luce del sole. Molte delle tesi esposte nel "manifesto" di Monti - dice Ichino all'Adnkronos - sono le stesse di un documento che ho presentato il 29 settembre scorso in un'assemblea pubblica e sottoscritto da diversi parlamentari del Pd. Per quel che riguarda il lavoro, ad esempio, il documento di Monti e il nostro, che si chiamava "l'Agenda Monti al centro della prossima legislatura", sono praticamente sovrapponibili".

Ma sul Web si è scatenata anche l'ironia, pur non sottovalutando la polemica politica, per questa "sovrapposizione" tra i due documenti. "Hanno usato il pc a sua insaputa?". chiede ironicamente un utente. Molti commenti sono sulla stessa falsariga: "Che un senatore del Pd scriva un documento programmatico in competizione con il suo partito è perlomeno imbarazzante", twitta un altro utente. E' corretto, è la domanda di molti, "fingere di voler fare le primarie nel proprio partito mentre si sta scrivendo l'agenda di un altro schieramento"?, scrive un'altra.

Come se non bastasse, a rendere ancora più tortuosa la dinamica del divorzio tra Ichino e i democratici ci sono i fatti delle ultime ore.
Sei giorni fa Ichino aveva deciso di candidarsi alle primarie per i parlamentari. A rivelarlo era stato proprio Matteo Renzi, punto di riferimento del giuslavorista. Di più: Renzi s'era detto addirittura orgoglioso di stare nello stesso partito con una persona che non era in cerca di un posto sicuro, ma che preferiva affrontare la sfida elettorale.

Il quadro è cambiato tre giorni dopo, quando Ichino, in un'intervista al Corriere della Sera, ha minacciato di non correre alle primarie se Bersani non avesse smentito la linea di politica economica intestata a Stefano Fassina. In quella intervista, peraltro, Ichino si diceva già disponibile a fare il ministro di Monti.

In ogni caso, nelle successive 48 ore - come ha spiegato lo stesso Ichino - il silenzio di Bersani e la conferenza stampa di Monti hanno convinto il senatore democratico non solo a non correre più le primarie, ma ad optare per i centristi, lasciando di fatto il Pd.
Detto fatto, Ichino ha già anche un posto sicuro, come spiega sul suo sito. Sarà capolista dei montiani al senato in Lombardia.
Col porcellum, in quella regione si tratta di un posto praticamente blindato.

(24 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/24/news/pietro_ichino_il_web_lo_attacca_chieda_scusa_per_essere_passato_a_monti-49388368/?ref=HREA-1
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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 29, 2013, 10:56:10 pm »

 Sei in: Il Fatto Quotidiano > Lavoro & precari >

Ichino: “Pomigliano? Ce ne vorrebbero 100 di stabilimenti così”

Il giuslavorista, passato dalle file del Pd a quelle del premier Monti si è espresso a Torino durante un appuntamento organizzato da Italia Futura Giovani: "Marchionne non meritava di essere trattato così"

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 28 gennaio 2013


“Abbiamo bisogno in Italia non di uno ma di 100 stabilimenti come quello di Pomigliano”. Così il giuslavorista Pietro Ichino - da poco transitato dal Pd alle liste del premier uscente Mario Monti - partecipando a Torino ad una iniziativa della lista “Scelta civica Con Monti per l’Italia”, organizzata da Italia Futura Giovani. “A Pomigliano – ha aggiunto Ichino – in un anno e mezzo di lavoro non c’è stato neanche un infortunio. E’ un risultato straordinario”. Secondo Ichino “Marchionne non meritava di essere trattato così. Pomigliano – ha aggiunto – è stato premiato dall’Unione Europea come modello di stabilimento e noi vogliamo demonizzare Marchionne?”.

Ragionando in termini generali, per Ichino il problema è l’abbattimento del “muro tra domanda e offerta”. “In ogni regione italiana – ha aggiunto Ichino – ci sono decine di migliaia di posti di lavoro che restano scoperti per mancanza di manodopera qualificata. In Piemonte, per esempio, sono tra i 40 e i 50mila. Ciononostante, per assurdo, si tengono i lavoratori in cassa integrazione”. Secondo Ichino “occorre un sistema di formazione e orientamento concentrato sugli interessi dei lavoratori e delle imprese e non su quelli dei formatori”. Inoltre, per Ichino occorre mettere in campo “azioni per aumentare l’occupazione femminile dove siamo inchiodati al 46% da dieci anni quando l’obiettivo fissato dalla Ue è del 60%” . Infine, “và cambiata – ha detto ancora il giuslavorista/ la legislazione del lavoro che oggi è assolutamente illeggibile per gli stessi addetti ai lavori”.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/28/ichino-pomigliano-ce-ne-vorrebbero-100-di-stabilimenti-cosi/482613/
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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 04, 2013, 11:20:17 pm »

IL GIUSLAVORISTA E CANDIDATO AL SENATO CON IL PREMIER A CORRIERE.IT

Ichino: «Se avesse vinto Renzi sarei rimasto. Ora con Monti anche all'opposizione»

«Berlusconi racconta favole, ci sta riportando a un anno fa. Vendola e Fassina hanno smontato la carta d'intenti del Pd»



«Ci sta riportando all'autunno del 2011. Sta smontando tutto quello che ha fatto il governo Monti». E ancora: «Risarcire gli italiani dell'Imu significa ritornare a quando Berlusconi è stato costretto a dimettersi. Dove prende i 60 miliardi di euro in più che ci costerebbe lo spread a 500, con il tasso d'interesse sul Btp al 7%».
RIMODULARE L'IMU - Parole e pensieri di Pietro Ichino, giuslavorista candidato al Senato con Scelta Civica per Monti nella videochat di Corriere.it moderata da Daniele Manca e Massimo Rebotti. In quel momento così difficile nella storia recente italiana Ichino evidenzia come il Cavaliere non si parlasse neanche con il suo ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, «in una situazione di marasma generale». «Non è più tempo di credere alla sue favole», rincara Ichino replicando alla proposta-choc di Berlusconi lanciata domenica. La priorità è per il giuslavorista è, invece, rimodulare l'Imu sui redditi più bassi, tagliare l'Irpef sulle persone e l'Irap alle imprese.

«PERCHE' HO LASCIATO IL PD» - Sulla scelta di abbandonare il Partito Democratico condividendo la linea del premier uscente, Ichino ha risposto: «Se avesse vinto Renzi sarei rimasto e l'intera politica italiana ne avrebbe giovato. Io avevo sottoscritto solo una carta d'intenti all'inizio delle primarie del partito che impegnava a rispettare gli impegni presi con l'Europa su debito e deficit, ma il giorno dopo le consultazioni del Pd Nichi Vendola e anche il responsabile economico del partito (Fassina, ndr.) hanno smontato quella carta d'intenti».

«NON CON IL PD» - «Speriamo di aggregare tutte le forze che vengono da destra e sinistra che vogliano condividere la nostra agenda, sulla strada intrapresa dal governo Monti rispettando i sacrifici che abbiamo fatto in questo ultimo anno. Non è scritto da nessuna parte che dobbiamo per forza far parte di una maggioranza. Possiamo tranquillamente stare all'opposizione», dice Ichino contestando l'ipotesi di un accordo post-elezioni con il Partito Democratico in caso di impasse a Palazzo Madama.

LA RIFORMA DELLA PREVIDENZA - «E' stata fatta una riforma necessaria per riequilibrare la più grave ingiustizia fatta negli ultimi trent'anni. Fatta nei confronti dei nostri figli e a vantaggio degli attuali 50enni mandati in pensione troppo presto. Non dimentichiamo che era la richiesta dell'Europa, la condizione necessaria per far decollare il fondo Salva-Stati. E la contropartita era mettere in ordine i nostri conti pubblici», dice l'ex senatore dei democratici appoggiando l'ultima riforma Fornero in tema di previdenza.

LA LEGGE SUL LAVORO - E anche la riforma del lavoro dell'ultimo ministro del Welfare incontra il giudizio positivo di Ichino, soprattutto perché «ha attenuato la rigidità della flessibilità in uscita imposto dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e ha modificato la disciplina degli ammortizzatori sociali, finora sbagliata perché spesso mette in ghiacciaia per anni i lavoratori con le risorse della cassa integrazione in caso di crisi aziendale». «Sperimentiamo invece la riduzione del cuneo contributivo sul lavoratore», dice Ichino. «Il tempo indeterminato per tutti, ma meno rigidità in entrata e uscita. In caso di perdita del lavoro reddito e assistenza per la ricollocazione del lavoratore», sulla falsariga della flexsecurity di cui il giuslavorista è il maggiore teorico in Italia. «La priorità è non abbandonare nessuno, ma gli ammortizzatori sociali devono essere funzionali al reinserimento del lavoratore nel tessuto produttivo», spiega. «In più un trattamento di disoccupazione per i non salvaguardati subordinato alla disponibilità totale del lavoratore a riconvertirsi professionalmente», aggiunge.

Fabio Savelli

4 febbraio 2013 | 14:55

© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_febbraio_04/ichino-videochat-lavoro-monti_d66f2048-6eb8-11e2-87c0-8aef4246cdc1.shtml
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« Risposta #39 inserito:: Luglio 15, 2013, 06:11:24 pm »

Lettera sulla burocrazia Gli ostacoli che non aiutano il cittadino onesto

«La mia odissea per pagare una tassa» Marca da bollo, notaio, modulo F23, Pin...

Quando una burocrazia da Stato arrogante trasforma i cittadini in sudditi. Avanti e indietro tra gli sportelli


Caro direttore, la burocrazia che affligge il nostro Paese fa molto danno ai cittadini, ma forse ne fa ancora di più allo Stato stesso che la produce. Nei mesi scorsi ho ereditato con mio fratello l'appartamento in cui ha abitato mia madre; e lo abbiamo affittato. Da aspirante buon cittadino, decido di andare a registrare il contratto, per poterlo poi indicare nella denuncia dei redditi.

Uffici pubblici. Per ottenere risposte semplici dalla pubblica amministrazione in Italia occorre, incomprensibilmente, tempo e denaro.Uffici pubblici. Per ottenere risposte semplici dalla pubblica amministrazione in Italia occorre, incomprensibilmente, tempo e denaro.
L'impiegato che esamina la pratica osserva che sul contratto avrei dovuto apporre due marche da bollo, da 14,62 euro l'una. Vado dunque a comprarle e torno con le marche da bollo; sennonché l'impiegato osserva che le marche avrebbero dovuto recare una data anteriore a quella della stipulazione del contratto e ci aggiunge una sanzione di euro 3,65 (ma perché mai, dal momento che la registrazione, per legge, può avvenire fino a 30 giorni dopo la stipulazione?).

A questo punto, l'impiegato rileva che i proprietari sono due: non si può procedere alla registrazione senza che siano presenti entrambi. Ma mio fratello abita in un'altra città! Allora deve inviare una procura perché io possa rappresentarlo. Obietto che, se anche mio fratello non mi avesse incaricato di questo adempimento, lo Stato dovrebbe essere contentissimo del fatto che io lo compia. Niente da fare: occorre la procura. Perché? Perché anche su quella si paga l'imposta di registro: altri 168 euro. E se mio fratello fosse venuto di persona? Altri 168 euro anche in quel caso, senza rimedio. E se mio fratello non ne volesse proprio sapere? L'impiegato non risponde; ma i suoi occhi parlano da soli: «Vuole smetterla di formulare ipotesi totalmente estranee a quelle contemplate dal regolamento?».
Chiedo dunque a mio fratello di prendere appuntamento con un notaio per stipulare la procura. Costo: 300 euro per il notaio più i 168 della registrazione dell'atto.

Torno quindi all'Agenzia delle Entrate, convinto di avere superato l'ultimo ostacolo. A questo punto viene effettuato il computo dell'imposta di registro da pagare: di base 472 euro. Ma l'impiegato osserva che nel contratto abbiamo inserito una penale - peraltro assai modesta - per il caso in cui l'inquilino ritardi nei pagamenti. Per questa sola clausola aggiuntiva l'imposta di registro aumenta di 168 euro (e se poi non ci saranno ritardi nei pagamenti? Non importa: l'imposta aggiuntiva va pagata lo stesso). Insomma, alla fine l'imposta da pagare viene determinata in 640 euro più i 168 per la procura. E mi spiegano che per pagarla devo compilare un modulo F23 e andare a fare il pagamento in Banca.

Eseguito diligentemente anche questo passaggio, torno fiero all'Agenzia delle Entrate con il mio F23 timbrato dalla banca. Penso dentro di me: «Ho pagato, ora devono soltanto prendere atto ed effettuare la registrazione». Effettivamente, a questo punto l'impiegato prende a digitare intensamente sul suo terminale. Ma subito aggrotta la fronte: «Lei ha più di nove proprietà immobiliari». «No», rispondo «ne ho solo tre: oltre alla prima casa, un appartamentino in montagna e una casa in Toscana». Già, ma se si contano anche due pezzetti di terreno che vi sono attaccati, due box e due soffitte di cui una adattata a mansarda, si arriva proprio a nove. E ora con l'appartamento della mamma fanno dieci. Devo riconoscere che l'impiegato ha ragione; ma ancora non comprendo dove voglia andare a parare. Me lo spiega impietosamente lui stesso: chi possiede più di nove unità immobiliari non può fare la registrazione allo sportello; può farla solo per via telematica.

Oddio, e ora come si fa? Mi spiegano che devo andare a un altro sportello per chiedere un codice Pin, necessario per eseguire la pratica online. Ma mi avvertono anche del fatto che, eseguendo la pratica in questo modo, il pagamento dell'imposta non può essere effettuato per mezzo del modulo F23: va fatto anche quello online. E io che ha già pagato con l'F23 in banca? Non c'è altro modo per rimediare che quello di chiedere il rimborso e intanto procedere a pagare una seconda volta con l'altro sistema.
Mi sento vessato e persino schernito per questa mia pretesa di registrare da solo (senza consulenti!) un contratto di locazione. In questa gimkana costosissima (più ancora di tempo che di denaro) a cui ho dovuto sottopormi vedo l'arroganza di un'amministrazione alla quale tutto è dovuto dal cittadino-suddito, mentre nulla essa stessa al cittadino deve: non la semplificazione degli adempimenti che un management minimamente capace e attento al benessere del contribuente onesto dovrebbe essere capace di garantire con intelligenza e sollecitudine; non l'informazione completa e tempestiva che un impiegato minimamente diligente e ben addestrato dovrebbe fornire fin dal primo contatto con il contribuente; non l'attenzione a evitare tutti i piccoli e grandi aggravi degli adempimenti, le piccole e grandi complicazioni gratuite, che costano al cittadino sproporzionatamente di più di quanto rendono allo Stato.

Che stupido, questo Stato! Quanto più volentieri pagheremmo le tasse, se avessimo la sensazione che l'amministrazione pubblica si comporta verso di noi con la stessa diligenza, sollecitudine e buona fede che da noi essa pretende!

15 luglio 2013 | 8:11
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Pietro Ichino -

da - http://www.corriere.it/economia/13_luglio_15/mia-odissea-per-pagare-tassa-ichino_0ca29258-ed12-11e2-91ec-b494a66f67a7.shtml
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 14, 2013, 11:24:09 pm »

LETTERA SULLA BUROCRAZIA

I furbetti delle pensioni d’oro e la formula del giusto compenso


Caro Direttore,

nei giorni scorsi il Corriere ha dato conto dettagliatamente di alcuni trattamenti pensionistici davvero impressionanti: molte decine di migliaia di euro al mese. Di fronte a notizie come questa l’uomo della strada — che considera la pensione soltanto una forma di assistenza — rimane attonito e si chiede come queste pensioni possano essere state liquidate e perché esse possano essere mantenute in vita anche in un periodo di «vacche magrissime» come quello che stiamo attraversando.

La realtà è che ci sono «pensioni d’oro» di due tipi, molto diversi tra loro. Se non mettiamo a fuoco la differenza tra i due tipi, la nostra battaglia contro le rendite indebite è destinata a nuove sconfitte, come quella subita ultimamente davanti alla Corte costituzionale: la quale ha ritenuto incostituzionale il «contributo straordinario» del cinque per cento che il Governo Monti aveva imposto sulle pensioni superiori a 90.000 euro annui (dieci per cento su quelle superiori ai 150.000). I casi — dicevo — sono due. Il primo è quello di chi percepisce una pensione molto elevata perché per tutta la propria vita lavorativa ha percepito retribuzioni molto elevate, e ha versato contributi previdenziali in proporzione. In questo caso, la «pensione d’oro» non è altro che una porzione, differita nel tempo, della «retribuzione d’oro» che l’ha generata.

È sbagliato che ci siano retribuzioni d’oro? In certi casi sì (anche se esse tornano comunque subito, per metà, a beneficio di tutti i cittadini, attraverso le tasse); ma in molti altri casi no. Se il signor Rossi ha la capacità di aumentare del dieci per cento la produttività dei mille dipendenti di un’impresa, è interesse anche di questi ultimi che l’impresa stessa ingaggi il signor Rossi pagandolo un milione all’anno.
Staranno meglio sia i mille dipendenti, sia gli azionisti, sia i contribuenti (il problema dell’enorme disparità di reddito che così si determina, e dell’«obbligo di restituzione» che ne deriva, non è di natura giuridica, ma di natura esclusivamente morale e riguarda soltanto il signor Rossi e la sua coscienza). Se poi su quel milione di euro ogni anno per trent’anni vengono versati 330 mila euro di contributi all’Inps, non c'è proprio niente di male nel fatto che, quando il signor Rossi va in pensione, l’Inps calcoli sulla base di quella ingente contribuzione la parte del suo trattamento maturata in quei trent’anni: si tratta solo di una restituzione. E lo Stato? Si accontenti di prelevarne il 45 per cento a titolo di Irpef, come su tutti i redditi personali di quell’entità: questo dice la Corte costituzionale; se poi lo Stato ritiene che questa aliquota sia troppo bassa, la aumenti per tutti. Effettivamente, non si vede il motivo per cui il signor Rossi dovrebbe essere penalizzato più di chiunque altro abbia un reddito dello stesso livello, solo perché il suo è costituito da una retribuzione differita. Il discorso cambia radicalmente se il signor Rossi ha avuto la retribuzione di un milione di euro soltanto negli ultimi dieci della sua vita lavorativa, ma la sua pensione è stata calcolata per intero in proporzione alla retribuzione e contribuzione di quell’ultimo decennio. In questo caso, il signor Rossi si è effettivamente guadagnato soltanto un terzo o un quarto della pensione d’oro che gli viene erogata, mentre la parte restante è sostanzialmente regalata. Questo si chiama «sistema retributivo» di calcolo della pensione; ed è quello che è stato in vigore fino alla riforma Monti-Fornero del dicembre 2011, per tutti i fortunati che hanno incominciato a lavorare e versare contributi previdenziali prima del 1978 (cioè per la generazione di quelli che oggi hanno cinquanta o sessant’anni).

Oggi la maggior parte delle pensioni d’oro nasce proprio dall’applicazione di questo vecchio e sbagliatissimo metodo di calcolo: il signor Rossi incomincia a guadagnare il super-reddito soltanto nell’ultimo periodo della sua vita lavorativa, ma si vede poi calcolata la pensione per intero in riferimento a quell’ultimo periodo. Ecco: questa è la parte della pensione non effettivamente guadagnata; la differenza tra la pensione calcolata in proporzione alle ultime retribuzioni e quella calcolata in stretta proporzione ai contributi versati nel corso di tutta la vita lavorativa.
Su questa differenza può e deve applicarsi un contributo straordinario, che, applicandosi solo su questa parte, può essere determinato anche in misura molto superiore rispetto a quella del cinque o del dieci per cento fissata dal Governo Monti l’anno scorso e poi bocciata dalla Corte costituzionale.

Se il contributo straordinario sarà riferito soltanto a questa differenza, la Corte non potrà non approvarlo, poiché esso non creerà una disparità di trattamento, bensì al contrario ridurrà un privilegio indebito, in un momento di straordinaria necessità. Questo è — insieme ad altre cose — il contenuto di una proposta che ho elaborato con Giuliano Cazzola e Irene Tinagli. Il Governo Letta avrebbe tutto da guadagnare nel farla propria; e nel farla camminare in fretta.

13 agosto 2013 | 11:02
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Pietro Ichino

www.pietroichino.it

da - http://www.corriere.it/opinioni/13_agosto_13/ichino-furbetti-pensioni-oro_5f7ad144-03f5-11e3-b7de-a2b03b792de4.shtml
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« Risposta #41 inserito:: Aprile 07, 2014, 05:27:15 pm »

Ichino: "Serve il reddito minimo di inserimento"
Il Jobs Act arriva al Senato, ma la riforma del lavoro esclude partite Iva e autonomi.
Il giuslavorista di Scelta Civica dice: "Non ha senso escludere dal taglio delle tasse coloro che vivono del loro stipendio e hanno redditi bassi"


Di GIULIANO BALESTRERI

MILANO - Al Senato è arrivato il disegno di legge delega al Governo di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità e alla conciliazione. Si compone di due capi e sei articoli. E' l'altro tassello, dopo il disegno di legge su contratti a termine e apprendistato, del Jobs Act. Il disegno di legge mette mano alla riforma dei più importanti istituti legati al welfare e ai servizi di lavoro, oltre che al riordino dei contratti. Il problema, d'altra parte, è quanto mai urgente e anche gli ultimi dati legati al tasso di disoccupazione - al massimo dall'inizio delle serie storiche Istat con il 13% - mostrano come sia necessario intervenire.

La riforma così come è stata concepita, però, esclude partite Iva e autonomi: "Il decreto è ancora in gestazione. È vero che nell'annuncio iniziale dato dal Presidente del Consiglio il 14 marzo scorso lo sgravio Irpef era indicato come destinato ai soli lavoratori subordinati; ma è anche vero che non avrebbe alcun senso escludere dalla riduzione del prelievo Irpef i lavoratori autonomi della fascia bassa, i quali in molti casi guadagnano meno dei subordinati regolari" dice Pietro Ichino, giuslavorista e senatore di Scelta Civica che aggiunge: "Basti pensare ai giornalisti, i subordinati guadagnano in media più di 40mila euro l'anno; i cosiddetti free lance non arrivano in media ai 10mila euro l'anno".

C'è margine per un intervento in questo senso oppure non ci sono le risorse?
Quali che siano le risorse, esse devono essere destinate prioritariamente a ridurre l'Irpef per tutti coloro che vivono del loro lavoro e hanno redditi di fascia bassa.

Tra vere e finte partite Iva pagare rischiano di essere i piccoli imprenditori e i giovani costretti ad accettare forme contrattuali di qualunque tipo pur di lavorare: le riforme del Jobs Act possono essere una risposta?
Per ora c'è il decreto-legge n. 34 che ha concentrato tutta la flessibilizzazione sui contratti a termine. Forse, in questa fase, per il Governo è stata una scelta politicamente obbligata; ma in Parlamento è probabilmente possibile correggerla e integrarla, introducendo nel decreto anche il contratto a tempo indeterminato a protezioni crescenti; e istituendo un'indennità di cessazione del rapporto proporzionata all'anzianità di servizio, uguale per il contratto a tempo indeterminato e per il contratto a termine senza motivazione: l'ipotesi è una mensilità per ogni anno di durata effettiva del rapporto. In questo modo si aumenterebbe la quota di assunzioni a tempo indeterminato, altrimenti destinate a ridursi ulteriormente.

Alcuni degli economisti che hanno lavorato al Piano Renzi hanno collaborato anche al documento per il reddito d'inclusione attiva: può rientrare davvero nei programmi di governo?
L'Italia ha bisogno urgente dell’istituzione del reddito minimo di inserimento, per allinearsi su questo terreno ai maggiori Paesi europei. Ma questa importantissima riforma è possibile soltanto se si realizzano due condizioni. La prima è che i nostri servizi per l'impiego acquisiscano il know-how necessario per rendere effettiva la condizionalità del sostegno del reddito alla persona disoccupata: "Ti sostengo, ma a condizione che tu sia davvero disponibile per tutto quanto è ragionevolmente necessario per reinserirti nel tessuto produttivo". In altre parole, occorre avviare subito la sperimentazione del metodo del "contratto di ricollocazione". Altrimenti quel sostegno si traduce in un aumento del periodo di disoccupazione, o, peggio, in una sostanziale uscita dei beneficiari dal mercato del lavoro.

Qual è l'altra condizione?
L'altra condizione è che siamo capaci di destinare al finanziamento del reddito minimo di inserimento tutti i fiumi di denaro che fin qui abbiamo speso per fini sostanzialmente assistenziali, in varie forme, ma con effetti prevalentemente dannosi sul mercato del lavoro: cassa integrazione in deroga, pensioni di invalidità fasulle, compensi per "lavori socialmente utili" che in realtà non sono tali, e così via.

(06 aprile 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/04/06/news/lavoro_jobs_act_autonomi-82904989/?ref=nrct-4
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« Risposta #42 inserito:: Gennaio 10, 2015, 03:42:09 pm »

Lettera sul lavoro

Meglio non fratturarsi una gamba (soprattutto alla vigilia di Natale)
L’odissea di un paziente tra la mancata operazione, le ore passate ad aspettare gli antidolorifici, l’impossibilità di trovare sollievo per mancanza di personale


Di Pietro Ichino

Caro Direttore, la vicenda natalizia del signor Bianchi merita una riflessione sulle falle che il nostro sistema sanitario talvolta presenta anche nei suoi punti di eccellenza. 24 dicembre 2014 - una banale caduta in casa, un dolore all’anca sempre più acuto. Il signor Bianchi si fa portare al pronto soccorso del maggiore ospedale ortopedico della città. Una solerte infermiera lo invita a non lamentarsi troppo: «Se fosse una frattura del femore, il piede sarebbe storto»; e così dicendo storce il piede, facendo impazzire dal dolore il titolare. La radiografia smentisce l’infermiera: frattura del collo del femore. Occorre un intervento chirurgico: ricovero immediato.

La prima notte passata con dolori fortissimi
«Ma - avverte subito il medico di guardia rivolto all’infortunato - lei ha scelto il giorno sbagliato per rompersi il femore: domani è Natale, poi c’è Santo Stefano, poi c’è il sabato e domenica, insomma l’operazione si può fare solo lunedì 29. Però non si preoccupi: la sua non è di quelle fratture per le quali occorra proprio intervenire entro quarantott’ore, altrimenti apriremmo la sala operatoria anche di Natale. La sua non è un’urgenza e l’intervento può senz’altro attendere cinque giorni». E il sig. Bianchi viene sistemato nel suo letto, con la prospettiva di restare lì in attesa per tutto il lungo ponte. «Non sarà un’urgenza - dice il paziente all’infermiera che lo assiste in reparto, a notte inoltrata -, ma a me la gamba fa molto, molto male. E questo Toradol che mi avete iniettato mi sembra acqua fresca». «Eh, il primo giorno le fratture del femore fanno sempre molto male - risponde lei, pur gentile e premurosa - bisogna avere pazienza. A me è stata data solo questa prescrizione per il dolore, non posso proprio darle nient’altro». «Allora, per favore, chiami il medico di guardia, che mi prescriva qualche cosa di più efficace. Io così non resisto». «Lo chiamo subito, vediamo se può darle la morfina. Però guardi che non potrà venire molto presto, perché è la notte di Natale ed è solo».

Il dolore fisico dei pazienti viene comunemente considerato quasi irrilevante
Passano le ore, viene ripetuta la flebo di Toradol, il sig. Bianchi si macera nel suo dolore insopportabile. E alle prime luci dell’alba decide che altri quattro giorni così non è il caso di passarli. Neppure se il dolore dovesse ridursi un po’: aspettare non ha senso. Cerca un amico medico e gli chiede di aiutarlo a trovare altrove un’équipe chirurgica disposta a operarlo e una sala operatoria aperta nonostante il ponte. La vicenda - integralmente vera, anche nei dettagli - è molto significativa di come il dolore fisico dei pazienti viene comunemente considerato nei nostri ospedali. Irrilevante lo considera l’infermiera del pronto soccorso, compiendo senza alcuna necessità la «manovra diagnostica» che abbiamo visto. Irrilevante lo considera l’organizzazione sanitaria del grande istituto ortopedico, il cui protocollo non contempla, nell’attesa dell’intervento chirurgico, una terapia del dolore adeguata. Ma - e questo è l’aspetto più sconcertante dell’intera vicenda - irrilevante è considerato il dolore di una persona anche dal collettivo dei dirigenti, medici, paramedici e loro rappresentanti quando stabiliscono che nel grande istituto ortopedico tra Natale e Capodanno, se non è proprio in gioco la vita del paziente, le sale operatorie devono rimanere chiuse per cinque giorni di fila.

Una vicenda su cui riflettere
Nel grande istituto che è teatro di questo racconto arrivano da ogni parte d’Italia circa mille fratture di femore all’anno: mediamente tre al giorno. Oltre al signor Bianchi c’è dunque presumibilmente un’altra decina di persone, femore più femore meno, che hanno «sbagliato giorno» per infortunarsi. Non sono considerate «un’urgenza»: se non hanno la possibilità di andare a farsi curare altrove, stiano pure lì a macerarsi nella loro sofferenza per due o tre giorni in più; non si muore per così poco. Quest’ultimo è - a ben vedere - il risvolto più grave della vicenda. Perché nei giorni tra Natale e Capodanno i treni e gli aerei vanno ininterrottamente, i ristoranti servono pasti, sono aperti i cinema e le sale da concerto. Dunque si ritiene che far godere le feste alla generalità delle persone sia «un’urgenza» sufficiente per giustificare il sacrificio delle feste stesse per alcune di esse. Non è invece considerata «un’urgenza» di pari rango l’esigenza di togliere una persona dall’alternativa tra un dolore lancinante e continuo e la morfina che sospende la vita di dodici ore in dodici ore. Per lo meno, non la considerano tale gli estensori dei regolamenti e contratti che regolano il lavoro nell’istituto ortopedico metropolitano d’eccellenza. Una cosa è certa: l’eccellenza sanitaria dovrebbe misurarsi non solo sul successo nel procurare la guarigione, ma anche sui tempi e modi in cui ci si prende cura del puro e semplice dolore del malato.

3 gennaio 2015 | 16:13
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Da - http://www.corriere.it/salute/15_gennaio_03/meglio-non-fratturarsi-gamba-soprattutto-vigilia-natale-463058b8-9359-11e4-8973-ae280e1dba84.shtml
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