Admin
Utente non iscritto
|
|
« inserito:: Settembre 15, 2008, 11:34:44 am » |
|
La società civile contro la mafia
Anche il piccolo commercio ora si ribella al «pizzo»
Palermo, così si estende il «no» al racket
DAL NOSTRO INVIATO
PALERMO — Le testimonianze raccolte nell'aula-bunker dell'Ucciardone, con i taglieggiati che hanno riconosciuto e indicato al giudice i taglieggiatori, sono ormai agli atti. Ora si aspettano il rinvio a giudizio e il processo. Ma un primo risultato storico è stato già raggiunto. Per la prima volta, su 46 commercianti e imprenditori costretti a pagare il «pizzo» alla mafia palermitana, più della metà ha collaborato con investigatori e inquirenti, accusando boss e picciotti protagonisti del racket. Ventiquattro di loro, con nomi e cognomi pubblicati sui giornali dopo l'arresto del campomafia di Palermo ovest Salvatore Lo Piccolo e la scoperta dei suoi libri-mastri, hanno ammesso e raccontato come, quanto e a chi pagavano la tassa imposta da Cosa Nostra. Gli altri rischiano il rinvio a giudizio come favoreggiatori, insieme ai 48 estortori finiti in carcere negli ultimi mesi.
«E' un avvenimento senza precedenti », spiega l'avvocato Ugo Forello, che col collega Salvo Caradonna rappresenta le parti offese nei processi. Che poi aggiunge: «Non bisogna fermarsi. Oggi c'è una straordinaria coincidenza di condizioni favorevoli, dall'azione delle forze dell'ordine e della magistratura all'esistenza di efficaci strutture di supporto, fino al sostegno della società civile. E' un'occasione unica, e per questo dico: ora o mai più».
Ora o mai più è un riferimento alla possibilità di affondare la mano nel mondo del racket, facendo emergere il controllo mafioso sommerso (ma neanche tanto) su una città in cui sembra di respirare aria di liberazione. Gli aderenti ad Addiopizzo e i responsabili dell'Associazione Antiracket hanno riempito Palermo di adesivi con la scritta «Liberazione in corso - Continuiamo a denunciare il pizzo» nell'anniversario dell'omicidio di Libero Grassi, l'imprenditore assassinato il 29 agosto 1991 perché ritrovatosi solo contro i boss. E hanno indicato sulla piantina della città gli esercizi commerciali i cui proprietari hanno accusato gli estortori (circa 50 nell'ultimo anno) o dichiarato pubblicamente il proprio rifiuto di pagare, oltre 300. Ne è venuta fuori l'immagine plastica di un'estensione della rivolta civile inimmaginabile fino a poco tempo fa. Certo, chi si sottomette è ancora in maggioranza, ma quella carta mostra una macchia di libertà in via di espansione nella capitale della mafia. E chi vuole scrollarsi di dosso il giogo delle cosche lo sottolinea senza enfasi, perché la battaglia sarà ancora lunga, ma con la convinzione che qualcosa d'importante si sta realizzando.
«Chiediamo a tutte le associazioni di categoria di seguirci su questa strada — dice Enrico Colaianni, presidente dell'Associazione Antiracket palermitana —, e alla Confindustria regionale che ha annunciato la coraggiosa decisione di voler espellere chi paga il pizzo di non fermarsi alle cifre dichiarate, ma di produrre risultati maggiori e concreti. Senza limitarsi a operazioni di facciata. Anche perché nel mondo della grande impresa chi sceglie o accetta di denunciare rischia ancora di rimanere escluso da commesse e appalti importanti. Non potremo dire di aver vinto finché non ci saranno segnali tangibili e irreversibili di non voler più convivere con un fenomeno considerato finora come un costo aggiuntivo d'impresa. Adesso finalmente si sta diffondendo l'idea che sia un disvalore economico e sociale, e come tale va trattato e sanzionato ».
In una delle sue ultime uscite pubbliche, davanti al ministro dell'Interno, il presidente onorario delle Federazione Antiracket Tano Grasso ha ribadito la necessità di «stabilire per legge l'obbligo della denuncia», con tanto di procedure amministrative contro chi si sottrae. E se nel frattempo il Comune di Palermo guidato dal centrodestra decidesse di costituirsi parte civile nei processi contro gli estortori, come richiesto più volte dai legali di Addiopizzo e da una delibera del consiglio comunale, sarebbe un altro passo avanti. Nell'ultimo anno, nei dodici processi in cui al fianco della parti offese sedevano anche gli avvocati dell’Antiracket, sono stati condannati 93 dei 114 imputati, che si sono visti infliggere 815 anni emezzo di carcere e un ammontare di risarcimenti a favore della Federazione di 136.000 euro. Cifre in cui vanno considerati gli sconti di pena concesso grazie ai riti abbreviati e dei risarcimenti riconosciuti dai giudici ma non ancora quantificati. Ancora in corso sono altri 5 procedimenti contro 36 imputati e 9 inchieste su 131 indagati.
Tra le testimonianze raccolte per il processo agli estortori del clan Lo Piccolo, particolarmente significative sono quelle di chi ha denunciato per la prima volta i mafiosi - ammettendo così di pagare il «pizzo» - anche di fronte ai propri familiari. Il titolare di un bar-tabaccheria non aveva confidato nemmeno a sua moglie che quell’uomo che veniva ogni giorno a prendere il caffè, tanto gentile e affabile, era l’esattore di Cosa Nostra. Un imprenditore ha raccontato che chi riscuoteva la tassa mafiosa era un vecchio compagno di giochi, poi arrestato e condannato per omicidio, che dopo vent’anni di galera gli si è presentato a pretendere soldi. Impunemente, come niente fosse. Un commerciante ha rivelato di aver riallacciato i rapporti con la figlia proprio grazie alla scelta di denunciare («era raggiante», racconta l’avvocato Forello). E un altro, il quale si vergognava davanti al figlio studente di Giurisprudenza quando il suo nome comparve sul giornale nella lista di chi era sottomesso alla legge del racket, dopo la denuncia s’è sentito dire dal ragazzo: «Tranquillo papà, vai avanti. Anzi, avresti dovuto farlo prima». Sono i segni di un ricambio generazionale anche tra le vittime del «pizzo »: i giovani cresciuti all’indomani della stagione delle stragi e del terrorismo mafioso mostrano di aver acquisito una coscienza che li porta a rifiutare la convivenza e la connivenza con l’Antistato chiamato Cosa Nostra.
Nell’aula dell’Ucciardone, al difensore di un imputato che voleva sapere quali minacce concrete il suo cliente gli avesse fatto per taglieggiarlo, un imprenditore che scuciva qualche migliaio di euro all’anno ha risposto: «Nessuna promessa esplicita di violenze, avvocato. Ma se con questo lei vuole intendere che quindi io pagavo di mia volontà, allora le dico che non ha capito niente. Non mi hanno mai puntato la pistola in faccia, ma la minaccia era implicita in chi mi chiedeva i soldi, e nel fatto stesso che lo faceva senza averne alcun titolo». E’ il famoso «contesto» mafioso, tanto più forte in zone e borgate come quelle di San Lorenzo, Partanna Mondello, Tommaso Natale e Sferracavallo, dove era noto il controllo dei Lo Piccolo e dove tutti conoscono tutti. Un «contesto» che forse, adesso, comincia a incrinarsi. E che fa insistere l’avvocato Forello sul tasto che adesso non bisogna fermarsi: «Perché potremo dire di avere sconfitto il pizzo non quando non ci sarà più nessuno a pretenderlo, ma quando non ci sarà più nessuno disposto a pagarlo».
Giovanni Bianconi 15 settembre 2008
da corriere.it
|